Autori contemporanei
affermati, emergenti ed esordienti

Laura Sadun
Con questo racconto ha vinto l'ottavo premio del concorso Città di Melegnano 2002, sezione narrativa

Primo amore
 
Lungo il viale sotto casa gli alberi erano fioriti. Mi dimenticavo sempre dell'arrivo della primavera fino a quando non me ne trovavo dentro. Per quello che potevo dire io, nei miei dieci anni di vita era sempre arrivata prima o poi, ma non mancava mai di stupirmi. Corsi fino alla camera di mia sorella e le diedi la notizia, che accettò con un sorriso divertito.
Mia sorella. Per quanto mi sforzi, davvero non ricordo d'averla mai vista bambina. Mi dicono che ero troppo piccolo. A dir la verità mi ero effettivamente reso conto della nostra differenza non molto tempo prima, quando mi ero trovato davanti allo specchio con lei. Conoscevo il significato di crescere, anch'io del resto non ero uguale a quand'ero nato. Eppure era un mistero che mi lasciava senza fiato. I dieci anni che mia sorella aveva più di me si erano raccolti nelle gambe e nelle braccia. Accanto a lei, in quel momento, mi sentii assurdamente piccolo.
 
I sorrisi di mia sorella variavano a seconda del suo umore, ma non mancava mai di farli. Quella mattina tornai nella mia stanza vagamente preoccupato. Ricordavo d'averla vista felice in molti modi diversi, ma quello mi era del tutto sconosciuto. Qualcosa era cambiato, qualcosa che non capivo ma che lasciava ad intendere che io non ne ero compreso.
Sono nato in una famiglia dove è abitudine chiedere se non si sa qualcosa. Così andai da mia madre e le feci la domanda più logica del mondo. "Cos'è successo a mia sorella?". La risposta fu altrettanto logica. Si era innamorata.
 
Conosco il significato di molte parole, me le faccio spiegare perché mi piace seguire le conversazioni degli adulti e capire cosa dicono. Per questo dicono che sono sveglio. Purtroppo, però, certe cose ancora mi sfuggivano. L'amore su tutto. Sapevo di essere nato dall'amore dei miei genitori. Sapevo di amarli.
Sapevo d'amare mia sorella. Eppure non riuscivo ad afferrare i perché e i come. Quindi questa notizia mi agitò parecchio. All'età di dieci anni il mio mondo stava inevitabilmente cambiando.
 
Dalla porta socchiusa della camera sentivo la sua voce allegra. Cantava una canzone accompagnata dalla radio. Mi accostai e iniziai ad osservarla. Avevo sentito dire che l'amore trasforma le persone. Eppure quella era mia sorella. I suoi capelli, le sue gambe, le sue mani. Mi allontanai perplesso. Non ero l'unico quindi ad avere le idee confuse sull'amore. Mi sentii sollevato. Venne a chiamarmi, poco dopo, in camera mia. Di nuovo con quel sorriso strano. In quell'istante capii per la prima volta una cosa riguardo l'amore. È qualcosa che aggiunge, non che trasforma. La semplicità di quella deduzione mi colpì come se fosse una banalità. Eppure non riuscivo a smettere di sentirmi derubato.
 
Quel pomeriggio lei uscì di casa presto e io mi fermai a guardarla allontanarsi dalla finestra della mia camera. Camminava sotto gli alberi in fiore. Era bella come le signorine di certe stampe giapponesi che avevo visto, ferme in una nube di petali rosa coi loro ombrelli di carta di riso e i visi pallidi. Era altrettanto bella. La sensazione che mi avessero rubato qualcosa aumentò vertiginosamente.
 
Mia sorella stava spesso nella sua camera e io di tanto in tanto la raggiungevo. In quei momenti, seduto sul letto, mi dedicavo ad una cauta osservazione, finendo poi per addormentarmi. Quando mi svegliai, quel giorno, lei stava parlando al telefono. La sua voce era dolce, quasi un soffio. Iniziai a sentirmi a disagio, infastidito e arrabbiato. Mi sentivo qualcosa dentro, nello stomaco, e mi faceva male. Cominciai a piangere senza fare rumore, non volevo che mi vedesse così. Avrei dovuto spiegarle perché e non sapevo dirlo neanche a me stesso. Nella mia testa, come una trottola girava un solo pensiero. In quel cambiamento non c'era spazio per me. Ero geloso. Poi, stanco di quel pianto, mi riaddormentai.
 
Una mattina di quella primavera, lei ed io uscimmo.
Camminavamo e mi teneva la mano. Il calore di quel contatto mi entrava nel cuore. Le volevo bene, qualunque cosa significasse quella frase. Mi parlava, spiegandomi le cose che le chiedevo, con un tono sereno e tranquillo. Osservavo il profilo del suo viso, i movimenti che si creavano formulando parole e pensieri. I capelli che dondolavano al ritmo dei suoi passi e le risate che riempivano il silenzio nell'aria. Seduti sulla panchina di un parco, mi permisi di osservarla di nuovo. Le gambe accavallate, un piede che dondolava come se seguisse un ritmo che io non sentivo. Le mani incrociate sul grembo, gli occhi socchiusi alla luce del sole. Mi decisi a parlare. "Tu sei innamorata". Non era una domanda, si trattava di una semplice constatazione. Il suo piede si era bloccato nello stesso istante in cui posava gli occhi su di me. Aveva la bocca socchiusa come se si fosse gelata nel momento di pronunciare una frase. Mi scrutò per qualche istante, facendomi arrossire. Mi alzai dalla panchina cercando di sembrare tranquillo, infilando le mani nella tasca dei pantaloni. Era un gesto che avevo visto fare da un attore in televisione e mi era piaciuto, dava l'impressione d'essere molto sicuro di sé. Probabilmente su di me, un bambino di dieci anni, risultava ridicolo. "Sono geloso".
 
