Autori contemporanei
affermati, emergenti ed esordienti

Lanfranco Cordischi
Con questo racconto ha vinto il sesto premio del concorso Angela Starace 2002, sezione narrativa
New York
Quella mattina, Giorgio arrivò inquieto in aeroporto, attanagliato dall'angoscia del volo imminente. Sette/otto ore sopra un aereo gli parevano davvero troppe, almeno per le sue attuali resistenze, se poi di sette/otto ore soltanto si sarebbe trattato, perché in agenzia gli avevano venduto un biglietto per New York di una di quelle compagnie americane, che magari mandano in giro vecchie carrette senza manutenzione. Imbarcati i bagagli, per un po' si aggirò tra la folla, poi gli parve meglio togliersi da quella confusione e trovare un bar dove sedersi in un posto tranquillo. Mancava ancora qualche tempo alla partenza.
"Ma, che uomo sono diventato?" pensò con sconforto, allungando il passo verso il primo caffè che vide in lontananza. Quand'era giovane, sì che aveva amato volare. Erano soprattutto i primi momenti allora a piacergli: il rombo dei motori e la corsa sulla pista, poi l'improvviso decollo e l'atmosfera sospesa, con le luci abbassate. Tutto gli ricordava l'orgasmo, anzi il più violento orgasmo che si potesse immaginare; una volta, chissà dove, aveva letto che a molti piloti era capitato in volo perfino di eiaculare. A quel tempo, il volo gli suscitava però anche un'altra forte emozione, quella della libertà. Una soprattutto, gli era rimasta impressa nella mente, durante un volo sul Sahara verso l'America Latina. Tre ore di libertà assoluta, a contemplare il deserto bruciato dal sole, con la sua distesa illimitata di sabbia e di scabri pendii rocciosi. Ricordava di essersi sentito onnipotente: se avesse avuto un paracadute, si sarebbe buttato giù dall'aereo: così almeno gli piaceva pensare adesso, perché allora era convinto di poter affrontare qualsiasi difficoltà, bastava che lo volesse. Quando il Sahara finì, l'Oceano, che si stagliò improvviso all'orizzonte, gli parve promettere nuove ed impensate libertà.
Passati i quarant'anni - e li aveva passati da un pezzo - Giorgio però era cambiato. Non che avesse smesso di amarlo il volo, anzi. Né gli pareva che il mutamento dipendesse soltanto da una giustificata, perché più vicina, paura della morte. La verità era che ogni volo, soprattutto al decollo, gli faceva riaffiorare alla mente, tutti insieme, i desideri ardenti e delusi del passato: la promessa non mantenuta della vita diventava allora troppo dolorosa da sopportare. La delusione delle speranze a poco a poco si era trasformata in lui in una vera e propria malattia, perché, a torto o a ragione, si era convinto di non essere mai approdato nel posto giusto, in quello dove avrebbe voluto, fosse stato anche il deserto, e neppure in uno vicino, ma sempre e soltanto altrove.
Intanto, aveva raggiunto il bar e si era seduto ad un tavolo. Chiese un caffè e nell'attesa, provò a sfogliare il giornale, ma non riuscì a leggere altro che qualche titolo qua e là. L'inquietudine stava aumentando: a parte la paura del volo, c'era il pensiero della conferenza da tenere a New York e, ancora una volta, si chiese perché mai avesse accettato l'invito di Joan. Non ci avrebbe guadagnato niente a parlare di archeologia laggiù né aveva un desiderio particolare di vedere la città, perché a New York lui c'era già stato, prima che l'idea di salire su un aereo fosse diventata una delle sue paure più paralizzanti.
Perso in questi pensieri, Giorgio notò al tavolo accanto una donna con un bambino di sei o sette anni in braccio: dovevano essere lì da poco, perché prima il tavolo era vuoto. La donna era proprio di fronte a lui, sicché, ad un certo punto i loro sguardi s'incrociarono. Si fissarono per un po': il viso di lei iniziò a tradire qualche imbarazzo, lui fu preso dall'emozione. Si erano riconosciuti ed entrambi sapevano che era troppo tardi per far finta di niente.
