Autori contemporanei
affermati, emergenti ed esordienti

Luisa Genovese
Con questo racconto ha vinto il quarto premio al concorso
Marguerite Yourcenar 2005, sezione narrativa

«Persecuzione»


All'inizio non aveva dato importanza a quegli incontri. Miriadi di persone si sfiorano nell'arco di una giornata innumerevoli volte, e senza conoscersi né riconoscersi. Flussi che vanno e vengono, sospinti dalle necessità o dal desiderio di fare una cosa piuttosto che un'altra, di andare a destra o a sinistra, per strade solitarie o per strade frequentate, in piena libertà.
Poi l'occhio distratto aveva cominciato ad avere qualche sussulto, qualche guizzo, ogni qualvolta si scontrava con quell'immagine, la identificava come ricorrente, la selezionava dal mucchio, infine la riconosceva. Era quella, "lei".
Veniva avanti lentamente, come controvoglia. Era bassa, di statura e non portava mai tacchi ma delle strane scarpe dalla suola grossa e dalla punta gonfia e arrotondata che la facevano tanto somigliare a Topolino, sì, proprio lui, Mickey Mouse, ed accentuavano la riluttanza dei passi. Indossava sempre pantaloni ampi che si afflosciavano intorno alle gambe e l'avviluppavano come a volerla trattenere verso il basso. L'altra metà del corpo lei, Laura, l'aveva ignorata per molto tempo perché non era quella che gliela rendeva riconoscibile. Strana cosa. In genere ciò che ci colpisce per prima di una persona è il volto, lo sguardo, insomma, tendiamo verso l'alto, almeno all'inizio.
E invece, non avrebbe saputo dire di che colore la donna avesse gli occhi né quale fosse la forma del naso, della bocca. Dovendo ricostruire a memoria la sua immagine, avrebbe oscurato la parte superiore, tranne i capelli, di una sfumatura di un rosso indefinibile, corti, rigonfi intorno alla testa come un casco da ciclista.
Era una persona che non suscitava alcun interesse, una delle tante, quelle che si definiscono un tipo comune, la cui presenza passa di solito inosservata proprio perché prive di qualsiasi elemento che possa attirare l'attenzione. L'abbigliamento? Sì, forse, perché poco adatto alla sua figura. Ma quanta gente c'è che si veste in modo inappropriato? Eppure questo, dopo la prima volta, finiva col passare inosservato. Tanto, non faceva che ripetersi, nella foggia e nei colori, così da sembrare sempre uguale. Non avrebbe saputo dire se era quello del giorno precedente e non gliene importava neppure.
L'indifferenza iniziale, aveva cominciato a tramutarsi gradualmente in sospetto per il reiterato incomprensibile ripetersi di alcune circostanze.
Andare per strada a passo rapido e veloce, era un'abitudine cui Laura non sapeva rinunciare, neppure quando non aveva alcuna fretta e se trovava davanti a sé un gruppo di persone che la costringeva a moderare l'andatura, non si rassegnava facilmente. Tentava le più azzardate evoluzioni per mantenerla.
C'era sempre qualcuno però che le impediva la volata finale, un qualcuno che inaspettatamente decideva di cambiare direzione proprio nel momento in cui lei, adocchiato l'unico varco libero, vi si era buttata con slancio. La collisione era inevitabile ed altrettanto lo erano le scuse, biascicate a mezza bocca, per cercare di controllare l'irritazione del tono. Quelle persone erano per lei sagome poste lungo il percorso, ostacoli da schivare nell'intricato slalom in cui era impegnata. Non le interessava sapere chi fossero.
Fino a quando non aveva cominciato a distinguere, nei suoi ostacoli, qualcosa di familiare o meglio, di ricorrente. Non sapeva bene cosa, se un viso, un'andatura, quella lenta senz'altro... le scarpe, un paio di scarpe ingombranti. Quelle scarpe erano sempre presenti nei suoi scontri e quindi sempre presente era la loro legittima proprietaria, a meno che tutte le donne non portassero le medesime scarpe. E questo lo escludeva, perché erano talmente strane e brutte, che non era possibile piacessero a troppe persone.
