Autori contemporanei
affermati, emergenti ed esordienti

Luciana Rattazzi
Con questo racconto ha vinto il decimo premio al concorso
Marguerite Yourcenar 2004, sezione narrativa

LA DISTRAZIONE
 
 
Mariarosa cuciva benissimo; faceva dei punti piccoli e regolari che, se non si fosse vista con ago e filo in mano, si sarebbero scambiati per punti meccanici. N'era orgogliosa e coltivava questa passione nella penombra delle persiane semichiuse della sua camera da letto, sotto il caldo cerchio di luce della lampada gialla, anche se fuori c'era un sole che avrebbe potuto accecarle gli occhi.
La televisione la teneva sempre accesa, non per guardarla, no (che l'attenzione l'aveva sulla tela), ma perché l'ascoltare quel sottofondo continuo di voci, cadenzate e lente come il ritornello di un carillon, sembrava segnarle il ritmo del ricamo; c'era Ricordi e poi, dopo un piccolo tintinnio di campane, di seguito e senza interruzione di pubblicità, veniva Destino. Un perfetto pezzetto di pomeriggio come un altro, quel pezzetto senza importanza che sta sempre sospeso nell'aria insieme a un pisolino; in casa di Mariarosa, la cui programmazione giornaliera era in sintonia con quella di tutto il vicinato, corrispondeva esattamente alle due e trenta.
Era allora che cominciavano le sue storie e l'epopea di un piccolo centro di provincia americana si diluiva senza continuità nell'avventurosa vita di una giovane cieca di Portorico; il tintinnio di piccoli gong in sequenza (tra la fine di una e l'inizio dell'altra) l'avvertiva del mutamento. Le voci, da sincopate e asciutte che erano, assumevano infine le cadenze di una più morbida melodia, proprio come il suo procedere sul ricamo. Ogni puntata terminava con una specie di sospensione nell'aria (a volte uno sguardo, una frase non detta, un segreto...) che la lasciava in quella beata condizione psicofisica dell'attesa senza ansia. Comunque l'indomani, la frase sarebbe stata pronunciata, il segreto svelato e anche lo sguardo (oh! sì, anche quello), si sarebbe infine posato su qualcuno.
Insomma si andava sempre avanti, non c'era mai nulla di definitivo e anche le disgrazie sembravano diventare leggere.
Bene. Lei ascoltava...ricamava...ascoltava e per guardare non aveva tempo.
Lei, gli occhi, adesso, li perdeva sul ricamo, bianco come la stoffa dove si andava a disegnare.
Bianco su bianco.
Ghirigori di fiori e tralci di grappoli d'uva, stemmi e conchiglie, animali e farfalle. Tutto, alla fine, prendeva forma e disegno sulla sua tela; lento, che c'è bisogno di tempo, ma sicuro come la sequenza infinita di quei racconti.
Dedicava a questo suo piacere due ore precise della giornata. Per il resto faceva, o tentava di fare, quello che più o meno aveva sempre fatto; era sposata, aveva bambini, una madre anziana da andare a trovare e una casa. Aveva degli amici, un discreto conto in banca e in generale non si può dire che se la passasse male.
Almeno fino a poco tempo fa.
Adesso questa mania di cucire l'aveva come stregata.
Perché?
Semplicemente perché le riusciva bene, anzi benissimo.
Tanto da rimanerne stupiti.
Uno dietro l'altro i piccoli punti bianchi tessevano e tessevano trame da sogno. Non c'era giorno che Mariarosa, puntuale e metodica, alle due e trenta esatte del pomeriggio, non se n'andasse su in camera sua, per chiudersi dentro e iniziare.
 
