Autori contemporanei
affermati, emergenti ed esordienti

Ilaria Cavalletto

Con questo racconto ha vinto il terzo premio del concorso Club Poeti 2001-2002, sezione narrativa

 
"XYZ"
 
Non sono un uomo come gli altri, me lo dicevano sempre, e sorridendo senza capire fissando quegli sguardi un po' vuoti in orbite ossee scavate ed erose dal tempo, dall'acqua. Dai sentimenti. Che bella cosa i sentimenti... cascate di impulsi elettrici colorati e stravaganti, spilli acuminati di dolore e gioia e rabbia e paura che si conficcano in mani, braccia, ma soprattutto lungo la schiena e rompono e frantumano, tanti piccoli tarli alacri che stridono se incontrano le ossa, parassiti invincibili e impazziti. E l'odore rancido del sudore che gonfiava il mio cuscino nelle notti in cui, al buio, sognavo che mia madre mi picchiava e tanti uomini brutti sporchi e crogiolanti di grasso erano in casa mia, ubriachi danzanti tra lenzuola sudice e seni cadenti. Poi tutto si avvolgeva in una spirale di fumo nerastro e fuligginoso, quello del camino, di una vecchia locomotiva di un treno, uno scarico di lavandino nel cesso di un bar come ce ne sono tanti. E nebbia, e freddo, e le bottiglie per le scale che danno al soggiorno e piccoli lampi di odio per il mio giardino e perché mi impedivano di giocare con gli altri bambini. Io ero diverso. Anche adesso lo sono. Uno è quello che è, non cambia mai, anche se ci prova. Mio padre era l'ombra di un ricordo, la solidità di un fantasma che sorrideva da qualche fotografia vecchia e opaca. Era un eroe, mi dicevano, perché era morto per il mio paese. Ma non credo che fosse poi così facile. Le guerre sono a milioni, tutti i giorni, le notti, dietro a casa mia, le guerre ci sono dentro le scuole. Quante ne ho combattute. E le ho tutte perse. Ma non sono morto, e allora non sono un eroe, sono solo diverso. Il paese non mi dirà mai grazie, nessuno chiederà mai scusa. Il guaio è questo, unico e grande: siamo uomini. Gli uomini non scontano mai le loro pene, è una questione di colpe che rimbalzano qua e la come pallottole impazzite alla ricerca di un capro espiatorio su cui versare lacrime e dolore e prose di retorica di ottimo stampo ma vecchie e poco originali. Sono sempre le stesse, sono patrimonio di tutti. Nei tribunali, per le strade, nei negozi. E nessuno dice basta al gioco malsano di bambini che usano armi vere e che non fingono di morire, non ci saranno madri che diranno loro di rientrare, che la cena è pronta. Mia madre non lo faceva mai. Mi ci riportavano a casa, a volte. Le altre non ricordo. Suppongo di aver avuto anche io i miei eroi.
Ma ero diverso. E non importava granché a nessuno, in quel tempo: se non sei in grado di pensare come tutti fanno, se sei troppo povero per fare un'offerta alla chiesa una volta al mese e se tua madre annega nell'alcool e in liquidi seminali che ogni mattina vomitava. La colpa era mia.
Da quel giorno in poi è cambiato tutto. È buffo, non-ricordo e memoria si sono fusi insieme e mischiati, come zucchero dentro al caffè. Una cosa tanto semplice, la legge entropica, ma che ancora oggi mi fa rimanere ipnotizzata davanti a questa tazza e mi fa pensare a quanto calcolata sia la natura. Minimo sforzo massimo risultato. Noi ne siamo la concettualizzazione, noi uomini così scostanti e cannibali. Ho sempre pensato che non ci fosse affatto bisogno di mangiare la carne di un simile per essere dei mostri. Quelli sono solo riti. Da quel giorno, dicevo, è cambiato tutto. E la chiave è stata una: l'odio.