Ed ecco era accaduto, ancora, di nuovo, e quelle scarpe, erano lì, davanti ai suoi occhi. Questa volta, Laura non aveva tentato la volata, anzi, aveva rallentato il passo per osservare bene la donna ed assicurarsi che fosse proprio la stessa, quella sempre presente sul suo cammino. Era lei; evidentemente i loro orari coincidevano ed anche il percorso, in genere il solito. Aveva scoperto che abitava nelle vicinanze di casa sua e quindi erano costrette a fare lo stesso tragitto per raggiungere il centro. Lì però le mete si diversificavano, dunque ognuno per la propria strada.
Col passare dei giorni, aveva notato che gli incontri si replicavano al di fuori dello spazio comune, in luoghi che lei frequentava occasionalmente, di rado. Era la persona in cui s'imbatteva per prima anche in quel caso o che vedeva apparire subito dopo, col suo passo lento, strascicato.
Aveva cominciato a provare una sensazione di disagio. La serie delle coincidenze si ripeteva un po' troppo, tanto da insinuarle qualche dubbio, qualche sospetto.
Un giorno in cui, fortuitamente, aveva cambiato strada, aveva finito col ritrovarsela intorno. Da quel momento, ogni mattina, prima di uscire, studiava un percorso nuovo che avrebbe dovuto metterla al riparo dallo spiacevole incontro. Ma non c'era piano, anche il più imprevedibile e complicato, che non si rivelasse inutile e deludente. Il disagio di Laura si era tramutato in irritazione. Niente l'avrebbe salvata da quella fastidiosa presenza? Aveva deciso: non avrebbe più frequentato negozi ed uffici della zona. Il quartiere era così grande da darle l'opportunità di allontanarsi, e pure di molto. Le sembrava una buona soluzione ed anche un modo di scoprire se era realmente oggetto di ciò che ormai riteneva una forma di pedinamento, di persecuzione. L'indomani, appena uscita, si era diretta alla fermata dell'autobus. C'erano delle persone ferme ad aspettare. Le aveva osservate bene. Niente spiacevoli sorprese, poteva rilassarsi. All'apparire del mezzo, il gruppo si era radunato, ciascuno era salito. C'erano pochi viaggiatori. Laura si era seduta nella prima fila di posti, da sola. L'ampio vetro panoramico le consentiva una visuale completa della strada e dall'alto, tutto le appariva in una prospettiva diversa. Luoghi inosservati, sconosciuti,quasi, rivelavano aspetti particolari, interessanti che nelle sue veloci peregrinazioni a piedi non aveva mai notato. Era sempre più soddisfatta della sua scelta, tranquilla e rilassata come non le accadeva da diversi giorni quando si trovava fuori. Si sarebbe fermata da quelle parti a fare le sue compere. Avrebbe trovato senz'altro un supermercato nelle vicinanze.
Dopo qualche minuto, era scesa. Si era guardata intorno, aveva individuato l'insegna, vi si era diretta. L'ambiente era vasto, poco affollato, file di scaffali sovraccarichi sembravano allungarsi all'infinito.
Dopo un giro a vuoto, aveva scoperto la direzione giusta. Cercava lo sciroppo d'acero, un lusso che si concedeva di tanto in tanto quando voleva rendere speciale la sua prima colazione. Era confezionato in piccole bottiglie di vetro scuro dalle dimensioni tanto minuscole da renderne difficoltosa la ricerca. Ripetendo a mezza voce «Sciroppo d'acero, sciroppo d'acero...», Laura stava col viso attaccato al ripiano e ne scrutava attentamente ogni anfratto per individuare la preda. Ad un tratto, una mano si era protesa a porgerle la tanto sospirata bottiglietta. Aveva sorriso e si era preparata a ringraziare il soccorritore che aveva captato la sua sussurrata invocazione. Aveva alzato lo sguardo: "lei", era "lei". Stentava a crederci ma subito gli occhi erano corsi alle scarpe. Le sue, non c'era ombra di dubbio. Abbandonando di colpo, la bottiglietta sul ripiano, si era allontanata a passi rapidi raggiungendo l'uscita, col cuore in tumulto. Un misto di rabbia e di delusione le mordeva la gola, le impediva il respiro.
