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Autori contemporanei
affermati, emergenti ed esordienti

Lidia Pieri
Ha pubblicato il libro

Soledad rojo y oro - Lidia Pieri

 

 

 

 

Collana Fonòpoli - Parole in movimento 14x20,5 - pp. 32 - Euro 6,00 - ISBN 88-8356-444-8

 

 

In copertina opera di Stefano Faccini

Questa pubblicazione è stata stampata

quale 2° premio del concorso

"Fonòpoli - parole in movimento" 2001-2002 sez. narrativa

Presentazione
Incipit


PRESENTAZIONE
Le parole in movimento sono quelle che liberano le scintille del'intuizione, della comprensione, della verità; quelle che volano alte senza timore di bruciarsi le ali, perché il cielo è il loro posto, e lì vogliono tornare.
Le parole in movimento sono dappertutto, e quando le incontri non puoi sbagliare. Sentirai prima una musica lontana, magari dimenticata, e poi ti accogerai che è quella della tua stessa vita che ti chiama, che chiede di avere di nuovo il colore dell'avventura e della favola.
Se ti senti pronto ora apri questo libro, e tuffati nel cielo di Fonòpoli.

INCIPIT
 

1988


Non so se credo negli Angeli.

Ma credo negli angeli terreni.

 

Dedicato a tutti gli angeli che durano poco.

 

Me duelen mi rodillas
de ángel
que dura poco.
Hoy tengo miedo de mi hado rojo y oro y de mi magia mag
nética
y desesperada.
Tengo miedo de que yo no puede caminar, mañana.
 
Mi fanno male le mie ginocchia di angelo che dura poco. Oggi ho paura del mio destino rosso e oro, e della mia magia magnetica e disperata. Ho paura che non potrò camminare, domani. Allora scrivo un pezzo di teatro danza che vorrei vedere in scena, e che vorrei interpretare. E vi spiego il perché.
 
 
Seele
 
Io urlo parole. Tu mi senti?
Io sono una Nike di carne. Tu mi vedi?
Io scrivo una tesi sulla luce oscura dell'universo. Tu mi leggi?
Io so ridere e mordere uva e peperoni verdi fritti e terra e sale grosso, e amo ballare flamenco e tango, e piango alla morte della regina d'Inghilterra. Tu mi capisci?
Io amo i colori e odio i fiori. Amo il rosso, e l'oro, e vivo in bianco e nero, oscillando sulle vertigini di me stessa. Io odoro di mare sott'acqua. Io cerco una casa. Io ho paura. Io voglio un figlio. Mi piacciono il vino, la pasta, i dolci secchi, la pizza, i sapori forti e quelli eleganti. Tu lo sai?
Io cerco una parola con ossessione fino al momento di spedire questo manoscritto. E non so dove metterla, ma da' senso a tutto... abitata...
 
Non nascondo le impurità nelle sensazioni buie del mio corpo svestito, ma te le do con la trasparenza e la nudità di impalpabili e morbidi veli di pietra, tra meridiani e latitudini di luce. La nostra esistenza si stira tra le elasticità di una luna morta. L'esistenza metallica o eterna del tempo si rafferma intorno a pensieri metallici o eterni. Paure o miracoli. Flussi.
Ho le mani sporche di obliquità fotografiche, ho le mani sporche di inchiostro, di mare, di me. Forse tra ombre e chiodi, tra elasticità di terra e di sangue, in paesaggi fangosi e umidi, pietrosi e rossi, desertici. Tra le mille identità delle nostre mille realtà.
Mi sottraggo a un abbraccio cadendo tra surrealtà e surrealità di rosso relativo.
Le mie gambe molli salgono scale di piombo e cartapesta.
Una o mille persone in me stirano la mia esistenza nervosa. Hai abbracciato le altre novecentonovantanove me di carne e metallo. Sete affollate d'oriente sulla mia pelle, la limatura di ferro porta alla perdita dell'innocenza per chi non ha forma e per chi mente come l'acqua, per chi è acqua e ferro e ruggine di emozioni.
Vorrei conoscere tutte le parole del mondo... ma tutte le parole non bastano a un'anima fuggita. Fa freddo nelle nudità dell'abisso, nascosto tra mura d'orgoglio. Nei lividi sparsi tra le parole stesse bisognerebbe leggere la sua storia.
Luna, luna, luna giocosa e sensuale... luna inessenziale. Luna così bella... da tradimento...
E la mia mano si farà vecchia e la mia luna si farà vecchia. E nella mia luna liquida, se la vuoi, ci saranno il mio sudore e il mio sangue, la mia ansia di mille donne in una, il mio corpo come una testuggine bianca che sorride dormendo sul tuo letto disfatto.
Ognuno ha le proprie solitudini, forse annerite, forse incrostate di colori sul fondo di un abisso inconoscibile. Ognuno ha le proprie solitudini, incancellabili e dimenticate come travi di cemento in una soffitta disabitata. Una soffitta senza scatoloni di ricordi o cassettoni magari vuoti, senza stelle e pioggia vicino al camino e senza polvere che balla dietro le finestre su un fascio di foglie e di sole. Travi di una casa. Travi scoperte che pulsano come arterie nascoste nell'ultimo luogo possibile sotto il tetto, quasi a volersi far dimenticare... ma inattaccabili.
in una luna
che non mi spiego,
 