Sembra una barzelletta, e forse è così; beh, io lo ero, ero il giocattolo di mamme mugulanti che mi regalavano la loro pietà senza che ne chiedessi mai nemmeno un briciolo, ero lo spasso di bambini selvaggi e crudeli. Ma penso che al loro posto avrei fatto la stessa cosa. Facevo ridere anche per come prendevo le sassate. Ho avvertito quello scatto nella testa, la prima volta, e il mondo è cambiato. Naturalmente ero io, ma l'ingenua stupidità mi diceva che forse erano arrivati i miei eroi, speravo che tutto si adeguasse a me anche un bambino scemo pensa, solo che giunge a conclusioni diverse, sceme, appunto.
Ero felice, ero convinto, ero in camera mia e sono corso giù da mia madre che sarebbe stata bella, buona e mi avrebbe preparato la merenda, come le mamme nelle riviste. Sono corso giù, dicevo, e l'ho trovata tale e quale a come l'avevo lasciata. Ricordo perfettamente che me ne stavo lì, immobile sull'uscio, con tanta voglia di piangere e ancora più nebbia nelle mie idee.
I soliti insulti: bastardo, ritardato, vattene, non ti far vedere.
Li capivo, ero lì a prendermele dietro come staffilate sulla schiena ed è stato come una rivelazione, un'epifania, ecco il termine che cercavo. Non ero più nel mio mondo, ero nel suo, nel vostro, e faceva male, ma ancor di più faceva rabbia. Tanta.
È stato venti anni fa.
E sono scappato fuori, ho preso le chiavi della macchina e me ne sono andato, guidatore provetto, io che fino a pochi minuti prima non sapevo neppure andare sulla bici a due ruote.
La cosa che mi ha sorpreso di più è stata la feroce lucidità delle mie azioni. Mi guardavo ed ero dalla parte giusta dello specchio, e non si può capire che cosa sia. È come sbattere la testa talmente forte da avere un ematoma che non ti permette di vedere niente, è come un'overdose, ma di realtà. È stato un impatto fortissimo, avrebbe potuto farmi impazzire. Ma di problemi mentali ne avevo già abbastanza ed essere ancora un bambino da questo punto di vista mi ha salvato. I bambini accettano tutto, i bambini sono creature straordinarie, io lo ero più di tutti.
L'unica cosa che feci fu di accostare e dormire. Ero stanco, spossato, ed avevo guidato per molte ore. L'attenzione canalizzata mi ha sempre ucciso. Anche adesso, che sono qui mea sponte davanti ad uno schermo per scrivere quanto rimarrà di me. Non ho argini, per quello faccio fatica. Non ho percorsi forzati come la maggior parte delle persone, ho acquisito la mia normalità ad un caro prezzo ed in maniera assolutamente straordinaria, ma sono felice. Per la prima volta nella mia vita sono felice di essere diverso. Oserei dire quasi orgoglioso.
Un'altra cosa che mi salvò fu il fatto che per i primi tempi durava poco, ma ne serbavo il ricordo. Quant'è difficile spiegare.
Quello che intendo dire è che i momenti di lucidità ormai erano fasi in cui dimostravo di essere un genio in qualsiasi cosa, poi ritornavo ad essere come sempre. Scemo. Ed era come se ci fossero due persone diverse dentro il medesimo corpo, una che aveva memoria e ricordava perfettamente tutto e l'altra perfettamente assopita. Una sorta di meccanismo di autodifesa, immagino. Confesso che vorrei difendermi tanto bene ora. Il fatto è che non ne ho più voglia.
Antitetico.
Ecco la parola giusta per me.
Fatto sta che mi svegliai in un letto di ospedale, completamente incapace di rispondere alle più semplici domande - non sono mai stato in grado di ricordarmi il mio indirizzo.
Perizie psichiatriche, visite, ma a quei tempi non è che si facesse molta attenzione a uno come me, così mi riportarono da mia madre dopo un paio di giorni.
