SCRITTORI ITALIANI
CONTEMPORANEI

affermati, emergenti ed esordienti
Leonardo Lastilla
Opera 2° classificata al concorso Angela Starace 2001 sez. narrativa
Stordimento
 
Remo è alla stazione da dove partirà per il suo solito "anda-e-rianda" settimanale, con la solita sensazione d'instabilità, con i soliti occhi mogi e percettivi in movimento. Remo sorride ironico al paesaggio umano che ogni volta incontra in questi luoghi di passaggio che vengono chiamati stazioni. Ed ogni volta si sorprende pensando al sostantivo stazioni perché è tutto tranne uno stazionare in queste stazioni. Quelli che stazionano veramente sono i senza tetto, tutti gli altri attraversano le stazioni spesso senza neanche guardarle, senza sostare appunto. E la provvisorietà dei senza tetto si mescola così con quella di tutti gli altri in un crogiolo temporale che investe la precarietà di un'umanità alla deriva che paradossalmente fa del viaggio (o della sosta per i senza tetto), il punto fermo d'esistenze ormai ingoiate dal vortice cinetico di una rincorsa assurda nel tentativo, ridicolo, di afferrare se stessi in una dimensione univoca. Insomma siamo tanti patetici Achille, macerati da talloni deboli, che non raggiungeranno mai la tartaruga. Progrediamo, certo, progressivamente, spinti dal progresso, ma per vederci girare intorno. È questo ciò che Remo, più o meno, sta pensando e quante volte si era soffermato sul significato di partire. Ed aveva capito che si parte per ritornare, che si parte non per arrivare in un punto, non per colmare uno scarto e nemmeno per riempire una distanza. Si parte piuttosto per ripartire, per creare un nuovo punto, per spanare una differenza oppure per annullare una distanza. Ma soprattutto si parte per rimettersi in gioco e quindi, ogni volta, bisogna ricordarsi di lasciare se stessi a casa. Invece Remo si accorge che tutta la gente intorno a lui è fin troppo presente e capisce che loro stanno partendo per finta, in modo pericoloso, perché rischiano di annodare ancora di più le liane d'esistenza già sufficientemente attanagliate. Remo pensa questo e forse pensa troppo, ed è il suo dramma. Ma non trova un'altra mappa più adeguata a guidarlo nella perlustrazione della vita, proprio lui che quando approda in una nuova città non si appropria mai di una cartina del luogo. Infatti, che senso ha volersi "ritrovare" in un luogo in cui si è andati per perdersi?
Avere una cartina a portata di mano è come non voler scoprire se stessi, non gioire al fatto di disseminarsi in una città che ci può appartenere soltanto nell'attimo in cui ci si perde. Per sentire un luogo, per capirlo, bisogna scorrere in esso come sangue, bisogna sentirne le pulsazioni, ma a caso, senza rovinare tutto per la presunzione atavica di voler conoscere e nominare. Già all'origine, quest'idiozia di assegnare un nome a tutte le cose ci ha fregato, perché tanto le cose non ci appartengono, e quindi sapere che adesso siamo in tale rue, street, via, o Straße, cosa importa? Importa la sensazione e non il nome di essa. E la vita allora? No, con la vita è diverso, Remo ha bisogno di una cartina, la vita non è un viaggio, la vita è... una stazione. O forse la vita è un viaggio dopo tutto, ma anche molto di più: è il viaggio, e quello ha bisogno di una cartina.
Remo sa che rischia di cadere in contraddizione ma non gli importa, la contraddizione è quello che costituisce l'essenza degli uomini, solo che non si chiama contraddizione, si chiama ambivalenza ed è un luogo originario dove gli opposti stanno insieme, si chiamano e parlano a vicenda, si mescolano. Gli stolti la chiamano contraddizione. Remo sa solo che situazioni simili possono richiedere atteggiamenti diversi e che situazioni differenti possono richiedere atteggiamenti uguali. Ad ogni modo, Remo ha bisogno di pensare e trova che i minuti prima di una partenza siano ideali. In realtà non si tratta neanche di un pensare ma di un osservare pensante. E ne ha ben donde perché Remo vede che la gente non pensa molto. Li vede che si affannano per scoprire il binario della partenza del loro treno, l'orario di partenza e sono cose che dovrebbero sapere già, come lui che è tranquillo al binario, in attesa del suo treno.
