Autori contemporanei
affermati, emergenti ed esordienti

Manuela Raffa

Con questo racconto si è classificata al terzo posto al concorso Città di Melegnano 1999 sez. narrativa

 
 
L'incubo
 
Chissà cosa c'era là dentro.
La porta era chiusa, circondata da un silenzio quasi inviolabile, mistico.
Pareva che nessuno avrebbe mai potuto avere il coraggio di far scorrere la maniglia lentamente, da un lato, per spingere il duro materiale grigio della porta o di chiudere le dita intorno al battente per rompere il silenzio.
Che strano silenzio.
Avrebbe voluto urlare, ridere, prendere un tamburo e batterlo fino a quando le forze in corpo le si fossero consumate.
Che fare?
Il suo destino sembrava proprio prendere in direzione della porta. La sua mente non prese nemmeno in considerazione l'opportunità di sedersi per terra e attendere il corso degli eventi, se qualcosa sarebbe accaduto autonomamente.
NO. AVANTI. Poteva solo andare avanti.
quindi doveva affrontare il problema della porta.
Andare indietro non era possibile. Chissà poi perché?
Doveva bussare o tentare di scoprire se fosse già aperta?
Bussare le sembrò assolutamente stupido. Ritirò la mano che aveva sfiorato il battente a forma di anello con una strana pietra al centro, molto, TROPPO simile a un occhio chiuso.
Le era parso un gesto di educazione, ma non riuscì a focalizzare con chi avrebbe dovuto essere gentile e rinunciò.
Magari era aperta e sarebbe potuta entrare senza disturbare l'abitante al di là della porta, se qualche essere era presente; forse provocando rumore l'avrebbe irritato, richiamato, rischiando di trovarsi in una brutta situazione.
Afferrò la maniglia. Maledizione, che schifosa sensazione... di... di... materia viscida.
Si sbrigò e spinse. In un estremo silenzio, quasi fosse senza peso, la porta scivolò sui cardini.
La nebbia presente non le permise di scorgere alcunché.
Provò a sforzare la vista socchiudendo le palpebre, ultimo tentativo per non buttarsi in quel luogo del tutto sconosciuto. Che stranezza, la nebbia sembrava frenata dalla porta. Oltre la soglia non riusciva a penetrare, arrivava come sospinta da un venticello e, non appena stava per traversare nel posto dove si trovava, invertiva rotta tornando indietro, come se si fosse scontrata con uno schermo invisibile.
Provò a tastare con il piede il terreno al di là della porta per non andare a sbattere il muso contro una barriera che il suo occhio non poteva scorgere.
Il piede avanzò senza problemi; tese il braccio e provò ad acchiappare con la mano chissà che.
Ingoiata la paura si vestì di tutto il coraggio che aveva nelle vene e valicò la soglia.
Procedeva tenendo le pupille spalancate per percepire il minimo pericolo, le orecchie aperte per non lasciarsi sfuggire il più lieve rumore.
L'aria era impregnata dall'umidità causata dalla fitta nebbia, che turbinava tutt'intorno in maniera poco naturale, il vento la sferzava con le sue dita gelide e prive di gentilezza buttandole i capelli negli occhi e in bocca, la terra che le sue suole calpestavano era nera come la notte e priva di vegetazione.
All'improvviso la nebbia cominciò a diradarsi e le fu possibile scorgere il cielo color pece che la sovrastava.
Non una stella, niente luna. Tutt'intorno nessuno, qualche ciuffo d'erba iniziò ad affacciarsi dal terreno come chiedendo permesso tra gli esseri viventi. Davanti ai suoi occhi si delineò sempre più nettamente un cancello.
La nebbia divenne quasi inesistente, concentrata solo in piccoli spazi, come se non riuscisse ad allontanarsi da quei luoghi in modo definitivo.
Il cancello si aprì senza produrre il minimo scricchiolio né fischiò; quel fischio sinistro, che di solito inseriscono nei film dell'orrore. Non c'era nemmeno quello, quanto avrebbe voluto che ci fosse! Sarebbe stato normale, tipico.
Invece no.
Silenzio.
Il silenzio più assoluto.
L'ambiente era pieno di pietre grigie, giallognole, non riusciva a capirlo con esattezza. Sopra le pietre erano incise delle parole che il tempo aveva cancellato e rese illeggibili. Fissò lo sguardo su un'edera rampicante che grattava la schiena di... ma cos'erano? Cosa potevano essere?
Quando scorse un teschio per terra, accanto a una parte di terreno un po' scavato, capì.