***
 
Finché durò l'inverno nessuno praticamente se n'accorse. Al pomeriggio la casa era vuota, il marito al lavoro e i figli a scuola; lei cercava di sbrigare tutto con più fretta e la cena era pronta, di sera, puntuale come sempre. Le c'erano voluti tre mesi per impratichirsi sia sul ricamo che sulla nuova organizzazione del lavoro di casa, ma ce l'aveva fatta egregiamente, e se l'uno le era riuscito sorprendentemente facile, l'altra l'aveva fatta invece penare di più. C'erano stati giorni in cui aveva cronometrato le varie faccende da compiere con l'occhio rivolto all'orologio di cucina, cercando ogni stratagemma per abbreviarle anche solo di pochi secondi. Aveva studiato i percorsi più brevi per raggiungere il congelatore della dispensa, per andare a scaricare la spazzatura nel contenitore esterno del vialetto, per stendere il bucato in giardino, aveva cambiato anche scarpe, negozi e parrucchiere, riempito la cucina di tanti piccoli elettrodomestici e comprato il più innovativo e completo kit di aspira/lucida/asciuga/pavimenti esistente sul mercato; sino a disporre diversamente le stesse cose secondo percorsi più consoni e geometrie spaziali imperscrutabili agli altri, ma a lei estremamente comode.
Finché un giorno decise che era stato raggiunto il massimo dell'economia temporale raggiungibile e bloccò in quell'orario il traguardo più plausibile per le possibilità presenti e future del suo fisico. Così allungò il tempo del ricamo dalle poche manciate di minuti che riusciva a dedicargli sino a quel momento, sino alle due ore giornaliere. Tempo rubato che divenne un'abitudine fissa e piacevole (la più piacevole della sua vita).
Quello che inizialmente l'aveva incantata era stata la lentezza dell'esecuzione: se un arrosto ci metteva pochi minuti ad andarsene in fumo e la soddisfazione di preparare le lasagne svaniva nel breve tragitto che bastava per vederle scomparire dentro le bocche affamate di tutta la famiglia, il disegno ricamato rimaneva lì, ad attenderla ogni giorno. A puntate... Ed ogni giorno cresceva un po', ma poco, quel tanto che bastava per non finire mai.
Ottobre, Novembre e Dicembre passarono nelle prove di apprendistato.
A Gennaio principiò la sua arte con una striscia di tela Aida e il primo punto croce di un progetto grandioso; un festone ghirlandato di piccoli fiorellini a grappolo da cucire, successivamente, sul bordo di un lenzuolo di lino, nuovo, immacolato, ma troppo spartano per i suoi gusti.
Voleva fare una sorpresa a tutti, bambini compresi; per questo il pomeriggio si chiudeva in camera e di sera non diceva niente a nessuno.
Voleva fare una bella sorpresa, di quelle che ti senti dire "Lo hai fatto tu?... Ma davvero? È bellissimo"; per questo lo nascondeva bene in mezzo alle lenzuola nell'armadio. Si sentiva già ronzare nelle orecchie il sussurro di suo marito che le avrebbe detto "Che brava!"; per questo lo ricamava tutto in bianco, in modo che si vedesse meno.
Così iniziò la sua seconda vita. Due ore al giorno rubate al resto.
E quando in estate gli altri si accorsero di questa sua passione, non fu per via della sorpresa, che non c'era stata e non ci sarebbe stata mai (perché dopo il festone di fiorellini, venne il centrino con i passerotti nel nido e l'inizio dell'alfabeto araldico, tutti sempre rigorosamente nascosti tra le pieghe di qualche biancheria ancor più bianca di loro), ma perché la bambina si era presa gli orecchioni e aveva avuto la febbre alta.
Malgrado quasi delirasse per la temperatura a quaranta gradi, tutti avevano saputo, tornando la sera a casa, che "... la mamma è uscita" lasciandola sola e che quasi la piccola si era strozzata dal piangere e dal chiamarla.
Mariarosa, allo sguardo del marito, aveva risposto semplicemente "No, non sono uscita, ero di sopra..." e alla domanda "Ma cosa avevi, ti sentivi male?" rispose solo:
"No, cucivo".
Quel "no, cucivo" divenne da quel momento in poi la frase che l'allontanò sempre più da tutti, il muro dove si sarebbero infrante le onde del suo eterno sciacquio domestico.
 
