Autori contemporanei
affermati, emergenti ed esordienti

Lidia Pieri
Con questo racconto ha vinto il secondo premio del concorso Fonòpoli - Parole in movimento 2001-2002, sezione narrativa
Invadente come l'anima in corpo
 
C'era odore di fumo di sigaretta nella stanza. Si mischiava all'odore lento di polvere e di cantina, di profumi e sudore, di bianco. Era una stanza piccola, con sedie di legno per gli spettatori. Al centro della stanza-teatro stava un piccolo palco di legno più scuro, rotondo, alto un metro circa sopra il pavimento. C'era un'unica luce, di lato, dall'alto, una specie di faro o occhio di bue che oscurava completamente le persone. Fissava la sedia di legno sul palco, vuota. Si poteva stare in disparte, anonimi quanto bastava quella sera, o con occhi aperti, nascosti. C'era rumore di sedie spostate e qualche riso d'adolescente. C'era rumore quasi lontano di tosse di vecchio, come dietro una mano. Una signora agitava nervosa e impaziente il ventaglio. C'era rumore di respiro affannato di un cane, e di bracciali di donna. C'era rumore di universi, silenzi di vite diverse. Rumore di un piede di uomo che tacchettava il pavimento. Rumore, assordante, di pensieri. C'era rumore di gesti veloci e di suoni incostanti, come di chi ricorda all'improvviso una cosa. C'era rumore di chi ritrova ad un tratto un'espressione di un volto lontano che non si è portato via il suo ricordo. Ogni tanto si apriva e chiudeva la porta dietro le spalle delle ultime sedie ed entrava qualcuno e qualcosa; una manciata di luce tagliava il fumo e l'umidità, li quantificava, dava corpo alle ombre. Si sentiva allora rumore di capelli sciolti, di sciarpe smosse sulle spalle, di ossa irrigidite dietro lo schienale della sedia, di gambe incrociate. O rumori di gola, di gomma da masticare. C'era rumore di sigaretta e di fumo. Rumore di bicchiere pieno a metà che veniva agitato con movimenti impercettibili dei polsi. Qualcuno si teneva per mano. Qualcuno si interrogava, aspettando. La stanza si trovava nello scantinato di un teatro nella grande città. Se le luci fossero state accese si sarebbe vista una stanza drappeggiata di bianco, con vecchie tende e sceneggiature fatte di veli, e un divano bianco nell'angolo, sporco, catasta di lampade usate. Alcune stoffe erano calpestate, mai messe a posto, e facevano rumore di passi. Quello che abbiamo di certo, forse, nella vita, non è altro che la causa-effetto della mancanza di magia che ci è strappata nell'anima, e che racconta incessantemente parole che possiamo soltanto ben definire, capire, senza che mai ci parli davvero. Era forse questa magia che si aspettava tutta quella gente affollata, che non aveva pagato niente e si era portata da bere da casa. Alcuni tornavano da tre mesi, ogni giorno che il teatro grande era chiuso. Altri avevano incrociato per strada qualcuno che raccontava di un ragazzo pensoso con la chitarra, che di giorno studiava di cose incomprensibili su universi di tempi immaginari e poi andava al supermercato e poi tornava a casa a vivere e amare come tutti gli altri, ma che una notte a settimana dava appuntamento alla sua anima, per parlarsi di cose belle e cose brutte, da soli, loro due, nello scantinato di un teatro. Il ragazzo aveva trovato quel posto cercando l'uscita del teatro, una sera di un certo spettacolo, e vi aveva trovato una chitarra, e aveva cominciato a suonare, credendo che se ne fossero andati tutti. Se ne era stato lì, ad occhi chiusi, seduto su una sedia di legno circondato da tende bianche, rapito da un dialogo che non riusciva ancora a decifrare, da una nota che non sapeva ancora scegliere. Una donna delle pulizie lo trovò così, spegnendo la luce per sbaglio, che nemmeno si accorse di lei.
Lui suonava la chitarra quasi stesse facendo l'amore.
Le note dalle corde impolverate potevano penetrarti nella pelle come spine e piantarsi dritte tra lo sterno e le vertebre, potevano attaccarti l'anima al corpo, quasi a farti male, senza darti il tempo nemmeno, o la coscienza, di fare qualcosa. Forse questo faceva, con tanta intensità e lentezza... stringeva tra le dita l'anima, teneva la musica con mani emozionate, la accarezzava quasi afferrandola. Come fosse un corpo di donna... la disarmava, lasciando che la piccola danza del sangue si strappasse nella fisicità di una passione inevitabile... tratteneva negli occhi le lacrime di un pensiero che non aveva bisogno di logica... che era una sorpresa inespressa, un pugno della vita, acqua fredda sulla faccia. Il ragazzo se ne stava lì immobile, lui che di solito slacciava i suoi mille pensieri nei movimenti della testa e delle spalle. Immobile, solo gli occhi dietro le palpebre strette e le dita sopra la chitarra si muovevano appena. Una vena sulla fronte pulsava di tutta la vita che aveva.