Quello che successe dopo nella mia mente occupò lo spazio di un'eternità. La mano di mia sorella mi aveva afferrato il gomito e trascinato vicino a sé. Non riuscivo a guardarla in faccia. Le lacrime mi riempivano gli occhi. Un pugno si fermò sulla mia testa, non tanto da farmi male ma sufficiente a risvegliarmi dal mio pianto. "Sei uno sciocco". La voce di mia sorella mi riempiva la testa, svuotandola da qualsiasi altro pensiero. Quel pugno si era sciolto e la sua mano aperta mi proteggeva la testa. "Se anche fossi innamorata, perché dovresti essere geloso?". Rimase silenziosa. Forse si aspettava che le dicessi qualcosa, che le spiegassi, ma come ne sarei stato capace? Ero solo un bambino e dovevo darle ragioni su cose così imprecise e sfumate che io per primo non sapevo mettere in ordine. "Siamo fratello e sorella" la sua voce aveva ripreso a parlarmi" e questo non ce lo può togliere nessuno. Per quello che so io, ti vorrò sempre bene". La sua mano mi aveva alzato il viso. Per tutta la vita ricorderò le labbra di mia sorella mentre pronunciavano "Anche questo è amore, sai?".
Quella sera, nel mio letto, piansi ancora un po'.
 
Erano passati parecchi giorni da allora. Anche se ci sfioravamo appena, lei presa da troppi impegni e io fuori della sua vita, continuavo a sentirla vicina. Era la radio che suonava dalla porta chiusa della camera. Era la voce che mi chiamava per la cena. Era il suo cappotto appoggiato di fretta sulla poltrona.
 
Quel pomeriggio tornavo a casa, salendo piano le scale e contando i gradini. Mia sorella era seduta sul pianerottolo fuori della porta. Le ginocchia raccolte nelle braccia, stringendosi tutta come se avesse la paura di finire in pezzi. La salutai sedendomi accanto a lei. Stava lì, ferma e abbandonata. Una bambola di pezza. Non sapevo cosa dire quindi pensai di rimanere in silenzio. Le guardavo le braccia. Le mani le stringevano così forte che le nocche erano bianche. Non capivo e quando mi succedeva mi agitavo. Poi, lentamente, mia sorella alzò la testa. Il suo volto circondato dai capelli scuri, quegli occhi un po' tristi, le labbra increspate appena da un sorriso leggero. Non mi ero mai reso conto di quanto assomigliasse alla mamma. O forse non me n'ero accorto perché era fin troppo evidente. Guardai le mie gambe e le mie braccia secche di bambino. Con lei seduta accanto, mi sembrarono troppo corte. Non sarei stato in grado di raggiungerla. Non avrei avuto modo di arrivare al suo collo e abbracciarla forte. Mia sorella, al mio fianco, era troppo lontana.
 
Non capii mai come l'amore che le aveva dato quei sorrisi se li fosse ripresi. Non capii mai se in fondo fosse ancora innamorata. Ricordo però quella tristezza che faceva male al cuore. Forse era perché non piangeva e per questo mi sembrò infinitamente più doloroso. Io se mi sfogavo, mi sentivo meglio. Il vederla trattenere ogni emozione, ogni ricordo mi fece pensare che forse non voleva sentirsi meglio. Non mi capacitavo di una scelta simile. Non potevo pensare, allora, che fermarsi nel proprio dolore a volte è il modo migliore per superarlo.
 
Non ci scambiammo una parola, io avevo paura di dire qualcosa di sbagliato. L'idea di rovinare quel momento mi terrorizzava. Mia sorella, chiusa tra le braccia e i capelli spettinati, era lì per me e solo io c'ero e potevo esserle d'aiuto. Anche se questo voleva dire starle semplicemente accanto, silenzioso.
 
Crescendo non posso dire di aver capito qualcosa in più riguardo l'amore. Semplicemente ho rinunciato a farlo. Mia sorella mi dice, prendendomi in giro, che sono troppo occupato a pensare ai sorrisi della mia compagna di classe. In fondo anche questo è vero. Come è altrettanto vero che, per qualche strana alchimia, diventando più grande sono cambiato. Gli anni tra me e mia sorella, pur rimanendo gli stessi, si sono assottigliati e quasi non si sentono più. Solo certe volte, mi guardo allo specchio e ancora vedo quel corpo secco e troppo corto di bambino. Assurdamente piccolo. E sorrido.
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 Ins. 10-01-2003