***
 
Non è il caso di dire che nonostante la perfezione del suo lavoro, la perizia e la fantasia delle sue composizioni, non acquistò moto credito in famiglia. Anzi la sua posizione sembrò scivolare stranamente verso il basso, nel senso che nessuno sembrava avere più bisogno di lei. I bambini si vestivano da soli e andavano a scuola accompagnati da papà, lui era gentile, questo sì, ma Dio! Com'era diventato pignolo! E questo a lei non andava proprio a genio perché qualsiasi cosa facesse ci metteva troppo, anche fare l'amore l'annoiava e non aveva il coraggio di dirglielo. Il pranzo e la cena li preparava ancora lei però, malgrado le esagerate esternazioni di "Mmh!.. che buonoooo!!", "Questo è proprio delizioso", "Cosa hai fatto?... il pollo arrosto! Bene, bene...", sempre più spesso vedeva misteriosamente comparire nel frigo orrende confezioni di cibi precotti; persino la sua vecchia mamma non le telefonava più quattro o cinque volte al giorno com'era abituata a fare prima.
Prima di che poi?
Questo Mariarosa proprio non lo capiva.
La vita si porta sempre appresso le stesse persone, poi se ne aggiungono altre e si continua insieme, come un fiume che s'ingrossa sempre più.
Ecco come la pensava.
Casette e alberelli, casette e alberelli, casette e alberelli. Si poteva trasmigrare da una all'altra, ma in realtà erano così simili da confermarla sempre più nell'idea che questa particolare fluidità del trascorrere del tempo non fosse solamente una particolare caratteristica di quel brano di campagna semiperiferica in cui le era dato vivere, ma si estendesse a tutto il mondo conosciuto. Anche questa sua passione per il ricamo si era aggiunta al resto. Mariarosa non percepiva la differenza, il salto, la cesura che tutto questo aveva prodotto nella percezione che gli altri avevano di lei, né comprendeva il motivo del famigerato ingresso nel lessico familiare di quel prima o di quel dopo che lei continuava, ostinatamente, a non considerare come parametro di confronto o di giudizio.
 
***
 
I giorni passavano e suo marito persino le sorrideva, adesso, quando il pomeriggio la vedeva salire in camera, anche se lei sapeva benissimo che invece non ne era per niente contento.
Com'erano nervosi, tutti quanti, solo perché se ne stava due ore in santa pace! "Due ore..... Mari, due ore?" le aveva gridato una volta (ma era parecchio tempo fa) giù dalle scale, mentre lei stava tornando di sotto "Sono le otto di sera... sono cinque ore che sei chiusa là dentro, capisci CINQUE ORE!...". Il piede, pronto a scendere l'altro gradino, le era rimasto per aria. Non urlava mai, suo marito, e se n'era già sicuramente pentito perché la voce da stridula e roca si stava a mano a mano trasformando in un penoso tentativo di dolcezza; cominciava a piangere. Singhiozzi piccoli e molto silenziosi, quasi impercettibili. Si era seduto sulla poltroncina in fondo alla scala (lacrime piccole e poche da uomo che piange senza far scena).
Faceva un po' impressione il vederlo così, se solo qualcuno l'avesse potuto vedere, perché lì c'era solo lei e impressionata non lo sembrava per niente.
Sorriso e un altro gradino a scendere. Lui alza lo sguardo e parla piano.
"Perché non mi dici cosa succede, ti ho lasciata in pace, pensavo fossi solo un po' stanca, che poi ti sarebbe passata... e invece niente, sempre peggio, sempre di più. Ma ti sei accorta che ti sei messa addosso la vestaglia a rovescio? Hai i capelli spettinati. Si vede sai... non puoi non essertene accorta, non l'avresti mai... prima, non l'avresti mai fatto..."
Singhiozzo.
Una penosa lacrima che scende sulla faccia di un uomo alto che si alza dalla seggiola dov'era seduto e va incontro a sua moglie che nel frattempo è scesa da tutti i gradini che le stavano davanti e gli è così vicino che gli mette improvvisamente tenerezza "Mari..." e lei non si scosta, no, anzi sorride. Ma quel sorriso, ora che la sta per toccare, ora che lo vede un po' più da vicino, è un sorriso così dozzinale che gli blocca l'abbraccio a metà. Prova persino un po' di ribrezzo perché è come una mezza luna rovesciata in su per sbaglio, andata a gambe all'aria dopo una tempesta, come fosse cascata dal cielo e affogata nell'idiozia di un mare/faccia piatto e senza onde... un sorriso annegato
"Cristo Mari..." Si allontana, dà un pugno alla parete, mugola versi strani, ogni tanto singhiozza, dà un altro pugno alla parete, si scompone tutto, scontra contro gli spigoli dei mobili; "Sono cinque ore che stai lassù...", poi singhiozza, è arrabbiato, molto arrabbiato e anche infelice, si vede dal sudore che gli ha bagnato tutta la camicia. Lei sta appoggiata alla ringhiera della scala e lo guarda muoversi, vede tutte le fasi di quella personale messinscena della disperazione senza capire bene quale n'è la trama e senza nemmeno dargli troppo peso, come si aspettasse che da un momento all'altro il tintinnio di piccoli gong potesse mettere fine alla puntata. Cominciano a volare cose. Dà manate da tutte le parti è furibondo. I bambini, di là, cominciano a piangere "Ti chiudi dentro a chiave. Se busso, taci... so che ascolti, ma taci! CRISTOOO!". Basta, prende a pugni il tavolino vicino al telefono.
Il vaso blu, quello comprato in Riviera in quella bella giornata di sole, il vaso del delfino che li faceva tanto ridere perché era proprio di cattivo gusto, sobbalza in aria, si piega di lato, scivola a terra e si rompe.
Lui, ridotto ormai ad un cencio, lo guarda e gli dispiace un sacco.
Ci teneva.
Si siede sulla seggiola e si prende la testa tra le mani. Trema un po'.
"Cinque ore?" pensa lei, passandogli vicino e scostando col piede un coccio del vaso (l'occhio e mezza bocca del delfino l'ammiccano da basso e sembrano ridere tra le schegge di porcellana); "Ma guarda come passa il tempo...".
 
