Autori contemporanei
affermati, emergenti ed esordienti

Ivo Fogliasso
Con questo racconto si è classificato primo al concorso Marguerite Yourcenar 2001 sez. narrativa
 

La taverna del sortilegio

 
Dritto, giallo e vagamente incongruo il minareto incombeva su di lui. L'uomo l'osservava perplesso.
"Cosa ci faccio qua?".
Il caldo gli stringeva un doloroso cerchio all'altezza delle tempie e le piante dei piedi gli ardevano.
"Cosa ci faccio qua?".
Si domandò ancora una volta a mezza voce.
Il cielo era gloriosamente azzurro, senza una nuvola. Immoto e lontano come lo sfondo di uno dei tanti Cristi ieratici che era venuto a cercare nell'isola. Era sbucato in quella via angusta per sfuggire al rumore ed alla confusione del centro medievale, percorso da file d'instancabili turisti incantati dalla paccottiglia esposta alla loro golosità. La strada era stretta, curva, mal lastricata ed in pieno sole.
Senza aspettarselo s'era trovato di fronte il minareto, antica costruzione che ostentava al sole impietoso le sue pietre ingiallite.
"Cosa ci fa anche questo minareto senza moschea e senza neppure un turco?".
Posando con cautela i piedi affaticati sulle lastre sconnesse, si avvicinò alla porta spalancata di una taverna, l'attraeva la sua ombra compatta. Salì tre gradini e si vide riflesso in un grande specchio. Istintivamente portò la mano ai capelli spettinati e appiccicati alla fronte ma con una scrollata di spalle troncò il gesto a metà e penetrò nell'ombra. Aveva visto un viso malamente arrossato e una barba, lunga e quasi incolta, sulla via d'incanutire completamente e un ventre pronunciato, messo impudicamente in evidenza dalla camicia quasi del tutto sbottonata. Per sua fortuna lo specchio non lo costrinse a vedere le gambe rinsecchite che si perdevano in un paio di bermuda tanto stropicciati da essere ormai impresentabili. Senza salutare né far caso a chi ci fosse dietro al banco, sedette ad uno dei piccoli tavolini con il piano di marmo fresco. Posò la borsa accanto a sé e solo allora si guardò attorno.
Due ragazze aspettavano che si sistemasse. Quella in piedi dietro al bancone aveva sul viso un mezzo sorriso. L'altra, seduta accanto al bar, sembrava non lo vedesse.
"Buongiorno", disse in italiano.
Una delle ragazze rispose al saluto ma lui non capì in che lingua avesse parlato. Nella taverna non c'erano altri clienti e la melopea greca diffusa da una radio completava il contrasto con i locali affollati e strepitanti, distanti solo poche decine di metri. Prese il menù e decise di mangiare qualcosa, la cucina greca non gli spiaceva ma trovava un po' monotona la lista che aveva trovato quasi identica ovunque, tanto più che non amava né le carni né il pesce. La ragazza lasciò il banco e gli si avvicinò. Rimisi gli occhiali che s'era tolti per asciugare il sudore del volto e la vide bene per la prima volta.
"Uno splendore", pensò.
Cercarono d'intendersi con il reciproco poverissimo inglese ma non riuscirono. Lei farfugliava e suppliva sorridendo alla mancanza di comunicazione, lui era affascinato da quegli occhi grigio chiaro dai riflessi verdi che lo fissavano divertiti e parlava in italiano senza rendersene conto. Intervenne la seconda ragazza e poté costatare che anche lei meritava lo stesso stupefatto giudizio che aveva espresso sull'avvenenza della prima. A gesti e sorrisi riuscirono ad intendersi ma per cucinare il semplice piatto a base di yogurt e formaggio che lui aveva ordinato, dovette arrivare una terza donna, evidentemente la madre delle due ragazze.