"Elena", disse lui e non riuscì ad aggiungere altro. Lei si guardò attorno, quasi ad accertarsi che nessun altro avesse sentito il suo nome. Poi, tornò a guardarlo senza dire niente, forse lo stava studiando. Oppure non sapeva bene che cosa dovesse fare.
Lui disse ciao; lei fece altrettanto ma la sua voce era distaccata e distante. Giorgio fu in dubbio se dovesse alzarsi ed andarle vicino, ma si frenò e continuò a guardarla in silenzio. Nessun segnale gli arrivava da lei. "Ti dà noia vedermi? Vuoi che me ne vada?" le chiese infine, stufo di quella situazione. "Fa' come credi" rispose lei freddamente.
Non c'era alcun motivo per farsi umiliare, Giorgio recuperò la borsa e il giornale e si alzò, deciso ad andarsene. Aveva già fatto qualche passo, quando sentì Elena che lo stava chiamando. Si voltò e guardandola in faccia, rimase in attesa. Lei si scusò, non aveva avuto l'intenzione di offenderlo, restasse pure se lo voleva.
"Posso sedermi al tuo tavolo?" chiese lui. Elena rispose di sì e, sistemando il bambino sulla sedia accanto, gli disse che quello era suo figlio.
"Come si chiama?" domandò Giorgio. "François"
Giorgio fu sorpreso dal nome, ma non disse niente; si limitò ad un cenno di saluto al bambino, che abbassò la testa senza rispondere. Poi, mentre si sedeva, buttò lì la prima frase che gli venne in mente: "non trovi strano dopo tanto tempo, incontrarsi qui in aeroporto in mezzo a tanta gente?"
Elena rispose sì, con l'aria di chi stesse pensando ad altro. Nel bar era entrato intanto un gruppo di bambini che, seguiti dai genitori, si erano messi subito a strillare e a rincorrersi fra i tavoli creando una grande confusione. Qualcuno degli adulti li aveva rimproverati e, dopo un'iniziale resistenza, i bambini si erano infine calmati per dedicarsi a giochi più tranquilli e pareva si divertissero anche così. François, che si stava annoiando, appena li vide disse alla madre che voleva andare anche lui a giocare con loro. Ottenne il permesso a patto che si tenesse sempre sott'occhio. Il bambino si alzò e poco dopo faceva già parte del gruppo.
"E' molto socievole" disse compiaciuta Elena. "Sì, lo vedo" fece Giorgio.
Tacquero entrambi poi, ognuno stava rincorrendo i suoi pensieri. Fu Giorgio a riprendere la parola e le chiese se volesse un caffè, ne avrebbe preso volentieri un altro anche lui. Elena rispose di sì, ma la sua voce aveva ripreso ad essere distante: adesso, senza il figlio, doveva sentirsi più vulnerabile. Con la testa abbassata, si era messa a frugare nella borsa appoggiata sul tavolo. Quando rialzò lo sguardo, si scontrò con quello di lui, che la fissava curioso.
"Perché mi guardi così?" gli domandò irritata. "Come ti sto guardando?" "Come se volessi spiarmi".
Estraendo da una tasca un pacchetto di sigarette, Giorgio glielo mostrò: "Forse cercavi questo?" "Ho smesso da tempo di fumare e poi qui è vietato". Elena aveva detto quella frase con ostilità. Giorgio pensò che non era stata una buona idea sedersi al tavolo di lei. Sarebbe stato meglio trovare subito una scusa ed andarsene. Guardò l'orologio pronto a dire che non si era accorto di quanto si fosse fatto tardi, quando arrivò il cameriere con i caffè. Li bevvero in silenzio. A Giorgio parve che fosse giunto il momento di congedarsi, ma mentre stava per aprire la bocca, lei lo prevenne. E cambiando il tono della voce, mormorò di nuovo qualche parola di scusa: "Sai questi giorni a Roma ho avuto molte cose da fare e mi sono stancata terribilmente".