E per altri due o tre non andai nemmeno a scuola, me la feci nei calzoni e inzozzai il mio già sudicio letto. Non ricordo il numero delle cinghiate, ne quello dei calci, figuriamoci quello dei pugni.
Dopo circa un mesetto mi ricapitò. Ero nel cortile della scuola e uno dei tanti mi picchiava sotto gli occhi soddisfatti dell'insegnante di educazione fisica che quelli come me non li poteva vedere. Doveva essergli andato ben di traverso il caffè che stava bevendo, perché ad un tratto si girò e vide Me, lo scemo, che spaccavo naso faccia e polso a quell'ammasso di ciccia povero malcapitato.
Ero magro scarno e bollente, non gli fu facile lo stesso sollevarmi e farmi sbattere contro il muro della scuola. Niente da dire sul poi: il bimbo violento e ritardato fu espulso dalla scuola seduta quasi stante. Ma ero ancora lucido quando l'uomo di turno di mia madre mi fracassava le ossa e io gli sputavo contro e in tedesco gli dicevo di andare a farsi fottere. Mio padre era di origini tedesche. Non mi chiedo dove l'avessi imparato, tanto risposta non c'è. Non chiedetevelo nemmeno voi.
Passano un po' di stagioni - che termine deliziosamente poetico - e mi riportano in ospedale, sempre per percosse. La burocrazia vuole che un'assistente sociale passi per una visitina di routine, diciamo così. E devo avergliene dato un bel po', di lavoro, a quelli dell'assistenza sociale, perché tornarono più e più volte a vedere lo stato di mia madre ed il mio. Ed era una reazione innescata impossibile da fermare: li guardavo negli occhi e li odiavo, vedevo il ribrezzo per me, per mia madre, per una fatiscente casa che sapeva sempre di urina, per quella moquette sollevata dall'acqua cascata dalle tubature. Li vedevo, nei loro vestitini così a modo, con quei sorrisetti di cartone che nascondono sempre altri pensieri - chissà se la tata ha buttato fuori la spazzatura nella mia bellissima casetta col giardino e le begonie dappertutto. Ed ero talmente scemo da non volermi separare da mia madre, che probabilmente aveva anche iniziato a farsi, in quel periodo, mentre a lei non importava proprio nulla. Forse per lei ho anche pianto, ma nella mia vita i falsi ricordi sono molti.
Ma una cosa la sentivo bene dentro di me: la rabbia perché ancora una volta vedevo l'indifferenza aleggiare e svolazzare e arrotolarsi intorno alle persone come quei grossi serpenti che sognavo di notte. Avevo ancora bisogno di un pretesto, per odiare. Avevo bisogno che qualcosa di cattivo fosse fatto a me personalmente. Adesso no, mi basta guardare fuori dalla finestra e il rubinetto si apre.
