SCRITTORI ITALIANI
CONTEMPORANEI

affermati, emergenti ed esordienti
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Luca Mulazzani
Opera 4° classificata al concorso Città di Melegnano sez. narrativa

Entomon
 
Venezuela. Lasciai Caracas tirando un sospiro di sollievo non mi aspettavo una metropoli con oltre tre milioni di abitanti, praticamente un inferno... che ingenuo. A volte solchiamo il mare senza avere la minima idea di quello che ci attende dall'altra parte, altre volte, e questo è anche peggio, creiamo nella nostra mente un'immagine che è solo fantasia. Strano: non ero mai stato a Caracas, non l'avevo mai vista in televisione, neppure in cartolina, né avevo mai letto un articolo su di essa, eppure, per chissà quale oscura ragione, me l'ero immaginata in un certo modo ed ero sicuro, profondamente sicuro, che Caracas fosse come io l'avevo costruita. Niente di più sbagliato.
Forse mi ero fatto influenzare dalla mia recente vacanza nel sud della Spagna e rimasi deluso: nessuna pittoresca stradina fra antichi palazzi, solo giganteschi viali e casermoni moderni, nessun flamenco come sottofondo, solo il rumore incessante del traffico, nessun profumo, solo smog.
Solamente l'afa era così come l'avevo immaginata, un caldo oppressivo, sporco... Dalla camera del mio albergo con aria condizionata (aria che sembrava artificiale, costruita con qualche nuova sostanza plastica) vedevo i grandi grattacieli del centro, sessanta, ottanta piani di ferro e cristallo, uffici, cravatte, burocrazia. Sullo sfondo, accatastate fra le colline come rottami, ecco le favelas, le bidonville o come diavolo si chiamavano in Venezuela! Un formicaio informe di vite penose, sprecate, senza speranza. Che razza di esistenza conducevano? Per quale ragione si agitavano tanto?
Avanti e indietro. Sporgendomi sul davanzale potevo vedere sotto di me l'osceno svolgersi di quella colonna infinita. Avanti e indietro: tanti venivano da destra e altrettanti da sinistra; le stesse persone che andavano da destra a sinistra, poi, prima della fine del giorno, sarebbero tornate indietro nella direzione contraria. Da dove sbucavano? Dove si infilavano?
Magazzini, edicole, tabacchi... spesso qualche gruppetto interrompeva l'inspiegabile corsa, approfittava di un caffè o di una sigaretta e cominciava a cicalare. Sì, li vedevo alle vetrine dei bar: parlavano, scambiavano opinioni, bisticciavano, trovavano un accordo. Non capivo cosa avessero da parlare tanto, potevano discutere un'ora intera solo perché un arbitro non aveva fischiato un rigore o perché le tariffe telefoniche non erano state abbassate. Perdevano un mucchio di tempo, evidentemente la loro occupazione principale doveva essere quella di correre su e giù per la via, uscire ed entrare dagli edifici, eppure finivano spesso per perdersi in oziose chiacchiere che non conducevano da nessuna parte.
Inspiegabile. E non vi erano eccezioni o classi distinte, il comportamento era comune a tutti gli esemplari, allo stesso modo le operaie delle favelas e i soldati dei grattacieli. Solo la regina sembrava restare nell'ombra.
Avevo dato ordine alla reception di non venire disturbato per nessuna ragione e la mattina seguente partii prestissimo, prima dell'alba, così da evitare il traffico e quella bolgia di creature irrequiete. Dieci ore di automobile fino al cuore della foresta equatoriale... Raggiunsi la piantagione di Don Alfonso Martinez che gentilmente si era offerto di ospitarmi: non avrei potuto trovare posto migliore per concludere le mie ricerche.
"Dunque cosa sta studiando esattamente lei?" domandò Martinez quella sera stessa davanti a un buon bicchiere di rum invecchiato.
"La Caligo beltrao, un lepidottero appartenente alla famiglia dei Brassolidi."
"Come come? Una mariposa vuole dire?"
"Esattamente, una farfalla notturna tipica delle foreste sudamericane."
"Caligo ha detto? Mai sentita nominare... deve essere ben strano il lavoro dell'entomologo?"
"Sicuramente è particolare; molte persone hanno una vera fobia degli insetti, e se me lo permette, questa è proprio una sciocchezza: a parte alcune specie che possono portare malattie batteriche o virali non vi è alcuna ragione di temere gli insetti. Purtroppo l'uomo ha la cattiva abitudine di condannare ciò che non conosce... Perché ha detto che è un lavoro strano?"
"Ecco: immagino che lei sappia tutto su questa mariposa, questa farfalla scusi."