La simpatica edera rampicante dimorava su una tomba. Era in un cimitero. Si girò per tornare di gran capire dove fosse: il cancello era scomparso. Intorno c'erano solo quelle maledette tombe dall'aria poco amichevole e pacifica, non c'era la benché minima traccia di sentiero. Come era possibile? Come si era persa? Senza fare più di due passi in avanti dopo il cancello?!?!?!
Il cielo aveva assunto una strana tinta viola tra il nero che era stato la regola fino a quel momento.
Si sentì osservata alle spalle, si voltò di scatto e rimase a bocca aperta. Una figura si stagliava in lontananza e procedeva nella sua direzione divenendo sempre più nitida.
L'andatura del personaggio era più che tranquilla, come se stesse facendo una passeggiatina in un giardino fiorito, un mantello gli svolazzava ai fianchi, viola all'esterno come il vestito che indossava e rosso all'interno. Una camicia bianca dal grande colletto a sbuffo nascondeva una parte del viso ed era tenuta a bada da un panciotto del viola del vestito. Si fermò tra due tombe, attorniato da sprazzi di nebbia più fitta all'altezza dei piedi, con sfumature di un blu proveniente da chissà dove.
Il suo volto... il suo volto... NON C'ERA! Al suo posto la notte, un ovale di notte circondato da una chioma scomposta di capelli corvini che si intravedevano per il contrasto prodotto con la nebbia.
Fu sopraffatta dall'angoscia... quel niente... era insopportabile!
L'annientava. Abbassò gli occhi, scorse un orologio attaccato al panciotto dell'essere, tenuto aperto proprio verso di lei... segnava la mezzanotte. Non poté non alzare di nuovo gli occhi. Quel nulla la travolse, un senso di strazio forte come un uragano sembrava spezzarle l'anima a brandelli.
BASTA! BASTA! BASTA! La sensazione di rompersi dentro... si placò non appena aprì gli occhi. Nella camera il buio era spezzato solo dalla debole lucina prodotta dalla sveglia che le comunicava che erano le sei. Il lenzuolo che aveva sollevato fino al naso quando si era sdraiata per il meritato riposo era a terra, le gambe nude sotto la vestaglia avevano freddo. Un incubo! Mai sognato nulla del genere! Non sapeva nemmeno come doveva definirlo. Avvertiva ancora pressante una sensazione di inadeguatezza, come se si trovasse nel posto sbagliato al momento sbagliato.
Come se qualcosa le mancasse, come e non fosse nel pieno delle sue facoltà. «Al diavolo!» pensò «Mi passerà. È inutile tornare a dormire, è meglio che inizi a prepararmi per andare al lavoro».
Si sistemò con estrema, pacata calma, anche se il tempo le parve essersi spiacevolmente velocizzato.
In perfetto orario era seduta sulla poltrona di velluto del suo austero ufficio. Fu sommersa di telefonate, scocciatori, affari da sbrigare: la norma.
La sua ditta procedeva a gonfie vele, era un capo perfetto. Eppure... eppure... eppure... era sommersa, soffocata, avvinghiata dal suo lavoro. Le ore della vita si ripetevano per lei immancabilmente con lo stesso ritmo, aspetto, conformazione. Nessuna variante. Nessun cambiamento.
Lavoro. Lavoro. Lavoro. Lavoro. Lavoro. Lavoro. Lavoro...
La giornata finì senza che quel senso di insoddisfazione si fosse dissipato. Quando era cominciato? Non riusciva più a ricordarlo. Quando avrebbe mai avuto fine? Sarebbe stato bello! Perché quel sentirsi in una vita che non si era mai desiderata rendeva vuoti, tremendamente vuoti.
Non aveva voglia di niente. Non ambiva niente. Voleva solo cambiare, ma non sapeva quale doveva essere l'inizio ed era convinta che non l'avrebbe trovato. Sarebbe sempre vissuta in quel modo, sarebbe invecchiata e sarebbe morta con quel senso di niente nella pelle. A che serviva? A chi serviva? Se fosse morta qualcuno se ne sarebbe accorto? O sarebbe stata una tomba in più?
Arrivò a casa distrutta da quei pensieri.
Almeno era un diversivo. Si sentiva a pezzi; da quanto non capitava? L'angoscia la soffocava, un dolore inaudito la sopraffece. Doveva scappare, in qualche modo. In qualsiasi modo. Un coltello in mano le comparve come d'incanto. Ma sì, perché no? In fondo contava solo di fuggire, il come era in secondo piano.
La vena le si aprì senza un moto di protesta, il sangue le macchiò la giacca immacolata e fu come un campanello d'allarme: si stava sporcando! Stava sporcando la sua giacca più bella? Come l'avrebbe lavata, poi?
Come... come... cosa stava facendo?
Cadde a terra. Stava morendo... stava morendo! Qualcuno... qualcuno doveva aiutarla! AIUTO! Aveva bisogno di AIUTO!