Mi hanno messo in un istituto con altri ritardati come me, che mi sbavavano sulle mani, tutti con gli occhi profondamente tristi ed ingenui e opachi. Io ero fuori luogo, ero la via di mezzo, non ero capace di stare con loro perché vedevo me stesso e ne avevo pietà, non riuscivo a stare con gli altri perché io non ero così. Che inferno con quei momenti di folle lucidità che mi facevano urlare ed impazzire nella notte. Mi mettevo al tavolo e scrivevo come un pazzo, calcavo la mano per uno scarabocchio e veniva fuori un capolavoro, una melodia in testa si trasformava in sinfonia sotto i miei occhi. Poi di nuovo ritardato, poi di nuovo ritardato, poi di nuovo genio. Ammassavo le cose di notte e non dormivo e lavoravo a pezzi, disegni, musiche, sculture, progetti, tutto era fonte di ispirazione, niente veniva trascurato. Ero ossessionato dalle cose intorno a me, ero in preda ad una fame folle di un qualcosa che non riuscivo mai ad ottenere, qualcosa che cercavo nelle venature ossessive di una foglia, del legno di un albero, nei cerchi concentrici dell'addome di un ragno. Divoravo libri e non ne avevo abbastanza, ero disperato. Numeri, equazioni, integrali sgorgavano come minuscoli insetti dalle dita nere di inchiostro, e l'angoscia non finiva, aumentava sempre più, finivo quasi sempre svenuto per la fatica o per una crisi epilettica o per un'emicrania. Le prime volte vedevano tutti quei fogli, li guardavano e mi chiedevano da dove li avessi presi. Poi cominciarono ad osservarmi meglio ed io finsi nel mio ruolo sempre uguale di attore inimitabile ed irraggiungibile. Sapevo fin troppo bene che se avessero scoperto il vero lato di me non avrebbero fatto altro che piantarmi elettrodi e studiarmi e spingermi a schiacciare i pulsanti colorati come una scimmia ammaestrata in uno studio sull'intelligenza animale. Mi impedivo qualsiasi gesto, arrivavo a prendermi a pugni, a farmi prendere a pugni per placare la mia febbre. Scariche di energia pura non venivano disperse e mi distruggevano sempre più cervello e logoravano i nervi. Attacchi epilettici, emicranie, in quel periodo erano i miei migliori consiglieri, unica prova al fatto che ero vivo, meravigliose torture insopportabili oltre ad ogni limite. Poi un giorno smisero di trattarmi come un topo da laboratorio, e la motivazione era che ero talmente scemo e selvaggio ed emotivo che non sopportavo nessun tipo di violenze, né fisiche né morali. Io so cosa sia la violenza psicologica, prigioniero di me stesso e di una realtà che ha iniziato ad invadere la mia. Siamo i carcerieri di noi stessi, con le nostre costrizioni, i divieti, i limiti. Quelli come me ne sono la prova.
Ed ero solo, e mi sono sempre chiesto se questo fosse un bene od un male.
Ma ero padrone di me stesso, come lo sono ora.
Eppure non mi conoscevo, non riuscivo a trovare un posto nella razionale raccolta di caselle vuote da riempire con le nostre menti, non c'era posto per me, e più lo cercavo e più mi sentivo male. Questo coincise più o meno col periodo dell'adolescenza, segnata da attacchi di panico e blocchi respiratori che mi costringevano immobile mentre ogni mio nervo rantolava e si girava su se stesso provocandomi dei dolori atroci che vennero classificati come inizio di distrofia. Calmanti e tranquillanti per farmi dormire non facevano che rendere più furiosi i lobi del mio cervello, sgonfiavo e rigonfiavo ogni muscolo mentre legato al letto con strappi e scosse tentavo di liberarmi. Le mie dita correvano impazzite preda di una melodia che avevo in testa ma che nessuno poteva capire, nella notte gridavo con tutte le mie forze di darmi carta e penna, ma erano versi molli resi tali dai calmanti che finivano per addormentarmi lingua e palato. Ero di nuovo preda di me stesso, delle mie paure e della mia stessa mente. E mi stava uccidendo. E scavava nuovi argini per lasciar scorrere il mio genio, mi martellava il cranio con nuovi tarli, mi lasciava con il corpo indolenzito dopo l'ennesimo attacco di convulsioni. E non potevo farci niente, piangevo di paura mentre gli altri mi davano dolci e caramelle che ero costretto a succhiare.
Ho sempre odiato i dolci. Adesso vomito se ne vedo uno ancora incartato ed ho incubi per notti intere. Ma avevo quindici anni ed ero incosciente come possono esserlo solo i giovani animali. Nonostante tutto, e non so come, mi ripresi, piano piano, convalescente e guru allo stesso tempo. Tornai in piedi, ricominciai a guadagnare qualche chilo sui dieci ulteriori che avevo perso, e il giorno in cui vidi di nuovo il sole sulla neve appena caduta mi sembrò di rinascere.