"Credo di sì, non per vantarmi; forse proprio tutto tutto no, ma è da molto tempo che la sto studiando: morfologia, etologia... è strano che lei non la conosca, è una farfalla abbastanza diffusa, forse qua in Venezuela la chiamate con un nome differente, ma sono sicuro che lei l'abbia già vista. È piuttosto grossa, di colore bruno uniforme o con leggere sfumature. Sulle ali posteriori presenta due enormi macchie nere orlate di bianco, come due occhi: di notte talvolta, e non sono il solo a dirlo, quando la caligo è posata su un ramo con le ali aperte, può sembrare di vedere gli occhi di un gufo, o di una civetta. Il bruco, che è anche lui bello grosso (fino a sedici centimetri), si sviluppa sui banani e sulle eliconie."
"Vede cosa intendevo dire? Lei è uno straniero, arriva qua dall'Europa in fretta e furia, non conosce niente dei Venezuela e non ha mai camminato per queste foreste, eppure conosce alla perfezione la vita di questa farfalla che sicuramente mi sarà passata sotto il naso migliaia di volte senza che io le mostrassi la minima attenzione. Non è forse strano questo: sa tutto sulla caligo e magari ignora un sacco di cose che per noi altri sono invece normali ed importanti."
"Io credo sia importante conoscere la natura che ci circonda."
"Certo, certo..." e sembrò voler dire qualcos'altro, ma poi tacque.
"Pensi che ci sono persone che hanno paura perfino delle farfalle notturne" dissi per rompere il silenzio "non lo trova stupido?"
"Forse. Comunque sono animali inquietanti: si avvicinano in silenzio come fantasmi, proiettando ombre deformi sui muri. Compaiono e scompaiono nella notte. Certo non si impegnano troppo per farsi conoscere ed apprezzare."
"Vanno apprezzate per quello che sono: creature tranquille e discrete. Fantasmi? Io piuttosto le paragonerei a romantiche poetesse in cerca di pace interiore."
Martinez sorrise e io con lui. Bevemmo un altro bicchiere di rum. "E quel complicato apparecchio servirebbe per catturare le sue poetesse?" domandò indicando la trappola che avevo portato dalla Francia.
"Non è poi così complicato" risposi. "Vede? Le farfalle vengono attratte dalla luce elettrica qui nel mezzo, si avvicinano sempre di più e sono costrette a passare per questa serie di oblò; una volta all'interno uscire è quasi impossibile e quando le ali si scottano l'animale cade nel recipiente sul fondo."
"Molto ingegnoso. E mi dica, da quanto tempo esiste la caligo sulla terra?"
"Beh, difficile dirlo con precisione. Svariati milioni di anni."
"Curioso. Edison inventò la lampadina solo alla fine del secolo scorso: sa dirmi perché le farfalle notturne sono attratte dalla luce elettrica? Si tratta di un istinto naturale o cosa?"
Rimasi perplesso. "Mi ha messo con le spalle al muro... dovrei controllare qualche testo."
Oramai era notte fonda e la bottiglia di rum vuota. L'anziano Don Alfonso Martinez si alzò. "A quanto pare lei non conosce ogni cosa... È tardi, vado a coricarmi; la lascio con le sue romantiche poetesse."
Ero rimasto solo. Controllai che la bottiglia fosse davvero vuota, poi spensi la lampadina che illuminava la veranda e accesi quella della trappola. Ogni oggetto venne irradiato da una sgradevole luce giallastra: il tavolino, le poltrone di vimini, le piante rampicanti, tutto.
Ero troppo stanco e accaldato per raggiungere la mia camera da letto, così decisi di sistemarmi come meglio potevo su una delle poltrone, girato in modo da assistere alla cattura.
Passarono i minuti, decine di minuti: non mi sentivo affatto bene, forse avrei fatto meglio a dormire... il sonno arretrato dei giorni precedenti, il lungo viaggio in aereo e quello in automobile, la differenza di fuso orario, il caldo afoso, il rum... tutto influiva in maniera malsana sulle mie condizioni psicofisiche. Chiusi gli occhi per cercare un po' di riposo ma non riuscii in alcun modo ad addormentarmi. Passarono diverse ore, le orecchie cominciarono a ronzare, la poltrona ad ondeggiare; riaprii gli occhi di soprassalto credendo di trovarmi su un mare agitato, tutto fluttuava davanti a me, come... come se volassi. Eccomi di fronte la luce giallastra, ne venivo lentamente attratto: pur non potendomi muovere, mi stavo avvicinando. Che sensazione agghiacciante: sudavo copiosamente, grondavo; i miei arti sembrarono paralizzati, il respiro si fece affannoso, le tempie pulsarono sempre più forte.
Poi un senso di nausea mi scosse, tutto si annebbiò, persi ogni contatto crollando su me stesso e sprofondando in un sonno agitato.
Dormivo. I pensieri tornarono ad una vecchia poesia teatrale: dove avevo già udito quei versi?
"Non senti anche tu il profondo silenzio?"
"Dimentica il tutto, beviamo l'assenzio."