Chiunque, chiunque, chiunque... avrebbe voluto essere la donna con cui il ragazzo faceva l'amore sotto quelle note lente di jazz.
Fu questo forse che pensò il proprietario del teatro quando vide in viso la donna, le rughe spente sotto le borse degli occhi, la pelle macchiata di troppe diete inutili, di capillari, di grasso, vestita con il grembiule delle pulizie, con alle mani i guanti di gomma... farsi senza motivo bellissima, levarsi un guanto con civetteria dimenticata e inconsapevole, e sciogliersi dalla coda i capelli invecchiati e passare una mano a scioglierli, i capelli... mentre ascoltava zitta quella musica. Qualcosa cadde a terra e la donna vide l'uomo e riaccese la luce, e il ragazzo si vergognò, e forse credeva davvero di non saper suonare la chitarra, e forse chissà, magari davvero non la sapeva suonare da Dio... ma che importava? che mai poteva importare, se quella musica che suonava era capace di far tremare vacillare un'anima...
Il proprietario del teatro gli chiese di tornare il giorno dopo, che il teatro era chiuso, a suonare. Fu così che ogni settimana quel ragazzo cominciò ad incantare un pubblico di gente semplice e complicata come lui, senza nemmeno che lui ci credesse.
C'era adesso rumore di una stanza ammutolita. Il ragazzo saliva sul piccolo palco, timido e meravigliato di tutta quella gente che non poteva vedere. Sorrideva, imbarazzato, dolcissimo, piegando la testa da un lato e inclinandola leggermente in avanti. Aveva un sorriso larghissimo. Si stringeva la chitarra al petto, toccava tutte le corde senza far fare loro rumore. Sistemava i piedi a sentire la terra. Tendeva le dita, chiudeva gli occhi. Aspettava pochi secondi, quanti bastavano ad assaporare sorridendo l'odore denso di vino e di fumo, l'odore della gente, il rumore spesso e sospeso del respiro della gente, di controllo che le chiavi fossero nella borsa, di pensiero al vento che aveva incrociato una foglia rossa ad una ciocca di capelli tanti anni prima, che fosse ancora lì.
Lui ora era il primo attore, e nemmeno gli importava ma gli piaceva. Aveva dei pantaloni scuri, e una camicia bianca con il colletto aperto. Aveva delle bretelle a quadratoni e i capelli tirati indietro con l'acqua. Un microfono era attaccato alla chitarra con due strisce di nastro adesivo chiaro. Non aveva spartiti né repertorio, ma anima e corpo come una cosa sola. La sua musica era quanto di più bello io avessi mai sentito, e forse, ma non saprei, non era tecnicamente perfetta, ma mi toccava... emozionandomi... La luce lo colpiva di tre quarti sulla sua sinistra. L'ombra invece si allungava fino a scendere dal palco, fino a perdersi tra il pubblico, così come le particelle della sua musica si staccavano dalla chitarra per danzare nelle anime raccolte a metà strada. La gente sentiva stracciarsi il velo di opacità dell'anima che la vita che opponiamo ai sogni ci mette addosso. Era uno strappo teso tra il dolore e la felicità. La realtà poteva anche essere questa magia che usciva dalle sue mani, quest'esitazione, quest'ostinazione tra forma e fantasia che li accarezzava come il ricordo della sensualità nascosta di un corpo che si addormenta lontano, della fisicità di due mani che si intrecciano tra due anime per non lasciarsi mai, laddove nemmeno la scienza ci permette di fermare le stelle e di vederle tutte. La gente non si chiedeva niente ora che il ragazzo suonava, e sembrava quasi piangesse, soffrisse, pensasse... quella musica era quasi dura per quanto andava a fondo nell'anima, quegli occhi erano troppo stretti per non trattenere un mondo che urlava!, ma era solo uno sbaglio. Non c'era niente di innaturale... tutta quella immensità quel ragazzo ce l'aveva nel sangue e nemmeno sapeva quanto forte gli battesse il cuore e quanto fosse bravo, e quanto la sua musica assomigliasse alla meraviglia di volare davvero, senza ali, come nell'acqua.
Il ragazzo suonava lentamente, Dio quanto lentamente!, invadente come l'anima in corpo, come se la sua donna stesse dietro di lui, nuda o vestita di rosso, e i loro corpi si respingessero fino quasi a toccarsi, e i due, di spalle, non dovessero guardarsi, e chissà cosa c'era, nelle sue sensazioni... e io facevo finta, facevo finta davvero, sulla mia sedia di legno, nella mia camera, che tutto fosse vero, che lui pensasse davvero, che l'oceano è solo un lenzuolo...
Qualcuno, dall'alto, scattò una foto in bianco e nero.
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 Ins. 03-10-2002