Composi tutta la notte un'immensa sinfonia che avevo memorizzato, nota per nota, centinaia di disegni e poesie e scritti di ogni tipo.
Si finisce sempre per accettare i compromessi quando ci si trova schiacciati tra la Pazzia e il Dolore. Sono i miei dèi, li venero e li adoro proprio perché ne ho paura. Io non mento a me stesso, e non sono mai riuscito ad essere filosofo se non delle cose essenziali. Non ho bisogno di credere in un Dio, non sono tuttavia un Superuomo e non studio da, non mi sono mai posto le stupide domande sul perché siamo qui e dove andremo a finire e di chi è la colpa. Qualcuno potrebbe pensare che ho paura delle mie risposte, io dico a quel qualcuno di andare a farsi fottere, sono già abbastanza angosciato dalla mia vita per occuparmi di quella dell'Umanità. Uomini, cavatevela da soli. Voi avete i vostri Dei, io i miei e nemmeno un gatto a tenermi compagnia. E va bene così.
Io vi odio, odio i due me stesso che lottano per il sopravvento di una mente sola, odio mio padre che è morto per qualcuno che gli chiedeva di farlo, odio l'amore, perché nessuno mi ha mai insegnato il contrario e perché dal mio modesto punto di vista non è altro che lo zucchero che addolcisce la pillola, è questo quello che si insegna ai propri figli.
Non crediate sia una richiesta di aiuto da chi, poveretto, di aiuto non ne ha avuto mai, io non ho bisogno di aiuto, mi basta quello che mi do da solo. Mi sento un personaggio romantico, un Werther moderno e rivisto da una mente un po' alienata. D'accordo, io sono quello che sono.
Meravigliosamente me stesso, antitetico fino alla fine che questa volta è vicina.
Ci ho provato tante volte, ultimamente, ma mi è sempre andata male.
Sei mesi fa sono stato io a chiamare mia madre adottiva dopo essermi tagliato le vene; codardia o no, ho improvvisamente sentito che dovevo fare qualcos'altro prima. E non sono nemmeno sicuro che scrivere sia il modo giusto.
Lei piangeva, all'ospedale, erano lì tutt'e due, mamma e papà, a chiedermi perché volevo far loro così tanto male. Li ho guardati negli occhi ed erano veramente commossi. Ho sorriso e ho parlato raccontando loro questa storia.
Siamo tutti pedine, alfieri, regine. Ma ci sono solo due re, nel gioco degli scacchi. E non sono mai riuscito a vincere. Questo è il mio grande limite.
Ho raccontato loro di come mi sentivo, anche se non ce ne sarebbe stato tanto bisogno. Li vedo, forme sagome fantasmi lontani e tremolanti nella luce del loro amore che si abbracciano e mi chiedono di andare verso di loro. Erano così anche la prima volta che li vidi. E la seconda. Quanto amore mi abbiano dato o cercato di dare non lo so, confesso che non li ho mai capiti e nei momenti di rabbia lo domandavo sempre, a mia madre, perché facesse tutto questo, perché mi volesse vicino a lei, quali gravi colpe avesse da scontare. E lei soffriva e piangeva di nascosto, con me cercava di essere calma, di non lasciarsi sopraffare, questa è la mia tattica di manovra delle persone e lei deve averlo capito molto bene.
Arrivai a casa loro una sera di maggio, se non sbaglio, con la loro macchina e le cinture ben legate attorno. Naturalmente non sapevano nulla di me, degli scherzetti che avrei combinato loro per i prossimi anni a venire, e d'altra parte era impossibile per loro accorgersi di qualcosa perché le visite duravano veramente poco e perché il mio divertimento preferito di quando non ci stavo con la testa - mi riferisco al momento in cui ero completamente inebetito - era di sbavare e pisciarmi addosso. Cosa che mi sono sempre rifiutato di fare mentre recitavo. La mia dignità di artista. Avevo anche quella.