Giorgio le disse di non preoccuparsi, che a volte succedeva anche a lui, quando si sentiva nervoso, di prendersela con chi non c'entrava niente. "Me lo ricordo" sussurrò lei. Giorgio finse di non aver sentito e, rassegnato alla situazione, le chiese dove stesse andando.
"A Parigi," rispose lei "sai, vivo lì da molti anni con mio marito".
"Dunque, l'hai sposato?" l'interruppe lui.
"Chi?"
"Federico: non è con lui che vivi a Parigi?"
No, non era Federico il marito, le disse lei, quasi sorpresa che Giorgio avesse potuto pensarlo. Poi, di nuovo rimasero in silenzio.
"Hai messo gli occhiali, vedo" fece ad un certo punto lei, che si era messa a guardarlo più attentamente.
"Sai, soffro di astigmatismo e da poco sono diventato anche presbite".
"Beh, questi occhiali - la montatura è al titanio vero? - non ti stanno male, ti rendono più interessante".
"Grazie" rispose lui, "anche tu stai molto bene".
"Trovi?"
Ancora una volta, il dialogo s'interruppe, perché nessuno dei due sapeva come continuare. Giorgio si stava sforzando di trovare qualche argomento, uno magari non troppo neutro, ma in mente non gli veniva proprio niente.
"Stai andando in vacanza?" riprese lei dopo un po' di tempo.
"No, sto andando a New York per una conferenza che mi ha costretto a Roma per tutto il mese di agosto".
"Dunque, parlerai?" "Sì". "In inglese o in italiano?"
"Ancora non lo so" ed aggiunse anche di non sapere bene perché avesse accettato l'invito, dal momento che non ci guadagnava niente né economicamente né professionalmente.
"Beh, almeno New York è una città interessante", disse lei.
"Io, però, ci sono già stato e non ho un desiderio particolare di tornarci".
Tacquero di nuovo e quando ripresero a parlare, si ritrovarono a discutere del clima di Roma e di Parigi, dell'inquinamento dell'aria e dello scadimento dei programmi televisivi. Quei discorsi, fatti tanto per parlare, erano più frustranti del silenzio.
"E' mai possibile che, dopo tanto tempo che non ci vediamo, noi due ci si debba mettere a parlare di queste cose, quasi fossimo due estranei?" le chiese lui.
"Ma, lo siamo ormai e da molto tempo".
"E' vero, ma non potremmo essere un po' meno formali?"
"Per esempio?"
"Per esempio, dimmi almeno quando sei venuta a Roma e perché?"
Lei gli rispose di essere arrivata una settimana prima per incontrarsi col fratello. Insieme a lui, doveva risolvere il problema dell'appartamento dei genitori, dopo che suo padre era morto e la madre si era trasferita a Parigi con lei. La madre non se l'era sentita di tornare a Roma, soffriva di una forte depressione, e neppure Louis, suo marito, aveva potuto accompagnarla, perché era sempre troppo impegnato col lavoro.
"Che cosa fa?"
"E' chirurgo presso un ospedale parigino. Lo chiamano a tutte le ore, anche di notte"
"Come l'hai conosciuto?"
"Ma cosa vuoi, che ti racconti tutta la mia vita?" esclamò lei di nuovo ostile.
Giorgio pensò che forse stavolta aveva ragione lei e le chiese scusa, ma Elena doveva essersi pentita della sua frase aspra, perché subito dopo aggiunse di aver conosciuto Louis per caso, durante una cena in casa d'amici. "Sai" gli disse "la mia storia con Federico si concluse dopo qualche mese ed io ne uscii a pezzi; per molto tempo sentii il bisogno di restare sola con me stessa. Se me l'avessero detto prima, non avrei mai immaginato che quella sera, accettando l'invito a cena, avrei conosciuto l'uomo giusto, quello che più tardi sarebbe diventato mio marito".