"La vita è cessata, ecco che tace."
"Sul mondo è caduta la pace."
"Ho paura, là fuori il dolore ci attende."
"Riposa, staremo nascoste per sempre."
Stavo sognando. Credetti di sentire una vocina: "Cos'è? Mi sembra di vedere una luce."
Silenzio. Dopo un istante una seconda vocina, simile ma diversa dalla prima sussurra: "Taci non farti vedere."
"Chi potrà mai essere? Nella foresta a quest'ora? Tutto dovrebbe essere buio."
"Un nemico, di certo. Viene dal mondo diurno."
"Credi sia venuto a cercarci?"
"Sicuro: un portatore di disordine e affanni."
"Quella luce giallastra mi mette i brividi."
"Lo credo bene; è come un piccolo sole, noi amiamo il livido scintillio della luna. Sta giù, non farti vedere!"
"Sembra così tranquillo e pensieroso... pensi davvero sia un nemico?"
"Cos'altro potrebbe essere? Indaga indiscreto nel nostro regno profondo."
"Questo è scorretto! Noi non abbiamo mai fatto del male a nessuno. Dovrebbero lasciarci vivere in pace."
"Non ci capiscono: siamo troppo diverse; per questo ci odiano e si sentono a disagio in nostra presenza."
"E se non fossero tutti uguali? Forse qualcuno ci ama."
"Taci sciocca, possono essere idee pericolose."
"Ma è venuto a cercarci: credo voglia comunicare con noi. Sarebbe una buona occasione per mostrare il nostro animo puro. Se ci conoscesse ci amerebbe di sicuro."
"Amore? Cosa vuoi che ne sappia: non c'è purezza nel mondo diurno."
"Bene, potrebbe allora spiegarci il senso della sua vita meschina. La cosa mi incuriosisce parecchio: riescono a vivere senza piangere la morte di un fiore."
"Sono aridi pazzi: formiche paurose; non sanno godere della solitudine, vuol dire che non rispettano se stessi."
"Io dico che non dovremmo lasciarci sfuggire questa occasione. Se non ci piace torneremo alla nostra oscura esistenza . Sono curiosa: io vado a vedere."
"No, aspetta!" Da lontano, oltre i gradini, sento un sottile rumore. I miei sensi sono ora acutissimi: è un vellutato sbattere di ali, tenue come un bacio di addio. Il silenzioso fantasma si avvicina veloce, mi sfiora i capelli, si allontana, poi torna di nuovo, così per decine di volte.
"Cosa fa?" Grida la vocina lontana nel ridicolo tentativo di farsi sentire senza alzare il volume. "Torna nella nostra foresta."
"Sono stanca della foresta" risponde lo spettro con tono frizzante e audace "non succede mai niente nella foresta, tutto è buio e silenzio."
"Tutto è nascosto vuoi dire. Ci sono molti favolosi segreti."
"Storie per folli, filosofi e innamorati piagnoni. Ecco che invece ho davanti un vitale futuro, emozionante e luminoso."
"Ma io ti sono sempre stata amica."
"Allora è il momento di seguirmi, non vorrai continuare a parlare di morte, dolore ed incomprensione. Sarebbe un drammatico monologo."
"Non andare!" Grida. Lo spettro volteggia intorno alla lampada in spire sempre più strette. L'accerchia, si stringe, si posa. Commenta ad alta voce fra sé: "Non vedo niente, andrò più vicina." Ed ecco che sta per entrare.
"No aspetta, non andare!" grida l'altro spirito animato da una folle paura. Io gli faccio eco; vorrei svegliarmi e saltare sulla lampada, spegnere la luce, ma non posso... non posso nemmeno urlare, se non dentro di me: "Ti prego, non andare!"
Ma continuo a dormire. La farfalla entra nella trappola. Ancora un paio di giri vorticosi a diretto contatto del vetro incandescente. "Non vedo nulla, c'è troppa luce... che caldo che fa!" La voce si tramuta in uno strido. Un ultimo passaggio, più pesante, irregolare, disperato.
"Brucio!" Cade. Silenzio.
Mi svegliai fradicio di sudore qualche istante prima dell'alba; subito corsi per vedere la trappola ma i miei occhi vennero magneticamente attratti da una creatura ai margini della boscaglia: doveva esserci un gufo posato su un ramo. Mi guardava con occhi che parlavano di morte, dolore ed incomprensione. Improvvisamente lo sguardo si sciolse in uno sbattere d'ali.
"Ha catturato qualche mariposa stanotte?" domandò Don Alfonso scendendo le scale.
"Sì. Una." Risposi dopo un attimo di silenzio. "E penso possa bastare."
"Allora la sua caccia è già finita... guardi che bel sole spunta laggiù, oltre la foresta. Sarà contento di tornare a Caracas."
 
 
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agg. 23 dicembre 2001