E se anche non le sanno cosa ci vuole a scoprirlo? La gente non pensa, ecco tutto. Remo ne ha la dimostrazione quando una ragazza, che definirebbe mai fragile, si avvicina e gli chiede: "È questo il binario del treno per Roma?". Remo risponde di sì, ma avrebbe voluto risponderle che se lei avesse alzato leggermente la testa, senza farsi troppo male, avrebbe potuto leggere sul tabellone degli orari, orario e binario del treno per Roma. Perché la gente ha così bisogno di conferme e di sicurezza? Basterebbe pensare di più. E Remo lo capisce maggiormente quando vede e sente la stessa ragazza chiedere ad un signore, seduto qualche metro più in là, se quello è il binario del treno per Roma. Remo vuole urlare ma si trattiene. La gente chiacchiera, questo sì, e chissà mai cosa avranno da dirsi, però non pensa. Perché e poi si affannano. Certamente! E lo fanno ancora di più se il binario cambia oppure se c'è un ritardo. La gente ha bisogno di conferme ma ha bisogno anche che niente si muova perché avrebbero difficoltà a seguirne l'evoluzione. La gente non ama gli alianti, pensa Remo.
Arriva il treno e Remo vede gli esemplari più variegati della razza umana assalire il treno e calpestare a vicenda il loro diritto di precedenza. Ricorda vagamente la febbre dell'oro ma in realtà, pensa Remo, assalire un treno è un vano tentativo di giocare col tempo, un tentativo, cioè di ridurre il tempo di attesa. In altre parole la gente pensa, si fa per dire, che mettendosi a sedere subito, il treno parta immediatamente, per poi spazientirsi quando questo non succede e chiedersi compiaciuti: "Perché non parte?".
E non si può certo affermare che questa mandria imbufalita corra per disputarsi un posto, perché il meraviglioso progresso ha fatto sì che con questi nuovi e velocissimi treni, i posti a sedere siano tutti assegnati tramite prenotazione.
Remo, tra l'altro, pensa che le parole "moderno" e "nuovo", siano inutili perché appena si affacciano sono già passate e che sia ancora più ridicolo che si tenti di rimpiazzarlo con "ultimissimo".
Ad ogni modo, la prenotazione ha scatenato reazioni impensate, perché la gente crede veramente che quei posti sino di loro proprietà e abusano dell'aggettivo possessivo. I confini tra pubblico e privato sono quanto mai labili al giorno d'oggi, ma a Remo sembra che il secondo sia in vantaggio sul primo.
"Questo è il mio posto, si alzi".
Perché dunque correre verso ciò che è già falsamente posseduto? Remo non arriva a capirlo e messosi a sedere, incomincia ad osservare scene di quotidiana imbecillità. Ci sono quelli che rivendicano il proprio posto come se affermassero una paternità od una maternità. Quelli che inorridiscono ad un possibile scambio di posto. Quelli che fulminano coloro che non hanno prenotazione, come se questi ultimi s'intrufolassero nell'intimo di qualcun altro. Insomma, un conto è avere una sedia o una poltrona a casa propria che è effettivamente "tua" perché l'hai vissuta, l'hai addomesticata, hai trovato un equilibrio nel modo in cui ti ci appoggi e nel modo in cui essa ti accoglie; altro è volersi impossessare di qualcosa in transito!
Finalmente il treno parte e Remo si concede una panoramica sui suoi vicini. Ci sono Antonella e Luigi, c'è la signora Cristalli dalla sua parte e dall'altra parte, simmetricamente, Roberta, una suora e il signor Anselmi. Cerca gli occhi di queste persone ma riceve soltanto scortesi sguardi e impliciti rimbrotti. Ormai è sorpassata la differenza fra guardare, scrutare, osservare, vedere, percepire; ora non ci si guarda neanche più, si ha paura degli sguardi, si ha paura della loro verità, della loro forza di mettere a nudo.