Giorgio la stette a sentire e alla fine si accorse che stava camminando ormai sulla strada dei ricordi. Benché tutto fosse così lontano, gli venne in mente un viaggio che loro due avevano fatto insieme in Grecia, forse una ventina d'anni prima. L'aeroporto era molto cambiato, ma chissà, allora forse erano seduti più o meno allo stesso posto, magari lui vestito in jeans e Lacoste e lei in pantaloni sportivi e scarpe da ginnastica. Si frenò però, ignorava tutto della donna che aveva davanti anche se quell'incontro casuale non poteva essere indifferente per nessuno dei due: c'era di mezzo la giovinezza e le speranze perdute.
Elena era leggermente ingrassata e questo la rendeva più bella. Portava ancora i capelli scuri sciolti sulle spalle, solo un po' più corti di allora e non dimostrava affatto di aver passato i quarant'anni. Quel corpo che, quando l'aveva conosciuto lui, era ancora acerbo, si era riempito ai fianchi, sul seno, trasformando l'adolescente di un tempo in una donna vera.
Si sorprese ad immaginare di fare di nuovo l'amore con lei: sarebbe stato così difficile come allora? Si domandò pure che cosa stesse pensando Elena di lui, se lo trovasse invecchiato, magari un po' curvo sulle spalle e quasi si vergognò dei peli bianchi che avevano cominciato ad ingrigire la sua barba.
L'unica frase che gli passava per la testa però era "ti ricordi?" E sebbene sapesse di non poterla né doverla pronunciare, alla fine, stanco di girare a vuoto colle parole, si lasciò andare.
"E' difficile parlare dopo tanto tempo...me ne rendo conto. Però, se ci è capitato d'incontrarci, ecco, io pensavo che avremmo potuto essere un po' meno ipocriti e accennare anche a qualcos'altro".
"A cosa?" domandò lei.
"Per esempio, anche a noi due ", azzardò lui.
"Sei impazzito? Guarda, che quando tu mi hai chiamato, io mi sono chiesta se non era meglio lasciar correre, dirti che avevo fretta, salutarti ed andarmene. Averti incontrato dopo così tanto tempo non è facile per me. Figurati, se ho voglia di accennare al nostro passato".
"Proprio perché tanto tempo è trascorso, non capisco perché tu abbia voluto cancellarlo".
"Smettila, io non ne voglio proprio parlare del passato, tanto meno del nostro. Penso che tu sia veramente pazzo; anche quando stavamo insieme non facevi che parlare del passato tu, della tua infanzia, di quando andavi a scuola, della donna che avevi avuto prima di me. Sei malato e, con gli anni, addirittura peggiorato! A me tutto questo non interessa più".
Giorgio tacque e di nuovo pensò che avesse ragione lei. Non aveva alcun senso rimestare nei ricordi, era necessario guardare avanti, anche se lui il suo futuro non riusciva proprio a vederlo.
"Questa è l'ultima volta che c'incontriamo" gli disse lei.
"E' molto probabile, specialmente se nessuno dei due cercherà l'altro. Io, per la verità, dopo che tu te ne andasti con Federico, continuai a cercarti, ma tu non mi rispondesti mai, tranne la prima volta per mandarmi al diavolo. Ho pensato che tu davvero non mi sopportassi più, che io ti fossi ormai completamente indifferente o che addirittura mi odiassi"
"Sì, io ti ho odiato," confermò lei "poi però è subentrata l'indifferenza. Ma ritornare a parlare del passato, Giorgio, questo davvero non lo voglio, mi fa male. Io non posso più guardare indietro, come feci con te per anni, ma solo avanti".