A dire la verità non so perché presi a farlo, probabilmente era un modo per smaltire tutto il dolore provato prima, impulsi sessuali e pseudo - psicologi insegnanti filosofia permettendo, fatto sta che quei poveri due si aspettavano il peggio ma non di sicuro l'inferno. Non me l'hanno mai fatto pesare ma credo di avergli rovinato la vita e anche più sotto. Hanno vissuto per me, io ancora adesso non so perché vivo e non è cattiveria. Menefreghismo forse, o forse più semplicemente deve andare così. Non sopporto sofferenze atroci per anni per poi farmi impietosire. Sono stanco e non mi basta dormire, per riposare. Non riesco più a lottare perché non ho più quindici anni e la forza non me la regala nessuno, tanto meno loro. E ogni respiro è una sofferenza che un eroe titano sopporta. Io no, e non mi chiamo Atlante. Per cui fatevi avanti, il posto è libero e per persone serie. Si lavora con la pazzia, qui.
Avevo capito molto bene ciò che mi stava succedendo, ma il problema era accettarlo. Non avevo visto che ribrezzo negli occhi delle persone e nei loro sguardi c'era qualcosa che mi faceva paura, in un certo qual senso. Mi ribellavo ma non succedeva niente, sporcavo letti, biancheria e compagnia bella, perché mi pareva una punizione non prendere botte - anche in istituto mica ci andavano giù piano, e invece niente. Non riuscivo ad odiarli, e porca puttana sta cosa mi lasciava spiazzato perché non avevo fatto altro nella mia vita. La tranquillità di una voce maschile accanto a te, una madre che davvero me la preparava la merenda. Ho imparato a sorridere e non a ridere di disprezzo, uno dei miei ghigni, data la mia paresi semifacciale di cui non ho voglia di parlare. Vivo in un corpo da minorato, non dimenticate mai questo. Ci ho messo tanto tempo, a sorridere, tanto quanto quello che ci ho impiegato per imparare a fidarmi. Delle mie capacità, vi chiederete? No, di quelle non mi sono mai fidato, ho sempre pensato che un giorno se ne sarebbero andate dal mio microcosmo simbiontico, e sarà per questo che sono rimaste con me. Ma ho sempre fatto un errore. Perdonabile, per carità, non sono io che ho detto di schiacciare il dito su quel bottone che ha fatto esplodere mezzo mondo. L'errore è stato quello di credere che un giorno o l'altro, con tempo e pazienza, sarei riuscito a controllare il "momento creativo". Ed è sempre stato il contrario: era lui che controllava me. Sono quasi sempre stato un burattino, un corpo scelto a caso, un personaggio cosmico - storico come lo sono stati Napoleone o Alessandro Magno. Il guaio è che io non sono ambizioso, che non avevo vantaggi da trarre, ne ho anche meno adesso. È una visione un po' romantica delle cose, ma mi sento uno schifo e lo schifo deve andarsene. Non chiedo che questo.
Volevo bene, per la prima volta, ma allo stesso tempo avevo paura di coinvolgerli nel mio mondo, con le mie crisi distruttive di talento allo stato puro; potevo colpire tutto e tutti e loro erano fin troppo fragili bersagli, grossi centri per miliardi di pallottole metalliche di precisione millimetrica. Avevo crisi di getto, nel pieno della notte, nel pieno del giorno, anche se c'erano ospiti. Ricordo che mio padre adottivo aveva tentato di tenermi fermo e si è preso tanti di quei calci in faccia e sul corpo che non ha voluto vedermi per un paio di giorni. Erano terrorizzati da un corpo fatto di ossa, muscoli ma con un circuito nervoso aperto e follemente più grande di tutto il resto. E non sapevano come fare, non sapevano come prendermi, continuavano a ripetermi che ero io ad essere speciale e non sbagliato, erano loro che dovevano adattarsi a me, alle mie ore, alle mie crisi epilettiche, alla mia infermità, al mio dolore.