Lentamente aveva riacquistato il dominio di sé, delle proprie emozioni, aveva cominciato ad analizzarle, le aveva ritenute eccessive, assurde, quasi. Perché caricare di significati misteriosi una banale coincidenza, perché immaginare minacce inesistenti?
«Sì, però...». Nessun però, non trovava nessuna argomentazione che potesse giustificare il suo comportamento. Perseguitata, e da chi, poi? Da Mickey Mouse! D'improvviso le era venuto da ridere; la risata le era gorgogliata nella gola a lungo, provocandole sussulti ripetuti, singhiozzi d'allegria.
Aveva spalancato la porta di casa canticchiando e davanti allo stupore della madre, allibita nel vederla arrivare a mani vuote, l'allegria repressa era esplosa finalmente in tutta la sua forza, in una incontenibile fragorosa risata, alimentata dall'espressione sempre più allarmata della donna che continuava a ripetere: «Ma Laura... Laura... Laura...», girandole intorno senza osare sfiorarla.
Era passata una settimana da quell'episodio Era uscita, rientrata, aveva girovagato in lungo e in largo senza fare strani incontri ed aveva finito per liberarsi del tutto delle sue oscure fantasie. Dopo un inizio tetro e piovoso, le giornate autunnali si erano fatte dolci e tiepide, illuminate da un sole festoso che trasmetteva una forte carica di energia,voglia di muoversi, di camminare. Laura faceva lunghe passeggiate senza una meta prefissata, seguendo l'istinto del momento, e di tanto in tanto, sostava pochi attimi su un muretto o, quando c'era, su una panchina a godere dell'effetto benefico di quei raggi delicati verso i quali protendeva il volto, ad occhi chiusi, per assaporarne la piacevolezza.
Avvolta da quell'aura benefica dentro la quale si sentiva protetta da ogni influsso negativo, aveva percepito una mattina, accanto a sé, un lieve fruscio seguito da un sospiro di godimento ed aveva sorriso al pensiero che quella sensazione di benessere era veramente contagiosa. Poi aveva aperto gli occhi, pronta a condividere la sua impressione con la persona che le stava accanto. Una scarica elettrica l'aveva attraversata tutta, facendola balzare in piedi. «Lei», rieccola. Era scappata via, veloce. Lungo la strada il passo aveva ripreso un'andatura normale ed anche la sua mente aveva ripreso a funzionare con normalità, facendole, ancora una volta, notare l'anomalia delle sua reazione. Che cosa scattava in lei alla vista di quella donna? Quale oscura incomprensibile ragione la spingeva a vedere la sua presenza come una minaccia? Non trovava una spiegazione. O forse non ce n'era alcuna.
Il morso dell'ansia aveva però cominciato a farsi sentire di nuovo, non appena usciva di casa, le impediva di muoversi liberamente, rendeva i suoi passi lenti ed incerti. Ad ogni incrocio si fermava, si chiedeva, esitante, quale direzione poteva essere più sicura, depistante. Faceva lunghi giri per evitare le vie più frequentate, più a rischio di incontri sgradevoli, si allarmava ogni qualvolta vedeva arrivare qualche persona in lontananza.