"Tu, Elena, certo lo puoi fare, anzi lo devi fare: hai un figlio. Io, no; io non posso. Non è nel mio carattere e non ho altri a cui pensare che a me stesso".
Tacquero di nuovo, ma ora il silenzio si era fatto meno pesante. Elena guardò l'orologio, si stava facendo tardi. Doveva sbrigarsi se non voleva perdere l'aereo; prima di partire però voleva accompagnare suo figlio in bagno. Se Giorgio voleva, poteva aspettarla; altrimenti, si sarebbero detti subito addio.
"Ti aspetterò, Elena: io ho un po' più tempo per l'imbarco".
"Ero certa che mi avresti risposto così: che mi avresti detto che mi aspettavi, ma non perché ti faceva piacere restare ancora e dilazionare l'addio, ma perché c'era un'altra ragione. Non sei cambiato affatto, Giorgio: adesso come allora, c'era e c'è sempre un'altra ragione: adesso ti sei inventato che mi aspetti per ingannare il tempo".
"Se mi conosci e mi conoscevi così bene, perché all'epoca premesti tutti i tasti sbagliati?" le chiese lui.
"Ero troppo giovane, Giorgio: non è il caso di parlarne".
Chiamò allora François, lo prese per mano e s'incamminarono insieme verso i bagni. Trascorse un quarto d'ora prima che tornassero. Nel frattempo lei si era truccata ed un leggero sorriso illuminava adesso il suo volto: a Giorgio sembrò di rivedere la stessa Elena di un tempo.
Lei gli si accostò ed appoggiandogli una mano sulla spalla in un orecchio gli sussurrò: "Non sei cambiato affatto, Giorgio. Cerca di essere felice per quanto puoi". Fu lei ad abbracciarlo per prima; poi, ritraendosi bruscamente con gli occhi improvvisamente increspati, ripeté "io non posso guardare indietro, Giorgio, non posso".
Prese di nuovo la mano di François nella sua, si voltò di spalle e cominciò ad incamminarsi nel lungo corridoio dell'aeroporto. Lui avrebbe voluto fermarla, era un pezzo della sua vita che si stava eclissando. Cadde di nuovo pesantemente sulla sedia, mentre vedeva madre e figlio perdersi in lontananza fra la gente: erano ormai su una scala mobile, presto lui non sarebbe stato più in grado di distinguerli. Solo allora Giorgio notò la sagoma di lei che con la mano faceva un cenno di saluto, l'addio definitivo. Poi sparvero completamente.
Giorgio guardò l'orologio, per lui era ancora troppo presto per muoversi. Si chiese come avrebbe trascorso quel tempo. Si alzò dal tavolo e girovagò per un po' senza meta; poi s'infilò in un bagno. Aveva bisogno di urinare. Quand'ebbe finito, tirò su la chiusura lampo, si aggiustò la camicia nei pantaloni, ed uscendo dal bagno, vide la sua immagine riflessa in un grande specchio. Si aggiustò la cravatta, cercò di sistemarsi i capelli, ma la sua faccia gli parve senz'anima. Fece scivolare un po' di sapone nelle mani per lavarle; l'apparecchio dell'aria calda era rotto e nel bagno mancavano i rotoli di carta per asciugarsi. Si frugò così nelle tasche per trovare un pacchetto di fazzoletti. Non lo trovò, ma la sua mano urtò contro qualcosa di ruvido. Lo estrasse: si trattava di un foglio piegato in due, lo aprì. Era di Elena, sopra in una calligrafia minuta c'era scritto:
 
"Caro Giorgio,
 
probabilmente, non ci ha fatto bene rivederci. Adesso però che sei lontano, posso essere sincera con te e scriverti quelle cose che prima non ho avuto il coraggio di dirti. Anche se ho cercato di nascondere le mie emozioni, probabilmente non ci sono riuscita affatto. Ti chiedo scusa per i miei momenti di durezza, ma per me non è stato affatto facile incontrarti, così all'improvviso, dopo tanto tempo. Ero impreparata. Anch'io ho provato le stesse emozioni che immagino abbia avvertito tu: il tempo che è passato, la distanza e la vicinanza. Ho avuto perfino il desiderio di dirti che sono perfettamente felice, sapendo di mentire. François, mio figlio, è l'unica cosa che conti ormai nella mia vita, l'unico essere che io ami veramente. Quanto agli uomini, Louis è stato un ripiego, con lui ho trovato la serenità, la pace, la possibilità di parlare, ma non è certo questo l'amore. La storia con Federico fu una passione travolgente, questo lo sai. Come io sia stata dopo, questo te l'ho detto già.
