Autori contemporanei
affermati, emergenti ed esordienti

Leonardo Calconi
Con questo racconto ha vinto il nono premio del concorso Fonòpoli - Parole in movimento 2001-2002, sezione narrativa
Avere un problema
 
 
Finalmente Omar aveva un problema.
Erano passate dodici lune dal giorno che aveva lasciato le sue caprette, laggiù in basso nel Grande Reg1 del Mille Venti, per raggiungere il Passo-delle-pietre-che-bucano-gli-zoccoli dove con un dito poteva toccare tutte le stelle del cielo ed unirle con linee immaginarie nei misteriosi simboli del tifinar2.
Già da cinque lune si era reso conto di avere realmente un problema.
Le prime sette le aveva spese cercando di scoprire se quella magnifica ed inquietante sensazione che progressivamente gli era entrata nel corpo fosse veramente un problema.
Problema.
Una parola che lo affascinava, gli incuteva paura per la sua enormità.
Una parola che si appropriava di ogni atomo del suo corpo quando la sera, attorno al fuoco, i capi ne parlavano con solennità.
Ognuno di loro aveva un problema. O più problemi se era un uomo importante. E ne parlava con gravità, quasi il problema avesse un corpo e un'anima. Il problema era l'essenza della vita, la ragione stessa dell'essere, in funzione del quale ognuno era sollecitato a dare il meglio di sé.
L'amrar3, il capo dei capi, l'aveva del resto detto più volte rivolgendosi agli altri: ognuno di noi ha un problema. Avere un problema era segno di nobiltà, dell'essere imohar4, l'uomo libero, di distinzione dai servi che non sono liberi e non hanno problemi.
Lui, Omar, piccolo e mingherlino, umile guardiano di capre, che problema poteva mai avere? Se avere è possedere, lui non aveva perché non possedeva nulla oltre la tunica marroncina di lana caprina ispida come un'acacia ed i sandali del colore del cielo che aveva trovato tempo addietro, abbandonati ai bordi della Grande Pista che porta a Nord.
Ah, che gran giorno quel giorno!
Quasi non voleva credeva ai suoi occhi nel percepire quella minima stonatura di colore nell'arancione infuocato della sabbia della grande pista, fumante di diafani miraggi nell'ora più calda di quella giornata d'ewilen5.
Tra i fiumi della silice in liquefazione ondeggiava quella macchiolina visibile ad intermittenza, tra il c'è e il non c'è.
Incertezza di un segno che alle volte demarca con la sua estraneità al tessuto del deserto il confine tra la probabilità di una direzione qualunque e la certezza del nulla, tra la vita e la morte.
Quel giorno, assieme alle volute maligne del calore, si agitava un djenoun6 che trascinava nel suo vortice leggere volute di sabbia fine facendo affiorare, quel giorno per poco tempo e poi mai più per tutta la vita dell'universo sino alla sua fine, un paio di vecchi sandali di plastica azzurrina col tallone tutto consunto che chissà chi aveva chissà quando abbandonato proprio lì, dove Omar passava in quel momento e dove non sarebbe mai più passato per tutta la sua vita sino alla fine dei suoi giorni.
Per la prima volta in vita sua Omar aveva calzato una protezione sotto la pianta dei piedi.
Per molti giorni la felicità gli aveva oscurato i sensi, tanto da non accorgersi che lui con quegli attrezzi ai piedi camminava male e lentamente e che gli provocavano delle spellature tra le due dita più grandi. Poi i piedi impararono a muoversi assieme a quei due corpi estranei, le spellature si trasformarono in pelle scura e grinzosa e non gli dettero più fastidio.
Il tempo passò ancora e cambiò anche la pianta dei suoi piedi, che divenne più chiara e più morbida, tanto che nelle ore più calde della giornata non ne voleva sapere di stare a contatto diretto con la sabbia incandescente.
Ecco, grazie a quel fortunato ritrovamento di tante lune prima che aveva completamente cambiato la sua vita, ora lui, assieme alla tunica e ai sandali finalmente aveva anche un problema.