Per questo si sono perse tutte quelle sfumature, adesso c'è un grande globalizzante freddo e canonico guardare, sempre uguale per tutti, con molti filtri, un guardare per non vedere niente. Un guardare che è diventato un'aggressione a mano armato. Questo pensa Remo e si lamenta del perduto piacere dello sguardo. E poi la chiamano la società che ha soddisfatto tutti i piaceri. Remo pensa invece che si tratti di un gioco al massacro e che tutti i piaceri (dal cibo al sesso, allo stesso viaggiare) vengono a poco a poco eliminati oppure esageratamente abusati. "Perché non posso guardarti?", si chiede Remo vedendo Roberta risentita. E pensa con tristezza anche che la gente non solo non si guarda più, ma nemmeno si parla: si protegge e basta, protegge la propria proprietà. Una volta entrando nello scompartimento ci si salutava, ci si sentiva compagni di viaggio, s'intrecciavano destini anche senza, per forza, avere un seguito. Viaggiare era scoprire se stessi, mettendosi in gioco nel vortice umano creato dallo scompartimento. A volte sarà stato un teatrino oppure una convenienza, ma almeno la gente si guardava e si parlava, ci si chiedeva che libri leggessimo, ci si chiedeva dove andavamo, ci si chiedeva se ci saremmo rivisti. E soprattutto, una volta scesi, ci si augurava buon viaggio, non necessariamente quello che si stava facendo: era un buon viaggio per la vita.
Oggi, invece, in questi nuovi treni che in realtà favorirebbero un migliore contatto perché siamo fisicamente molto più vicini, molto faccia a faccia, dove potremmo sentire l'alterità e farla nostra se fosse il caso, non ci si saluta mai, ci si tratta da estranei, si sbatte il giornale in faccia agli altri, ci tocca spiare il titolo di un libro, e, soprattutto, non ci si chiede più niente, come se non avessimo più bisogno di niente. Certo, i viaggi oggi sono molto più brevi, ma anche in un ora e mezzo si può afferrare un destino. E Remo allora pensa che non si sta insieme per bisogno, lui che ha bisogno un po' di tutto. La gente ha il telefonino, di cosa altro ha bisogno? Ed eccolo, infatti, cominciare il sinfonico trillio in fa maggiore dei telefonini, che fa sussultare le mani di tutti quelli intenti a stringerli troppo forte, come se stringessero il loro cuore. La gente che non pensando usurpa il tuo spazio uditivo e poi ha anche il coraggio di chiedere: "Cosa ascolta lei?". Prima ti sparano giù dall'orecchio le loro infinite stronzate e poi ti assalgono. In fondo fanno come se gli altri non ci fossero. Telefonano invadendoti, leggono invadendoti. Che tristezza, pensa Remo, quelli che si attaccano al telefonino e ogni cinque minuti fanno la telecronaca del viaggio: "Sto partendo adesso". "Sono cinque minuti che siamo partiti, adesso vado in bagno". "Sono appena uscito dal bagno". La solitudine gioca brutti scherzi, ma questo è troppo, grida Remo dentro di sé. Che senso ha raccontare ogni piccola cosa che si fa, sprecando ogni volta una nuova telefonata? Perché non parlano con chi gli sta di fronte? Freud avrebbe goduto al sapere questo, avrebbe sicuramente detto che gli uomini stringono e si trastullano con il cellulare esattamente come si trastullano e stringono il loro pene e che quindi essendo il cellulare un simbolo fallico, esso provoca invidia e desiderio nelle donne che, a loro volta, lo usano come simbolo di una parità raggiunta e di stritolamento del potere maschile. Cambia il giocattolo ma la conclusione è la stessa. È tutto un trillare di suoni perversi, per tutto il viaggio e la gente è senza pudore se il signor Anselmi, si permette di far sapere a tutto il treno chi è, cosa fa, cosa sta cercando di comprare, la trattativa delicata su cui sta lavorando, ignorando magari che vi sia qualcuno sul treno che potrebbe essere felice di sapere tutte queste cose perché è un concorrente. Ed è senza rispetto se Roberta si permette di litigare e di urlare al telefono con il suo ragazzo, esprimendo la loro sessualità repressa, la serata dell'altra sera da Gigi, il nervosismo dovuto al fatto che ha le mestruazioni.