«AIUTO!» gridò non appena aprì gli occhi. Si passò una mano sulla fronte madida di sudore e cercò di mettere ordine nei pensieri confusi. Che roba! Aveva sognato di svegliarsi da un incubo per farne un altro!
Scostò con un gesto deciso il lenzuolo a fiorellini e si vestì in fretta; dimenticare l'incubo sarebbe stato più facile non appena si fosse immessa nell'intrico della vita.
Quando arrivò in strada notò qualcosa di strano: non c'era nessuno. Che ore erano? Aveva sbagliato e si era alzata alle cinque? Non era possibile: il sole era alto! Guardò il suo orologio da polso e rimase a bocca aperta: l lancette erano scomparse. Il quadrante era senza numero. C'era solo il disegnino di una fragolona circondata da quattro fragoline con un po' di verde intorno.
Si voltò a destra e sinistra come in cerca di aiuto, ma non lo trovò da nessuna parte. Le case erano mute, un enorme silenzio circondava le strade, non una macchina circolava, non una voce trapelava da qualche angolo.
Cominciò a correre come una forsennata, alla ricerca di un orologio da consultare, di una persona con cui condividere la sua incredulità e quel senso di panico crescente.
Arrivò nella piazza del municipio e sollevò lo sguardo per scorgere l'orologio. Non c'era. Era crollato: i pezzi sparsi a terra simili a macerie dell'antichità dovevano essere ciò che ne era rimasto. Nella sua corsa non aveva incrociato anima viva.
Non c'era nessuno.
Non c'era più nessuno.
Che scherzo era mai? Dove erano andati a finire tutti?
Entrò in una casa, la porta non era stata nemmeno chiusa.
Sembrava in perfetto ordine, i libri sugli scaffali di una discreta libreria, delle carte su una scrivania di mogano, gli utensili da cucina riposti con cura nei loro contenitori. Girò più case, trovò ovunque lo stesso esasperante ordine, come se i padroni di casa, prima di andarsene, avessero sistemato ogni particolare.
Tornò in strada. Chissà se qualcuno stava compiendo la sua stessa disperata ricerca: non poteva essere rimasta completamente sola!
Tale pensiero la riempì di angoscia. Cosa avrebbe fatto se fosse stata quella la realtà? Si sarebbe uccisa? Era quello il significato dello strano sogno della notte appena sfumata? Doveva uccidersi per sfuggire a quell'orrore intessuto di solitudine?
Non poteva crederci. Ricominciò a correre per scaricare una parte della tensione a dissipare i pensieri peggiori.
Doveva trovare qualcuno. Era scontato, qualcuno doveva pur esserci. Non potevano essere spariti TUTTI nel nulla nel giro di una notte. Era assurdo, inspiegabile. Completamente fuori da ogni logica razionale. Forse sarebbe impazzita.
Avrebbe perduto la ragione in quel suo cercare inconcludente e senza fine.
La stanchezza le piombò in corpo come un mantello che colpisce con precisione. Scivolò lentamente a terra e si sdraiò guardando il sole che la salutava da lontano sfiorandola con i suoi tiepidi raggi primaverili.
Riprese fiato e cercò di non far fluire i pensieri: sarebbe stato lacerante. Eppure una frase arrivò, con prepotenza affermando la propria autorità senza pietà: ERA SOLA.
Si coprì il volto con le mani e si domandò cosa sarebbe stato di lei. Cosa avrebbe fatto? Perché a lei? Perché era capitato proprio a lei? Chi era? Perché era accaduto? Per quale motivo? Perché? Perché?
Cominciò a piangere e urlare, un ululato di sapore animalesco. I palazzi e le case vuote furono riempiti da quei suoni ormai innaturali per l'eterno silenzio che albergava in ogni dove. Le finestre non accennarono ad alcun segno di solidarietà e le case rimasero mute.
Cessò di urlare, ma non si tolse e mani dal viso. Non voleva guardare, non voleva rendersi conto di quello che la circondava. Rimase in quella posizione per delle ore; la pelle le si tirava: si stava bruciando. Il sole, implacabile, non aveva avuto compassione e aveva sferzato la sua pelle bianca rimasta troppo esposta.
Doveva cambiare assolutamente posizione, il dolore diventava sempre più fastidioso e reale.
Si tolse le mani dalla faccia e... si trovò a letto.
La stanza era buia, silenziosa, fresca.
Il campanile di una chiesa vicina le comunicò che erano le tre del mattino. Allora...
Si alzò ed aprì la porta per accedere al soggiorno.
Che singolare sensazione... c'era qualcosa di strano...

 

Classifica Concorso Città di Melegnano 1999 sezione narrativa
 
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inserito il 2 novembre 1999