riconosco la vita corta di una rosa
un'ombra
una luna
un silenzio tra le dita come un petalo secco tra gli appunti
 
scrivere con cenere d'inchiostro sull'anima,
 
come un ritratto
di me adesso.
Una soffitta dove non ci si può giocare a nascondino né piangere. Una soffitta non finita, come qualcosa che si è fermato tanti anni fa e non è più ripartito. Non un sogno interrotto. È dove si riposano le solitudini con le loro rughe stanche. Non è una soffitta vuota con travi di cemento... è un ritratto.
Il caleidoscopio di immagini ci travolge da qualunque verso noi vogliamo o possiamo guardarlo. E ci appaiono, con una magia quasi sospetta, mondi di scienziati o di poeti, forse, ma forse è solo un caso, non troppo diversi.
Pensieri su scarpette da punta. Ricordi lontani di sogni spariti in un giorno. Volevo essere una ballerina di danza classica, e andare sulle punte, nella mia veste bianca.
Sognavo quel giorno da anni, ero solo una bambina. Non andai mai sulle punte, e per tanto tempo, e ancora oggi, assistendo in qualche teatro a qualche spettacolo di veneri bianche sulle punte, il rumore di quel sogno spezzato mi riempie di dolore i pensieri.
Un'altro pensiero da consegnare alla luna nel cassetto.
A quella luna che sfoglia, come un bibliotecario paziente, le pagine dei nostri sogni, e conta i centesimi che lanciamo nel lago per realizzare un desiderio, e accetta solo monetine da cinque centesimi, e poi se ne va, buia, come un taglio nella notte...
Scarpette da punta ai chiodi di un'anima appese come lacrime secche.
A volte la luna non basta nemmeno, a fare silenzio, quando resti con un pugno di ricordi malridotti. Le trame dell'anima che non posso comprendere.
Giro per il mondo con la luna addosso, girata dalla sua parte oscura, e un cuore come un mare vecchio e inquieto, e una pelle sensibile e bella.
A mezzogiorno le ombre non percorrono passi sulle strade ma si stringono ai piedi delle cose. Le persone, amanti o spose, conoscono la disperazione di chi, spogliatosi con pazienza di mille e cento abiti, ritrovatosi nudo, si sente strappare la pelle di dosso. Mezzogiorno come mezzanotte, con ombre accartocciate ai piedi delle cose o distese come un lenzuolo, a misurare la distanza che c'è. Quelle persone sono come gatti affamati, rimasti chiusi per giorni dentro una stanza, che soffiano e graffiano, e hanno paura. O come gatti stanchi o feriti, che si nascondono. Ma l'anima di gatto li fa restare in vita. Hanno il gelo nel cuore, ma sono ancora capaci di amare totalmente.
Cerco di distrarmi dal freddo pensando all'oscurità delle stelle. Ma non ricordo più quell'odore. Era una cosa semplice, non bisognava rispondere, non bisognava decidere se era giusto o meno, non bisognava parlare di totalità. Era solo cuore. Era solo un odore. L'ho perso. Come si fa a ricordare un odore? Insieme all'odore di arancio caldo, quasi di forno, c'era l'odore di torta appena sfornata, e di asciugamani appena stirate. Ricordi cerebrali. Freddi. Come si fa a ricordare la sensazione dell'odore di arancia bruciacchiata sulla stufa, che riempiva la stanza... e insieme era... impercettibile... se non ricordo quell'odore? Semplici e grandi segreti, come sapere quando era ora di cambiare la scorza, quando il colore cambiava in un certo modo, che ancora si poteva trattenere, nel naso, l'essenza di arancio, il calore della stufa, l'abbraccio della torta appena pronta, la piacevole asprezza del bruciato.
Terra e fuoco, come li conobbi la prima volta.
L'altra metà del cielo che ancora andiamo cercando.
Non ricordo quell'odore e mi dispiace come se non ricordassi il segreto del mondo. Non ricordo il segreto del mio mondo. Della mia casa. Fa freddo. Allora accendo una stufa moderna. Piccola, non ingombrante, asettica, quasi cinica, frettolosa.
Un'ansia... buona... mi prende. Ansia di me.
Sogni.
La notte scriveva addosso, sulla pelle, con inchiostro di gelo. Silenzioso, poco più in là, un albero bagnava di notte i suoi rami sciolti nello specchio del lago, quasi emozionato. I rami si facevano lisci come capelli sulle spalle di una donna. La notte anneriva i rami. Il freddo di poche stelle lontane sussurrava le sue storie irreali come fossero vento. Il vento di dicembre e di neve poco lontana si attaccava, crudo e invadente, all'albero dai rami neri. Gli si dava con la fisicità del ghiaccio. Il vento toccava i rami, ed era scosso dal lago che aveva onde lente di mare, quella sera. I rami indossavano un vestito da sera bianco, di ghiaccio, che lasciava scoperta, casualmente, qualche gemma prematura di