La più grande delusione me la diedero quando venni a sapere che avevano scelto di tenere uno come me perché il fratello di mia madre era affetto da trisomia 18 e loro non potevano avere figli; di conseguenza sapevano anche di che bisogno avessimo noi. La verità è che ci misi molto a mettermi in testa che non è che gli facessi pena, erano altri i motivi che li avevano spinti, forse anche un'impagabile vocazione al martirio. Fatto sta che non mi rimandarono indietro, e quelli furono gli anni in cui da quel punto di vista vissi tranquillo. Avevo una famiglia. Che arma a doppio taglio.
L'ho pagata tutta la mia felicità, pagata e con gli interessi di uno strozzino spietato. E l'hanno pagata anche loro, che non mi hanno mai rinfacciato niente, sono sempre state persone intelligenti e sensibili. Per questo ho sempre impedito loro l'accesso a gran parte della mia persona.
Ogni giorno che passa li vedo sempre più vecchi, pieni di dolori e con le ossa peste, gli occhi spenti e stanchi, follemente stanchi. Non sanno quanto lo sia io.
Tutto mi costa una fatica disumana, anche scrivere e mantenere l'attenzione dà luogo ad uno sforzo cerebrale immenso. Ci sono fiaccole che bruciano di più e si spengono prima, stelle più calde che esplodono più ferocemente e collassano e assorbono ogni minima forma di energia. Ecco, io sono un buco nero ed ho distrutto le uniche persone che amavo perché si sono trovate vicino a me, al mio campo magnetico distruttore e disintegratore di energia.
È un processo che non si può fermare, a cui nessuno ha dato il via, è partito da sé tanto tempo fa, mi sembrano millenni. Sono davvero una stella che sta per esplodere, gliel'ho spiegato e credo che abbiano capito o forse erano troppo stanchi per ribellarsi all'idea. Non hanno rimorsi, ho fatto in modo che non credessero che fosse colpa loro, in fondo sono solo stati una fase, un ennesimo processo, sarebbe successo comunque, ne sono convinto. E loro hanno capito.
Ci siamo detti addio.
Adesso sono qui nel mio appartamentino, mio già da un annetto. Ho preferito vivergli lontano, era giusto così. Vado avanti coi proventi di qualche racconto che ho pubblicato, tanto perché devo mangiare anche io, qualche volta. Naturalmente il nome è fittizio come lo è tutta la biografia.
Ho avuto un'emorragia pochi minuti fa, credo che ce ne sia una interna, è bello sapere che morirò naturalmente, perché finalmente il mio corpo cede, si piega su se stesso, proprio come una stella. Non troveranno pistole o lame, troveranno solo il mio cadavere, troveranno me, per la prima volta in trent'anni tranquillo, fermo, immobile e freddo. Stoico, in un certo senso.
Sono sempre stato un misantropo eppure vorrei chiamarvi tutti, perché sappiate tutto, perché vediate quello che osservo io ora: non luci in fondo ad un tunnel, nessuna corsa in un prato verde, nessun torrente di lattemiele e manna dal cielo. Solo dei colpi tranquilli, un'esplosione immensa e la polvere millenaria intorno a me, che mi passa attraverso. È una nebulosa, la mia, che si dissolve pian piano, fuoco d'artificio multicolore che si spegne sull'acqua di un mare calmo, salato. Freddo.
Vedo migliaia di occhi, i miei spettatori, ed io mi esibisco, il gran finale fulmineo che dura meno di un secondo ma indimenticabile.
Antitetico.
Ecco la parola giusta per me.

 Classifica Concorso Club poeti 2001-2002 sezione narrativa

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©2002 Il club degli autori, Ilaria Cavalletto
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ins.3 maggio 2002