L'arrivo della donna più anziana, infatti, gli consentì di collegare ognuna delle giovani alla madre e di scoprire, oltre le indiscutibili diversità, anche alcuni tratti comuni fra loro. Non riuscì a scambiare che poche smozzicate parole anche con la madre che parlava e sorrideva con gusto, ma si trattenne ben oltre il tempo che di consueto dedicava alle soste nei bar e nei ristoranti. Sembrava che la sua presenza non importunasse nessuno, la madre andava e veniva, usciva dalla taverna e dopo un po' rientrava, sempre sorridendogli amabilmente. La ragazza più alta se ne stava dietro al banco scambiando poche parole con la sorella sempre immobile ma vicina. Ora l'una ora l'altra gli servivano quanto chiedeva per poter prolungare la sosta, attente, perfino celeri ma senza averne l'aria, quasi scivolassero sulle piastrelle scure tirate a cera, sorridendogli cortesi ma senza alcuna piaggeria.
Ebbe modo di guardare le tre donne a suo piacimento e tutte, pur così diverse, gli sembrarono simili, ben più simili di qualunque madre e figlia o di qualunque coppia di sorelle che avesse conosciuto. Venne l'ora di andarsene, pagò, scambiò qualche parola con l'espansiva signora ed a malincuore scese i tre gradini che lo consegnarono al sole feroce del pomeriggio.
In albergo si sentì a disagio. Fece una doccia prolungata, finse di aggiornare gli appunti, indugiò a guardare il mare dal balcone.
Si rivestì con una certa cura ed uscì precipitosamente.
Alla taverna l'accolsero come una vecchia conoscenza. Altri clienti, tutti isolani, occupavano tre dei quattordici tavolini affiancati due a due che, con il bar, costituivano l'arredamento del locale, giocavano a domino e chiacchieravano sommessamente.
Nessuno sedeva ai quattro tavolini all'aperto, sistemati sulla strada di fronte all'entrata. Ebbe modo di osservare le donne che si occupavano dei clienti e riuscì finalmente a dar loro un nome. La madre si chiamava Maria, una donna già in età, che nascondeva sotto antiche pinguedini, i segni d'una bellezza sicuramente un po' grezza ma altrettanto sicuramente notevole. Il volto ovale, quasi solare e lievemente abbronzato, era regolare e simpatico ma pareva asimmetrico a causa di due nei, un tempo forse vezzosi ed ora fin troppo vistosi, l'uno sulla guancia e l'altro sul labbro superiore, entrambi nella parte destra del volto. I capelli nerissimi e crespi erano evidentemente trascurati ma puliti. Gli occhi implacabilmente neri come l'abito più che modesto che indossava, avrebbero dovuto conferirle un aspetto dimesso ma non era così. Il sorriso pronto e spontaneo, l'inaspettata agilità del corpo che s'intuiva appesantito e vagamente sformato, la sveltezza dei gesti le regalavano un'aria gaia e rendevano l'ombrosa sala un luogo accogliente e rilassante.
Elena era la figlia minore, all'apparenza non aveva più di vent'anni. Parlava poco e si muoveva con una rapidità stupefacente sebbene si avesse l'impressione che non si affrettasse, quasi scomponesse il suo gestire in successivi, scanditi, frammenti di moto. Impressionava la sua capacità di restare immobile per lunghi minuti, come pietrificata, gli occhi persi in punti remoti ed indefiniti. La sua statica presenza sarebbe parsa inquietante se non si fosse avvertita quasi fisicamente, la sensazione che né l'immobilità, né lo sguardo perso nel vuoto erano reali.
Elena era fra le tre, quella sicuramente più presente, quella che per prima coglieva questa o quell'esigenza di un cliente, mettendosi in moto o segnalandola con frasi brevi, con un tono di voce basso e cortese. Gli servì una birra fresca nello stesso momento in cui lui, con lo sguardo cercava a chi comunicare la sua richiesta. Un istante dopo era già seduta al suo posto a fianco al bar, falsamente remota. L'ovale del viso era quasi perfetto, gli occhi erano l'esatta copia di quelli della madre e i capelli lisci annodati sulla nuca, erano altrettanto neri. Il corpo era ben disegnato e proporzionato, un corpo pieno e mediterraneo, senza eccessi e senza carenze. Vestiva una gonna cortina e una maglietta dello stesso colore, un verde opaco che metteva in risalto la sua pelle ambrata, decisamente più scura dell'incarnato della madre o della sorella. La gonna la fasciava stretta all'altezza del bacino e la maglietta era decisamente scollata, ma l'insieme risultava gradevole e tutt'altro che volgare o volutamente provocante. Solo gli occhi erano contornati da un filo di trucco che li rendeva grandi, quasi stupefatti, quando sorrideva.