corteccia nera, e che scendeva lungo, fino quasi all'acqua, attillato. I rami tagliavano il lago, da una distanza appena più piccola della dimenticanza, quasi questo avesse forma anche fuori dall'acqua, e vi si abbandonavano, dimenticando, come se tutto il resto si potesse soltanto immaginare, come se stessero trattenendo, duri, il ricordo delle lacrime dell'emozione triste e straziante di un addio. Il lago era elegante quella sera, e pensieroso, con le sue ringhiere ghiacciate e il suo colore denso tra l'anima e la carne... e lì in mezzo, nudo, l'amore, di anima nuda, l'amore, di pelle nuda, l'amore, di carezze e di baci, di occhi negli occhi, l'amore, totale, fedele, di occhi negli occhi, aspettando. Teneva gli occhi chiusi il lago, quella sera, pensando, incerto tra tensione e dolore, con le sue onde quasi di mare che gli pettinavano i capelli all'indietro. A pochi centimetri soltanto l'uno dall'altro, lontani solo lo spazio di un respiro e tuttavia lontani come solo un oceano intero può dividere, l'albero e il lago ballavano un ballo, forse un tango, come fossero divisi da un vetro. Fermi... da tanto tempo, nel momento in cui il lago avvicina il suo corpo ai rami, senza ancora toccarli, e... lento... sta quasi per stringerli a sé nella posizione di guida, con un abbraccio dietro la schiena... leggero... con l'altra mano quasi nella mano dei rami alla distanza... soltanto... di un sogno. Ma il lago e l'albero non potevano staccarsi dalla terra, nemmeno quella sera, sera dopo sera. E ballavano come divisi da un vetro. Morendo d'amore. Era come l'essenza di loro nei ricordi che perdeva vita freddandosi in un'immagine, divisa da un vetro, e l'immagine che perdeva a poco a poco una dimensione, schiacciandosi in una fotografia, divisa da un vetro, e quella fotografia che perdeva a poco a poco i colori, sbiadendosi in un ritaglio di giornale, divisa da un vetro, e quel ritaglio si slacciava inevitabile dai giorni, atrocemente, diviso da un vetro, eppure ancora atrocemente amato come l'ultimo bacio di una vita intera... eppure ancora, per quell'essenza lontana, il lago e l'albero ballavano un tango lento, inevitabile, seppure divisi da un vetro... su un silenzio ampio... emozionato... ma spezzato, come quando con le dita si sbarrano le corde di una chitarra ad una certa altezza.
La notte era fredda. Nessuno era per strada quella notte, se non pochi passanti frettolosi e infreddoliti. Nessuna magia, tranne quella di dare forma all'aria, ridendo. Pochi passanti, con le scarpe pesanti e i giacconi ingombranti, si legavano negli occhi, stregati, ad uccidersi quasi, negli occhi intimi e impazienti e complici, stregati dal tango del lago e del ramo, quasi ci fossero solo loro nel mondo. Il mondo era esso stesso quasi appena concepibile, quasi sognato. Il lago e il ramo erano due corpi ancora immensamente lontani, ancora solo alla distanza di un respiro. A che serve la musica se hai quell'intensità nel sangue... sospesa... ?, occhi negli occhi... instancabilmente... a che serve chiamare silenzio quello che è solo una pausa...?
Ti regalo, amico mio, momenti di dimenticanza.
Ancestrale. Intuitiva, innata dimenticanza. Contatto, impalpabile, con l'anima.
Improvvisa. Non la puoi cercare. La dimenticanza che è esistenza. Opposta al buio oblìo dell'inesistenza. Disperata dimenticanza, contro gravità, leggera leggera.
Ti regalo una luna stasera, quella piena di magia, per innamorartene.
Sorridi, e ridi di me e insieme a me, che parlo alla luna come se potesse rispondermi, anche in mezzo alla disperazione della vita!
Ammalata di vita.
Emozioni entrano nella pelle come schegge di un palco di legno, come mare mare dopo mare dopo mare allagandoti. Espandendoti... in una fine senza fine, senza tempo senza spazio nemmeno di un respiro... solo avidità di vita. Emozioni ti bucano il cuore, ti segnano le ossa, ti graffiano l'anima... l'ANIMA... come se l'anima fosse essa stessa un palco di legno e l'emozione avesse le unghie lunghe. Unghie di donna che possono farti male. O amarti. O darti follia...
L'istinto di sopravvivenza ci chiede terra sotto i piedi e fuoco e vento tra i capelli. Ci spinge ciechi dentro la carnalità dell'anima. Dentro una casa. Dentro la dimenticanza.
Osservo come da lontano la mia anima schiantata tra l'ombra e l'anima.
Lo conto sulle dita come le pesche al mercato, come un pensiero di olio, un ricordo stancamente solo, un dolore, quasi seducente, nelle mani, nei passi di una danza lenta flamenca.

 


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Ins. 04-04-2003