In effetti "lei" non l'aveva più incontrata ma non aveva importanza, l'avrebbe potuto incontrare da un momento all'altro, all'improvviso. O forse si nascondeva, la seguiva a distanza per spiare i suoi spostamenti. Non bastava scrutare davanti a sé, doveva guardarsi alle spalle. Allora, di tanto in tanto, si fermava per sbirciare dietro o svoltava di colpo in una via laterale per far perdere le tracce all'invisibile pedinatrice. La voglia di uscire scemava, però, di giorno in giorno, anche se Laura inventava mille pretesti per non ammetterne la vera causa. Aveva cominciato a chiedere alla sorella di sbrigarle qualche incombenza, adducendo malesseri inesistenti.
Ma quando la richiesta si era fatta consuetudine, aveva ricevuto un secco rifiuto perché, in effetti, era lei ad avere più tempo disponibile. Non aveva impegni di lavoro, limiti di orario, perché doveva complicare la vita degli altri?
Non aveva scelta. Un aiuto inaspettato glielo aveva offerto la visita di una vecchia amica che le aveva chiesto ospitalità per un breve soggiorno. In sua compagnia, aveva trovato il coraggio di varcare di nuovo la soglia di casa con animo sollevato. Come si stava bene fuori! Muoversi, camminare, come aveva potuto rinunciarvi? Non l'avrebbe più fatto, avrebbe ripreso la sua vita, quella di sempre, nessuna "lei" glielo avrebbe impedito.
Clara era partita con la promessa che sarebbe ritornata presto a trovarla, a meno che Laura non si fosse finalmente decisa a raggiungerla a Pisa. Sarebbe stato divertente riunire il vecchio gruppo di amici e trascorrere insieme qualche piacevole serata. «Vedremo», si era limitata a rispondere. Sapeva bene, però, che la cosa era molto improbabile, non aveva alcuna voglia, in quel momento, di rivedere i suoi ex compagni di università. La umiliava il confronto con loro che da tempo praticavano un'attività professionale mentre lei era ancora alle prese con lavori saltuari e colloqui deludenti che mortificavano le sue aspirazioni. Eppure non erano partiti da posizioni così distanti. Anzi, a ben vedere, era stata sempre lei quella a cui si rivolgevano per avere aiuto e spiegazioni nel corso degli studi. Possibile che la preparazione conquistata con tanta fatica e sacrificio non contasse nulla ogni qualvolta si presentava per un colloquio di lavoro? Che cosa c'era in lei che non funzionava, che la rendeva poco credibile?
"La ringraziamo e ci metteremo in contatto quando ne avremo bisogno". Era stata sempre questa la conclusione ma nessuno l'aveva mai chiamata: non avevano bisogno di lei.
E quel pomeriggio aveva un ennesimo colloquio. A giudicare dai requisiti elencati nell'annuncio, era la candidata ideale. Niente illusioni, però, se ne era fatte fin troppe. Ciò non escludeva che doveva mettercela tutta, presentarsi bene. Avrebbe cominciato dall'aspetto. L'aspetto era importante, doveva trasparire quella cura di sé che avrebbe dovuto prefigurare anche cura del proprio lavoro ed attenzione per gli altri, clienti o compagni di lavoro che fossero. Aveva selezionato con attenzione i capi di abbigliamento che riteneva più adatti per la circostanza ed aveva finito per scegliere un completo giacca-pantaloni dal taglio impeccabile, classico, al quale aveva abbinato una camicia fresca e spiritosa, dai particolari nuovi che rendevano l'insieme insolito ma non eccentrico. Li aveva indossati e si era sentita perfettamente a suo agio. Era uno stile che rispecchiava la sua indole, il suo modo di essere, un misto di tradizione e modernità che a volte suscitava qualche scatto di insofferenza e di disapprovazione nelle sue amiche più trasgressive.
I capelli la preoccupavano maggiormente, così ribelli ed insofferenti da non lasciarsi domare neppure dai più insistenti e ripetuti colpi di spazzola. Dopo vani tentativi, aveva deciso. Perché imprigionarli in una forma contraria alla loro natura? Ne aveva sollevato una parte fissandoli con un fermaglio ed aveva lasciato i più indomiti liberi di compiere le loro capricciose evoluzioni.