Gregora era la più alta, snella ma con un corpo pieno e flessuoso, la sua pelle era chiara ed i capelli castani percorsi da colpi di sole. Alla base del collo e sulla parte del seno che, come la sorella offriva agli sguardi senza ostentazione, notò delle leggere e diffuse efelidi. Si muoveva con leggerezza e lui scoprì che i riflessi degli occhi erano verdi se in ombra ma azzurri quando erano illuminati dal sole. Il trucco attorno agli occhi era semplice ma sapiente, infatti quando non sorrideva gli occhi sembravano due sottili fessure luminose ma quando sorrideva si spalancavano stupefatti e meravigliosi. Delle tre donne era quella che offriva più irregolarità ad un'attenta analisi: la bocca era appena più grande del dovuto, le braccia sembravano troppo lunghe ed il sedere, sodo e sporgente, era forse un po' troppo basso. Tuttavia l'insieme era stranamente armonico, uno splendore di ragazza, appunto. Gli ricordava un ghepardo, uno splendido animale che osservato in dettaglio, offriva più d'un aspetto poco gradevole: la testa troppo piccola, la coda troppo lunga, le spalle abnormemente dinoccolate... ma uno splendido animale comunque. Sorrise fra sé quando immaginò d'aver risolto il mistero dell'intima somiglianza tra le tre donne: non erano soltanto madre, figlie e sorelle, erano tre gatte, tre meravigliose gatte che occupavano uno spazio tutto loro in cui ammettevano gli estranei con gentile condiscendenza e cortese, innata eleganza.
Scoprì che nella "Taverna delle tre gatte" si sentiva bene, molto bene. Non ricordava da quanto tempo non si sentisse così bene, anche se non ne capiva la ragione.
Riuscì a strapparsi dalla taverna a notte fonda. Le viuzze della città medievale erano quasi deserte. La mattina dopo occupò il "suo" tavolino nello stesso momento in cui Gregora spalancò la porta della taverna. Così il giorno seguente e quello dopo. Il terzo giorno scorse Maria affacciata al balcone del primo piano e capì che il piccolo edificio conteneva anche l'abitazione delle donne. Maria vestiva un abituccio da casa, forse una vestaglietta, d'un bianco abbagliante. Le sembrò assai più giovane e la salutò con entusiasmo. Molto più tardi scoprì che le donne possedevano l'intera piccola casa d'impianto medievale: il piano terreno era interamente occupato dalla Taverna e, per mezzo di una scala esterna situata nella parallela viuzza, salivano ai due piani che la completavano. Trascorse un'intera settimana al "suo" tavolino. Lavorava un poco ai suoi appunti, di tanto in tanto usciva per minimi acquisti e suscitava l'ilarità delle donne sforzandosi di parlare in greco aiutandosi con un manuale di conversazione per turisti. Dimenticò il suo programma di visite ai monasteri dell'isola. Ogni sera formulava virtuosi propositi e ogni mattina s'avviava senza rimorsi verso il minareto e la Taverna.
Una sera riuscì a prendere la decisione di rientrare a casa. Temeva di non riuscire a strapparsi al fascino sottile delle "gatte" ed al benessere che lo avvolgeva nella loro Taverna.
Tormentò il portiere dell'albergo finché non ebbe la certezza di un volo per l'indomani. Partì. Ci riuscì soltanto perché temeva il giudizio del portiere al quale aveva raccontato una drammatica bugia per motivarlo nella ricerca notturna, vinse il rispetto umano ed il rischio di doversi vergognare come un ragazzino.
 