***
 
Dopo due anni esatti dalla sera della febbre e degli orecchioni (ovvero del segreto svelato) in quella casa non litigava più nessuno.
La foschia crescente che, da quel giorno, aveva incominciato ad invadere ogni angolo e ogni ambiente di quella graziosa costruzione monofamiliare con giardino (casetta + alberello) prospiciente la strada provinciale, si era trasformata in un suffuso brontolio di temporale, attraversato soltanto da sporadiche (quanto brevi) scosse elettriche. Questi brividi (molto sgradevoli) che vibravano nell'aria, non erano prodotti, come sarebbe più logico pensare, dalle normali incomprensioni che intercorrevano tra i suoi abitanti, ma piuttosto dalla casa stessa che stava sopportando, con una certa fatica, un processo di modificazione logistica che ne stravolgeva il senso e le funzioni.
Essendo sempre stata abituata ad essere considerata un unico corpo che si poteva attraversare sia longitudinalmente sia trasversalmente, nonché in verticale per l'altezza di tutti i due piani, soffriva l'amputazione spaziale di una sua parte come se fosse una perdita completa d'identità. Quella stanza sempre chiusa la disturbava perché interrompeva la possibilità di percorrenza proprio in uno dei suoi punti più significativi; la camera da letto di papà e mamma.
Questa censura, alla lunga, aveva indotto tutti gli abitanti a cercarsi percorsi diversi, ma soprattutto a frequentare preferibilmente alcuni ambienti piuttosto che altri; la stanza da lavoro modificò la sua destinazione d'uso con l'aggiunta di un letto e un armadio, e lui vi si trasferì definitivamente. La continua rotazione spaziale di un tempo era finita per sempre, l'abitudine a disertare il piano di sopra divenne la nuova regola di una vivibilità domestica ritrovata per pura disperazione.
Chi passava per strada sapeva e, alzando lo sguardo, scuoteva la testa nel vedere quelle persiane semichiuse e quei fasci di luce giallastra venirne fuori a strisce e perdersi inutilmente nell'aria, qualsiasi ora del giorno fosse e anche se fuori c'era un sole che poteva accecare gli occhi.
La casa si divise in due...
Di sotto si svolgeva la vita quotidiana.
Di sopra si sperimentava la vera beatitudine.
Col tempo anche la casa ritrovò un suo equilibrio.
 