Per la verità soffriva un po' per il ginocchio destro, molto gonfio e bluastro, ma era felice.
Oh, come avrebbe desiderato essere al campo in quel momento!
Giunta la sera, consumata la semola e il tè assieme ai capi ma all'esterno della circonferenza che essi, seduti, descrivevano attorno al fuoco, lui avrebbe atteso che ciascuno iniziasse ad esporre il suo problema. Per tutti quasi certamente sarebbe stato lo stesso problema del giorno precedente, che era lo stesso del giorno prima, che era a sua volta lo stesso del giorno prima ancora. Dovevano passare tantissime lune prima che qualcuno potesse avere un nuovo problema. Ma non importava. Tutti avrebbero esposto il loro con solennità, col tono e coi gesti di sempre, e ne avrebbero discusso in comune con gli altri ogni aspetto. Ed anche se le conclusioni erano sempre le stesse, ne avrebbero parlato come se quella fosse stata la prima volta.
Omar avrebbe atteso ancora che ciascun capo, in ordine decrescente d'importanza, prendesse la parola ed esponesse il suo problema.
Poi , quando il fuoco fosse stato sul punto di spegnersi ed i corpi avessero iniziato ad assumere posizioni più adatte al riposo notturno, lui sarebbe entrato nel circolo con molta legna secca tra le braccia, avrebbe cavato dai tizzoni ormai scuri una bella fiamma gialla e crepitante, avrebbe allestito un nuovo bricco per il tè.
Sempre in silenzio, senza dir nulla, consapevole che gli occhi di tutti erano fissi sulla sua schiena e che questi occhi lo interrogavano silenziosamente sui motivi di quel suo strano agire, lui avrebbe continuato a rimestare la brace, a sistemare per bene il grande bricco di smalto verde in bilico tra i tizzoni.
E quando avesse percepito, pur senza guardar nessuno, che una bocca era prossima a muoversi per chiedergli conto di quelle azioni che nessuno gli aveva ordinato, ecco, allora lui, Omar, il piccolo capraio figlio delle dune, avrebbe destato in quei grandi uomini, padroni del più grande deserto del mondo, un'attenzione ormai corrotta dal sonno.
Si sarebbe voltato rispettosamente e con voce calma anche se un po' tremula per l'emozione, con gli occhi verso la sabbia per non sostenere tanti sguardi importanti, avrebbe detto: «Ho un problema.»
Ah se avesse potuto essere al campo stanotte!
Nelle ultime due delle cinque lune nelle quali aveva acquisito la consapevolezza del suo problema, ogni qual volta con lacrime di gioia pensava al campo e alla sua presenza al centro del circolo dei grandi capi, una strana ed estranea sensazione aveva cominciato a far capolino in mezzo a tanta felicità.
Si imponeva un'accurata analisi della questione perché Omar non era disposto a permettere ad alcunché di oscurargli quel sogno così a lungo inseguito e finalmente realizzato.
Dopo altre due lune giunse alla conclusione che c'era un problema nel problema.
Possibile che nel cielo per lui fosse scritto un destino così luminoso?
Possibile che lui, Omar, fosse giunto in sole 14 lune al punto di possedere ben due problemi?
14 lune.
Il tempo che occorre, dalle Montagne Parlanti dove lui si trovava, per raggiungere il Pozzo dello Spirito Nero.
L'unico posto dove, scavando con attenzione e con pazienza, era possibile trovare qualche ciotola d'acqua nel tempo che occorre al sole che sorge per mangiare ogni ombra sulle sabbia.
Due problemi!
Quando capi valorosi e discendenti da antiche e fiere famiglie portavano davanti al fuoco della sera sempre lo stesso problema che gli altri ascoltavano ormai solo per rispetto.
Doveva esserci un trucco.
Sicuramente uno dei Dijn più maligni si era insinuato nella sua testa passando dal naso, o dalla bocca, o forse dall'orecchio, organi che solo un'Imohar ha diritto di proteggere col lungo tagelmust7.
Ed ora questo spirito malvagio lo stava ingannando.
Omar sentiva che qualcosa non andava, che una voce estranea gorgogliava parole incomprensibili dal tono minaccioso.