Dalla sua città, con non poca spesa per i servizi di un traduttore, tempestò caparbiamente di lettere e di telefonate la Taverna delle gatte e ottenne, nonostante i reiterati iniziali rifiuti, d'essere ospitato dalle donne in qualità di pensionante. Sbarcò nell'isola dal traghetto, a bordo della sua automobile stracarica di libri e di cianfrusaglie. In compenso gli abiti erano pochi. Si presentò raggiante sulla soglia della Taverna e vi fu ricevuto come se ne fosse uscito la sera prima.
Era di nuovo estate. Aveva impiegato quell'anno a liquidare la sua precedente esistenza di vedovo prepensionato, costretto ad inventare strampalate ricerche artistiche per non morire d'inedia intellettuale. Nel frattempo Maria, finanziata opportunamente, aveva fatto apportare alcune modifiche alla casa, per poterlo ospitare con un minimo di agio e di riservatezza. Nella stanzetta del secondo piano, l'unico pensionante della Taverna delle gatte, riuscì a stipare i libri e tutte le sue cianfrusaglie. Un po' impacciato per l'implicita viltà, non riuscì a trovare un posto opportuno per collocare il ritratto della sua defunta moglie che finì, a faccia in giù, sul fondo del cassetto della biancheria. La sua camera e il suo bagno occupavano la metà del secondo piano, l'altra metà era occupata dalle ragazze, la madre dormiva al primo piano, accanto alla cucina ed alla quasi inutilizzata sala di rappresentanza, l'unico ambiente arredato sfarzosamente e decorato con un gusto squisitamente orientale. Tutti gli altri ambienti erano d'una semplicità francescana ma, in ogni stanza regnava l'armonia del buon gusto ed il nitore delle pareti candide. Passò l'estate e vennero i lunghi uggiosi mesi di pioggia. A differenza di quasi tutti i locali che prosperavano grazie alla sete ed all'appetito dei turisti, la Taverna delle gatte chiuse soltanto in occasione del Natale ortodosso.
La vita dell'uomo scorreva placidamente fra la sala della Taverna e la cucina del primo piano, solo la domenica pranzava al primo piano, quasi sempre in compagnia di Maria e di Gregora, Elena si occupava dei pochi avventori che trovavano calore e rifugio dalla pioggia nel locale sempre aperto. Non si pentì mai della sua scelta, era ben cosciente di godere del privilegio d'un arcano ed inspiegabile incantesimo ed il suo unico desiderio era quello d'entrare sempre più in intimità con le tre donne. Un desiderio non del tutto soddisfatto, poiché la sua conoscenza della lingua greca, sempre scarsa per quanti sforzi facesse, permetteva a Maria ed alle ragazze d'essere evasive quando gli argomenti di conversazione non piacevano loro. Tuttavia credette di capire che le sorelle non erano state generate dallo stesso padre e che, sicuramente, gli abiti perennemente scuri di Maria, rappresentavano il lutto per la morte del padre di Elena o chissà, di entrambi i padri. Si stupì anche per la mancanza di corteggiatori per due giovani così affascinanti, ma poi si rese conto che, con estrema discrezione, i corteggiatori non mancavano e che le ragazze uscivano spesso, rientrando poi a notte fonda. Mai insieme ed entrambe nella stessa sera però. Credette di capire che ciò era dovuto alla sua presenza in casa. Era quasi felice e, con il tempo, la sua felicità crebbe. Si sentì al centro di un gioco sottile di sguardi, di attenzioni, di gesti appena accennati, perfino di scherzi.
Sovente si creava un delicato e intimo clima, talvolta si stemperavano nell'aria della Taverna aromi di erotismo inespresso. Piccoli progressi, piccoli passi avanti verso quell'intimità totale che era l'unico desiderio insoddisfatto dell'uomo. Tornò l'estate ancora una volta e il caldo non l'infastidì più, anzi godette del sole, del vento, del mare azzurro e della schiuma immacolata. Dalle sue passeggiate, brevi, perché non sopportava di stare troppo a lungo lontano dalle gatte, tornava allegro con un dolce, un ninnolo o un fiore, offriva il piccolo dono ora a Gregora, ora per Maria o a Elena e le faceva ridere per le sue goffe galanterie che enfatizzava ad arte. Il secondo inverno nell'isola maturò per lui un frutto avvelenato: si ammalò gravemente. Una broncopolmonite lo prostrò tanto da costringerlo a ricoverarsi in ospedale dove soffrì le pene dell'inferno. Anche nel torpore indotto dai medicinali, sentiva la mancanza della "sua" taverna, gli mancavano le "gatte", la stufa che crepitava e le sigarette fumate beatamente seguendo con lo sguardo il va e vieni di Maria, la danza di Gregora e la delicata immobilità di Elena. Ogni giorno godeva della presenza di una o due delle "sue" donne, ma per lui le visite erano sempre troppo brevi. La convalescenza gli portò la consapevolezza di non essere soltanto un pensionante. Tornato a casa e costretto all'esilio nella sua stanza, ebbe modo di ricordare le cure che Maria gli aveva prodigato, giungendo a trascorrere un'intera notte accanto a lui quando la febbre lo divorava e la tosse lo squassava. Ricordò gli occhi tristi di Gregora che spiavano il decorso della sua malattia e le visite silenziose di Elena. Nei lunghi giorni di convalescenza ebbe nuove conferme. Spesso Gregora lo raggiungeva e si sedeva accanto a lui per tenergli compagnia, per distrarlo cercava di migliorare ed arricchire il suo povero greco. Una sera si sentì poco bene ma si sforzò comunque di seguire l'improvvisata lezione, lei se ne accorse e gli consigliò di riposare, si alzò e lo salutò con un lieve bacio sulla guancia. Elena rientrò tardi una notte e si affacciò alla soglia della sua camera, lo vide assopito nella mezza luce della lampada velata e avvicinatasi, gli sfiorò la fronte con una carezza. Lui aprì gli occhi e la giovane gli sorrise ammiccando complice e tenera. Quasi lo stesso sguardo di Maria quando, qualche giorno dopo, sorprese il suo sguardo sui suoi seni. In piena notte ebbe un improvviso e fortissimo accesso di tosse, aveva evidentemente ricominciato a fumare troppo presto e Maria accorse dal piano di sotto indossando soltanto una vestaglia sulla camicia da notte. Quando l'aiutò a sollevarsi passandogli un braccio dietro le spalle, la vestaglia si sciolse e fu quasi inevitabile che lo sguardo dell'uomo scivolasse sotto l'ampia scollatura della camicia. I seni di Maria erano vasti, morbidi e riposanti, quando sollevò lo sguardo vide nei suoi occhi un'espressione di rimprovero, addolcita però da un'indulgente tenerezza e, gli parve, anche da un pizzico di matura complicità. Quando restò solo si sentì felice.
Pensò:
"Chissà come si dice in greco "mi vuoi sposare?"".

 

Classifica Concorso Marguerite Yourcenar 2001 sezione narrativa
 
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inserito il 3 novembre 2001