Non ti ho detto però che sono stata sul punto di ricercarti anch'io. Che non fosse giusto lo capivo da me e sapevo anche che se fossimo tornati insieme, tu mi avresti rinfacciato per sempre la storia con Federico.
Io non amo più nessuno e nemmeno te: sappi, però, che se c'è stato un uomo che io abbia veramente amato nella vita, quello sei stato proprio tu. Tu non l'hai capito quell'amore, l'hai disprezzato, ti sei comportato come un elefante, anzi un elefante depresso, sicché senza volerti dare colpe, penso che fra le braccia di Federico mi ci abbia buttato proprio tu.
So benissimo che, a modo tuo, in mezzo a milioni di difetti, qualche volta sai essere anche grande. Mi secca dirlo, ma sei l'uomo più intelligente che abbia mai incontrato. Ma, ti prego, se dovessi capitare a Parigi, non cercarmi; fa' che quest'incontro di oggi, rimanga quello che è stato, un incontro casuale e basta. Anche se è quasi impossibile che tu possa rintracciarmi perché dell'Elena che sono adesso tu ignori tutto, ti prego, non farlo mai. Non turbare la mia pace per il tempo che mi resta da vivere. Sì, hai letto bene, il tempo che mi resta da vivere.
Vedi, è difficile dire ad un estraneo che incontri per caso all'aeroporto e con cui scambi quattro chiacchiere, una cosa del genere: io ho il cancro. E' cominciato al seno, pareva fossero riusciti a prenderlo in tempo, ma dagli ultimi accertamenti risultano metastasi diffuse. Forse sopravviverò per qualche anno ancora (come?), forse morirò prima, lasciando senza madre un bambino piccolo ancora.
Ho paura del futuro, Giorgio, ma di quello soltanto mi debbo preoccupare, soprattutto per François. Mentre eri con me, mi è venuto perfino in mente che lui avrebbe potuto essere figlio tuo e mi sono sentita una traditrice. Non ti avessi mai incontrato oggi! Mi hai fatto del male. No, non è vero, sono ingiusta adesso: non è stato solo doloroso rivederti, è stato dolce e triste insieme. Non cercarmi mai però, te lo ripeto e, mi raccomando, abbi cura di te stesso.
Addio, Elena".
 
Finito di leggere il biglietto, Giorgio sentì stringersi la gola, mentre le lacrime gli salivano agli occhi. Una parte di sé avrebbe voluto frenarle, un'altra avrebbe voluto cacciarle fuori e farlo scoppiare in un pianto dirotto. Sentì che il volto gli si stava rigando, ma dalla bocca non uscivano singhiozzi: era un pianto dignitoso il suo, forse nessuno l'avrebbe notato. Si asciugò gli occhi col palmo delle mani, prese il bagaglio a mano e percorse lo stesso corridoio di Elena. La sua uscita era un'altra. Salì inebetito sullo shuttle ed inebetito ne scese, gli parve di camminare in mezzo alla nebbia, in cui anche la paura di volare si andava dissolvendo. Dalla vetrata dell'aeroporto vide partire uno o due aerei. Si sedette nella sala d'attesa, il volo per New York sarebbe stato aperto di lì a poco.
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Premio Angela Starace 2002
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