Il suo ginocchio era ormai grosso, tondo e liscio del colore dell'afeleleh8 ma non gli dava fastidio eccessivo. Certo, non poteva alzarsi, camminare, ma non ne aveva bisogno.
I suoi animali erano in giro, al sicuro su un buon pascolo, con acqua in abbondanza a poche lune di distanza.
Ma l'acqua era ormai poca per lui, che aveva bevuto in quantità eccessiva da quando sul Passo-delle-pietre-che-bucano-gli-zoccoli aveva deviato stupidamente e senza ragione di pochi metri sulla destra, inciampando, cadendo e rompendo il sandalo dalla parte della mano pulita9.
Era nato il suo problema, forse due problemi, ma anche un gran caldo interno, più caldo del caldo del sole, che gli aveva seccato la bocca e la gola e che lo aveva costretto a bere come un uomo del deserto non fa mai.
Era l'acqua, dunque, il problema nel problema?
No.
L'acqua non è mai un problema per un uomo del deserto, imohar o schiavo che sia, perché un uomo del deserto sa sempre dove trovare, un attimo prima di morire, l'acqua necessaria alla sua vita e a quella dei suoi animali.
Ma il djenoun continuava a soffiare minaccioso nella sua testa.
Il suo piede privo di sandalo non avrebbe più camminato sui sassi aguzzi e taglienti del Passo che taglia come un colpo d'accetta le Montagne Parlanti.
La quindicesima luna faceva capolino dietro il Pestello di Allah dando inizio al nono tallit10.
Quindici pietre tonde, perfettamente sferiche e dal caldo colore della terra rossa, erano disposte a semicerchio accanto a lui. Al suo polso il filo di cuoio rosso che lo circondava contava ormai quindi nodi.
Dal suo riparo poco distante dal Passo-delle-pietre-che-bucano-gli-zoccoli, un gran taffone liscio e curvo su di lui, Omar vedeva riflesso nel cielo il tenue rossore delle fiamme che, al di là delle Montagne Parlanti, aveva acceso la gente del suo kel11 venuta a cercarlo.
Ora che da due lune aveva terminato l'ultima goccia d'acqua contenuta nella sua pelle di capra e che aveva schiacciato sotto i denti l'ultimo nocciolo dell'ultimo dattero rimastogli, Omar riusciva a seguire i suoi pensieri con molta efficacia.
Come l'acqua scorre fluida attorno alle pietre dell'oued12, irresistibilmente attratta dalla sabbia nella quale andrà a morire, così lui accarezzava i suoi pensieri, sfiorandoli attento con le mani del cieco che palpa un oggetto a lui sconosciuto per costruire nella sua mente un'immagine personale di ciò che non può vedere.
Il sandalo... il piede... il ginocchio... l'acqua... il freddo della notte che mordeva il suo corpo indifeso.
Sorrideva Omar, pensando a quanto privi d'importanza fossero questi singoli pensieri di fronte alla grandezza del suo problema che lui avrebbe portato in mezzo al campo in mezzo al circolo dei capi: trovare il miglior sistema per riparare il suo sandalo rotto.
Ma il dejenoun nella sua testa soffiava sempre più forte.
Ed il soffio prendeva sempre più il tono di una voce distorta e lugubre.
E poi la voce diveniva sempre più chiara e comprensibile.
E diceva che lui, Omar, capraio tredicenne figlio di un amore illecito durato il tempo di una luna breve, sarebbe morto entro sette lune, molte meno delle venti o trenta che sarebbero occorse alla sua gente per trovare, non distante dal Passo-delle-pietre-che-bucano-gli-zoccoli, una nicchia liscia e ricurva per la quale si passa una volta sola nella vita e poi mai più.
Morto col suo problema che nessuno avrebbe mai saputo essere esistito, per aver inciampato a causa dei sandali di plastica coi quali non aveva mai imparato a camminare bene, a pochi metri dal Passo-delle-pietre-che-bucano-gli-zoccoli dove nessuno passa mai, dove lui non sarebbe mai dovuto passare.
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 Ins. 03-10-2002