Un trucco leggero, quasi invisibile ed ecco, era pronta. Aveva fissato con attenzione l'immagine che le rimandava lo specchio e ne era rimasta soddisfatta, di più, compiaciuta.
Era uscita. Avrebbe potuto raggiungere a piedi la sede della società dove le avevano fissato l'appuntamento ma poi aveva deciso che era meglio prendere l'autobus per evitare di arrivare accaldata, in affanno. Sapeva bene che non sarebbe riuscita a tenere a freno il suo passo di carica.
Lo sguardo di ammirazione che le aveva lanciato un bel ragazzo seduto di fronte a lei, l'aveva messa di buonumore ed aveva acceso nel suo animo la speranza.
Perché, una volta tanto, le cose non potevano andare bene anche a lei? Era arrivata. L'ascensore l'aveva condotta al piano che le era stato indicato ed era stata introdotta in una confortevole sala d'aspetto, in attesa di essere ricevuta.
La voce gentile di una giovane impiegata l'aveva distolta dalle sue riflessioni. «Il dottore la sta aspettando», e l'aveva introdotta in uno studio accogliente e luminoso. L'uomo seduto dietro la scrivania aveva posato la cornetta del telefono e le aveva teso la mano, presentandosi e salutandola con cordialità. Poi l'aveva invitata a prendere posto nella comoda poltrona di pelle di fronte a lui. Laura si sentiva perfettamente a proprio agio, nonostante il cuore facesse qualche capriola di troppo. Non vedeva l'ora che il gioco avesse inizio perché, ne era sicura, avrebbe saputo utilizzare bene tutte le carte vincenti. Ed era così, stava accadendo, era riuscita ad interessare il suo interlocutore, ad attirarlo dalla sua parte. Un leggero tocco alla porta li aveva interrotti. Al cigolio della porta era seguito uno scalpiccio di passi, attutito dalla moquette che ricopriva il pavimento ed una figura si era materializzata accanto alla scrivania mentre un fascicolo di documenti veniva posto davanti al dottore. Laura era piuttosto contrariata da quell'intrusione proprio nel momento in cui la conversazione volgeva a suo favore, ma si sa, in un ufficio è prassi comune sottoporre alla firma del capo documenti che non possono attendere. Aveva alzato gli occhi verso l'intempestivo intervenuto. Ne aveva fissato a lungo la testa, quasi ipnotizzata, poi aveva guardato a terra. Le scarpe, quelle orribili scarpe, erano lì, davanti a lei. Uno sgomento forte, un'oscura paura, si erano impadroniti di lei.
«Signorina, signorina, che c'è, si sente male?». «No, non è niente, solo un capogiro », aveva balbettato confusa. «Se vuole, possiamo interrompere, può venire un altro giorno, quando starà...».
«Sì, forse è meglio così, mi scusi». Ed era uscita dalla stanza con le spalle curve, annientata da una cocente sensazione di sconfitta, di impotenza contro qualcosa cui non era in grado di opporsi.
Arrivata a casa, si era diretta subito verso la sua stanza ed aveva chiuso la porta a chiave. La madre aveva tentato, da fuori, un debole richiamo. Si era fermata un momento in ascolto, poi si era allontanata, scuotendo la testa, convinta che l'atteggiamento di Laura fosse dovuto ad un'ulteriore delusione per l'esito negativo del colloquio. Sapeva che era inutile, in quel momento, fare domande, chiedere spiegazioni. Doveva darle il tempo di accusare il colpo, di lasciar sbollire l'irritazione, poi ne avrebbero discusso insieme, come ogni volta.
All'ora di cena, Laura non si era presentata a tavola. Alla sorella che era andata a chiamarla, aveva detto che non se la sentiva di mangiare, un terribile mal di testa le stringeva la fronte in una morsa.