Senza coraggio, se la suora si permette di chiudere occhi e orecchie senza intervenire minimamente, senza prendersi la responsabilità di un ruolo che in fondo è suo. Senza forza né direzione se Antonella e Luigi, giovani sulla soglia della maturità, si permettono di sputare sentenze su tutto, di odiare tutto, di non avere nemmeno un briciolo di consapevolezza e semmai nemmeno l'orgoglio di mostrarla, e si dichiarano fieri di non aver letto mai un libro ma in compenso trovano nelle loro cuffiette rimbombanti, la loro comunicabilità. Senza futuro se la signora Cristalli, grande manageress, si permette di dire che la sua ditta va a gonfie vele e che fra pochi anni non avremo più bisogno di muoverci da casa, basta un telefonino (sic!) e un computer.
Remo è stordito, non ce la fa quasi a reggere, a trovare la forza e vorrebbe dire qualcosa, recitare una poesia, mostrare la bellezza dei paesaggi che passano dietro ai finestrini e che la gente ormai non guarda neanche più. Ormai la bellezza, come molte altre cose è diventata abitudine. Peccato perché questi paesaggi sono dolcissimi e tutto quello che Remo vorrebbe fare, è gettarsi dal treno e correre giù sui verdi pendii scoscesi, sì, proprio quelli che il treno sta superando adesso. Correre giù e cantare. È quello che vorrebbe fare perché ha provato tante volte a spiegare alla gente che sta sbagliando, che il modo in cui viaggia non funziona, che si stanno distruggendo. Ha provato, ma non ha funzionato, troppo cerone nelle orecchie. Ha provato e non ce la fa più. Ogni viaggio è una via crucis, per lui, fino all'arrivo. È che la gente non ha tempo, si accontenta, non pensa, è fragile. Lo è se c'è gente che non sa neanche rinunciare ad una sigaretta e se appena scesa dal treno se ne accende una come se mancasse loro l'ossigeno, e si affanna a fumarla. Lo è se si alza dieci volte in un ora e mezzo per fumare quelle sigarette invadendo lo spazio olfattivo di Remo e ignorando che non si può fumare su tutta la carrozza e che se fossero più vispi vedrebbero un divieto di fumare anche al di là delle porte che delimitano la carrozza, perché quando quelle porte si aprono (e succedo spesso perché la gente non sta mai ferma), quel maledetto fuma entra.
Remo non ce la fa, vorrebbe chiudere gli occhi, vorrebbe aprire la testa alla gente. Ed allora pensa alla stazione di arrivo o di partenza, cioè alla stazione Termini e pensa che in fondo quella non è una stazione ma un motto, un ammonimento filosofico, un oracolo delfico. È una specie di "Conosci te stesso". Infatti, Remo pensa che Termini voglia dire "Tu termini", cioè tu finisci qui, questa è la fine del viaggio, hai trovato il centro che poi è anche il non centro. Questo pensa Remo ogni volta che arriva a questa stazione e quel "Tu termini" in realtà gli provoca una reazione contraria ed ecco che ritorna quella voglia di rimettersi in gioco, di scoprire altre parti di sé, quel partire per ritornare. Termini è un modo per iniziare. Ormai manca poco, Remo si alza, si avvia e verso l'uscita un volto gli appare, due occhi più grandi di tutto il resto, due occhi tristi, due occhi come due punti interrogativi. La bocca è aperta, le mani in cerca di pace. È il volto di Lucia, che si illumina di un sorriso, i sorrisi di una volta, la spontanea reazione ad uno sguardo. La cosa più vera di tutto il viaggio, pensa Remo.
Remo risponde al sorriso, prova una fitta, quelle buone, quelle da desiderare sempre. Ed incomincia, in un breve attimo, a guardare, vedere, scrutare, osservare, percepire, a cogliere insomma, tutte quelle sfumature che l'obiettivo opaco della realtà circostante aveva annebbiato e tutto il resto sparisce. Resta quel ponte fra quei due sorrisi e come d'incanto Remo sa cosa legge Lucia, dove sta andando e se l'avrebbe rivista. Le augura anche buon viaggio perché il treno è arrivato e Remo deve scendere, pressato dalla mandria in arrivo. Remo spera che Lucia scenda almeno per intrecciare il primo filo di un destino, per partire di nuovo con lei, ma sa anche che se non succederà, sarà contento lo stesso perché ha rivisto un sorriso, ha riscoperto un antico piacere, ha scritto una parola che non usava da tanto tempo, ha smesso di pensare.
"Buon viaggio a te", risponde Lucia.
 
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Agg. 02-12-2002