***
 
Mariarosa, libera di poter gestire ormai tutto il suo tempo come più le aggrada, inizia il progetto più ambizioso cui ha mai messo mano fino a quel momento: un enorme e variopinto "albero della vita" a piccolo punto su fondo ecrù (tutto segnato da mille sfumature leggere). Si era abbonata alla rivista "Ricami e Decori" e aveva ritagliato tutte le immagini dell'inserto storico del mese dedicato a "Il paradiso terrestre: implicazioni simboliche e interpretazioni decorative nei tessuti mediorentali ed europei di fine Ottocento", le aveva allineate bene sul tavolino e guardate a lungo; dopo averci pensato un po' su aveva optato per un magnifico albero della tradizione persiana, perché era il più colorato e c'erano più animali dentro.
 
La tela misura due metri per uno, è tesa, lucida, ben tramata.
Perfetta.
I filati di lana ordinati uno accanto all'altro, le sfumature di tutti i colori possibili, dal più chiaro al più scuro (che ormai non c'era più motivo di nasconderli tra la biancheria).
Gli aghi pronti, infilati sul cuscinetto a cuoricino, dritti come aculei d'istrice all'attacco, agili come spadaccini alla prima stoccata.
Perfetto.
Accende la televisione e inizia. Le trema un po' la mano ma non per l'ansia, no, solo per l'ondata incredibile di felicità che sembra invaderle il corpo al pensiero di principiare il primo piccolo punto. Ha tutto il disegno fissato in testa, sa come sarà il suo percorso su quell'enorme campo chiaro, come si muoverà, partendo dal basso, delle radici alla sommità delle foglie, tortuoso, continuo a tracciare i bordi, poi al centro, e le farfalle sparse con perizia in quel punto là, là e là, almeno quattro scimmie e gli uccelli del paradiso.
Anche la Fenice, ci metterà dentro anche quella, al centro, seminascosta tra le foglie e i fiori (una deroga alla tradizione che le mette allegria solo per il fatto che non sa assolutamente come sia fatta).
Non ha fatto prove o disegni perché il suo essere ricamatrice non vuol dire perdere tempo in noiosi tracciati preparatori di complicate costruzioni decorative, ma piuttosto prendere tempo perché il disegno possa realizzarsi soltanto nel suo compiersi sulla tela. Questo lanciarsi in un'impresa senza una doviziosa preparazione iniziale, poteva assomigliare molto ad un doppio salto mortale senza rete, ma in realtà la pericolosità del volteggio era mitigata dal fatto che era come se tutto si svolgesse al rallentatore.
In fondo che altro era il tempo lungo del ricamo?
Il momento dell'ideazione si diluiva lungo il percorso, non c'era mai un prima (molto creativo) e un dopo (molto esecutivo), ma un eterno ed avventuroso durante, dove tutto si mescolava, prendeva forza e volontà in un continuo gioco di rilanci e di rimandi, di tracciati e di percorsi, di cambiamenti e di piroette, d'avvitamenti e traiettorie.
Agganci e slanci di due magnifici acrobati (ago e filo) dentro il cerchio magico di una pista illuminata.
Proprio come lei voleva.
Rosso, arancione, giallo (sfumature accese).
Prende quelli.
Li allinea sul tavolino sotto la luce della lampada.
Cloch!
Lo scatto dei due montanti di legno del telaio addenta la stoffa, l'imprigiona, la blocca e la stende a pelle di tamburo.
Il cerchio di tela (tesa, lucida, ben tramata) è intrappolato, come un'enorme lente d'ingrandimento fissata a concentrare l'attenzione, a limitare i confini del dilagare della fantasia nell'esatto campo visivo della prima puntata.
Mariarosa, con un brivido di piacere, sta per cominciare l'opera con un microscopico e rossissimo punto, mentre contemporaneamente, sullo schermo, iniziano le sue storie. Prima di bucare la tela però, questa volta, alza lo sguardo, così, solo perché sa che quello è un momento importante, un momento che durerà un tempo lunghissimo e la sua faccia arrossata le ritorna improvvisamente indietro dal riflesso dello specchio dell'armadio, i capelli un po' scomposti e quell'incredibile espressione eccitata dello sguardo.
Sembra una bambina.
E si vede bellissima.

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 Ins. 13-12-2004