L'indomani si era alzata all'ora di sempre, aveva fatto la consueta colazione, si era vestita. «Laura, quando esci...».
«No, mamma, non esco», ed era tornata in camera.
E questo si era ripetuto il giorno dopo e l'altro e l'altro ancora. Si preparava di tutto punto, si metteva a girare incerta per le stanze, scostava la tenda di qualche finestra per guardare fuori, poi si ritraeva bruscamente ed andava a rintanarsi nella sua stanza. Un giorno era arrivata alla porta di casa, ne aveva abbassato la maniglia, si era fermata un attimo, poi era ritornata sui suoi passi dopo averla sbattuta con violenza. I familiari cominciavano a preoccuparsi seriamente. Ogni loro tentativo di dialogo s'infrangeva in un ostinato mutismo o, peggio, in uno scatto d'insofferenza, di rabbia.
Una mattina, presto, molto presto, Laura era uscita all'improvviso, in tuta e scarpe sportive. Si era fermata un attimo sul marciapiede, aveva annusato l'aria, l'aveva fatta penetrare lentamente nei polmoni, l'aveva respirata con voluttà. Poi aveva cominciato a correre, nel quartiere, intorno ai palazzi, sembrava non dovesse fermarsi più. Sfinita, era crollata su una panchina, aveva tentato di fermare l'ansito dei polmoni, della corsa. Un rumore improvviso l'aveva fatta sussultare. Si era girata di scatto, aveva colto la presenza fugace di un'ombra, era stata colta da un tremito. Era fuggita. Si era fermata solo sulla porta di casa, era entrata, era corsa subito alla finestra, da dietro la tenda aveva sbirciato fuori. Nessuno, la strada era deserta. Poi era apparso un netturbino; con movimenti lenti e svogliati, trascinava la scopa lungo il marciapiede come in uno stanco valzer.
Dei passi nel corridoio, avevano riscosso Laura. Si era alzato qualcuno, probabilmente sua madre, meglio non farsi vedere in giro, già vestita. Non sopportava di affrontare alcuna domanda ma forse, soprattutto, di sostenere l'espressione triste e sofferente del suo sguardo, dei suoi occhi, pallido riflesso di una sofferenza più profonda, che nascondeva in fondo al cuore. Lo sapeva bene, lei, ma non poteva farci niente, non aveva la forza per annullarla, per porvi fine. Le giornate avevano continuato a scorrere sempre uguali, nella solitudine della sua stanza, senza alcun contatto se non quello dei familiari. Si era rifiutata di rispondere a qualsiasi telefonata, anche a quelle degli amici più cari. Non aveva niente da dire né da sentirsi dire. Stava bene così. Era proprio vero? No, non lo era. La sua vita da reclusa la opprimeva come un macigno enorme, lo sentiva sul petto, pesante, insostenibile. Dopo diversi giorni, ci aveva riprovato. Presto, come l'altra volta. Era uscita. Aveva percorso le strade del quartiere con la medesima furia, in quella corsa sfrenata e liberatoria che avrebbe dovuto ripagarla dell'inerzia forzata a cui era condannata. Si era lasciata andare sulla stessa panchina per prendere fiato, per assaporare quegli attimi di libertà. Ed anche questa volta aveva sentito un rumore ma non aveva sussultato. Si era girata a guardare, senza fretta, senza paura. L'ombra c'era, lì, alle sue spalle.
Le scarpe di Mickey Mouse, il casco da ciclista, "lei". Ma il suo volto non era più una macchia scura. Era il volto di Fosca, la sua compagna di classe. La fissava con i suoi gelidi occhi azzurri e sibilava con le labbra sottili:
«Sei un'incapace, sei una perdente, non ce la farai mai», come aveva sempre fatto in quei lunghi anni di scuola, rosa dall'invidia e dalla voglia di superarla.

Luisa Genovese


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