Autori contemporanei
affermati, emergenti ed esordienti

Giulio Lupi

Con questo racconto ha vinto il primo premio del concorso Club Poeti 2001, sezione narrativa

 
 Il Francese
 
Lui era il Francese. Era il Francese perché aveva deciso di essere il Francese, l'aveva deciso lui, solo lui, nessun altro. Era pregnato di carica naturale di ribellione ed anarchismo così forte che soltanto lui poteva decidere il suo futuro. Dove si soffermavano i suoi pensieri, dove penetravano i suoi ragionamenti, tutto veniva azzerato e rimesso in discussione: le certezze divenivano dubbi, il sacro scadeva paurosamente nel profano, la lirica, anche la più sublime, sfociava impietosamente in una prosa rozza e scurrile.
Il Francese aveva una concezione del mondo, della realtà, degli uomini, completamente rovesciata rispetto ai comuni canoni. Lui sapeva leggere dove gli altri non trovavano niente di scritto, sapeva parlare a chi comunemente non ascoltava, sapeva vedere e descrivere quello che per gli altri era nullità e buio, sapeva udire musiche ancestrali e ritmi primordiali, cosa per tutti impossibile. La vita del Francese era una vita al rovescio. Io mi onoro e sono orgoglioso di essere stato suo amico. Ricordo sempre con nostalgia i nostri scambi verbali sospesi sul filo di un trapezista da circo.
Bastava un colpo d'occhio, una parola qualsiasi buttata là per caso, una qualsiasi persona che in quel momento si trovasse a passare, per librarci in pindarici discorsi ai confini del surreale; partire per viaggi senza meta, costruire con maligna complicità storie improvvisate apparentemente incomprensibili. Ero tra i pochi che riusciva a dialogare con il Francese, perché ero tra i pochi ad aver capito il suo linguaggio. Il suo, ai più, sembrava un idioma sconclusionato, un assemblaggio di gesti e parole strambo, privo di senso. Io invece avevo scoperto che il suo modo di parlare era una sorta di esperando del tutto personale. Ho sempre ritenuto quel linguaggio un colorito e creativo mosaico di parole che solo un'artista poteva produrre. Il Francese è stato l'ultimo grande poeta di 'campagna'.
Ovviamente per lui la vita non era facile. Aveva fatto, per diversi anni, l'artigiano in ditte diverse: esperienza allucinante e beffarda. Rimaneva puntualmente con quindici, venti mesi di stipendi arretrati, quindi la ditta sistematicamente falliva o chiudeva i battenti ed addio stipendi, indennità di fine rapporto, fatica e sudore. Il Francese non era un iperattivo, anzi, era piuttosto attratto dall'ozio, dalle attività più goderecce come l'amore per le donne, la buona cucina, il vino, che doveva essere più che buono, le passeggiate solitarie sui Monti Sibillini, la musica blues, i cavalli. Forse è anche per questo che ho avuto per lui simpatia ed affinità. Purtroppo le sue fortune con le donne non ebbero un esito tanto più felice di quelle avute con il lavoro. Una volta prese una grossa 'intruppata' per una ragazza matura, vogliosa e dagli attributi vistosi, ma, proprio quando il tutto funzionava alla grande, la donna scomparve.
C'è chi asserisce che dopo l'esperienza d'amore avuta con il Francese non si sia più ripresa e si sia ritirata in un convento per suore di clausura in un luogo ameno all'interno delle foreste casentinesi. I più maligni invece giurano di averla vista fuggire con un maschio marocchino che gli ha fatto fare cinque figli, si era convertita all'islam ed era diventata grassa come non mai. il Francese accusò il colpo. Per tre giorni e tre notti stette seduto sotto la quercia secolare (la più antica del villaggio), immobile, immerso in una contemplazione feroce. In testa, per ripararsi dal sole, dalla polvere diffusa dalle processionarie e dagli sguardi dei curiosi, aveva indossato un immenso sombrero coloratissimo. In quei tre giorni e tre notti non fu lasciato mai solo, furono anche fatte delle veglie notturne; qualcuno per ingannare il tempo improvvisò anche una piccola bisca ed una riffa, la preoccupazione era comunque notevole. In tutto il periodo alzò lo sguardo solo tre volte, quindi chinava di nuovo il capo sulle ginocchia, si riaccovacciava come un tacchino e scompariva sotto il sombrero. Ricordo ancora quegli sguardi.
L'avvenimento era preceduto da un suono strano, quasi l'abbaiare di un cucciolo di cane, quindi si poteva osservare la punta del sombrero che lentamente e senza ripensamenti, come un pene in erezione, disegnava nell'aria un arco di cerchio per fermarsi quando la testa era perfettamente in linea retta con la spina dorsale. Lo sguardo del Francese era come una lancia che ti trapassa il ventre. Fisso, profondo, imperscrutabile, custode di chissà quale mistero, austero e saggio come quello di un vecchio capo indiano non lasciava trasparire il minimo sentimento, la più fragile delle emozioni; era estatico, contemplativo, assorto, così illeggibile da incutere quasi timore. Quella volta il Francese mi impaurì veramente. Mai lo avevo sentito così lontano, pensai di aver perso anche una parte di me stesso. Ma lui era il Francese e dopo tre giorni si destò, come se nulla fosse accaduto. La sera dopo scolammo allegramente insieme ventiquattro delle centoventi bottiglie di birra danese che un suo fratello, emigrato giovanissimo a Copenaghen, gli aveva, intrapresa la notizia, solertemente inviato, via treno, a scopo terapeutico. Dopo quella sera, per circa otto anni, ci perdemmo di vista. Ci si ritrovò ad un concerto di musica blues di Andy J. Forest e fu una festa . Lo trovai cambiato.
Aveva i capelli cortissimi, sicuramente più corti della folta peluria che aveva invaso tutto il suo corpo; il suo viso era più espressivo del solito. Per me quello del Francese non è mai stato un volto, ma molto di più: una scultura, un'opera d'arte. I solchi profondi delle rughe, il viso allungato a dismisura, la fronte alta corrugata e spaziosa quanto un campo da tennis, le orecchie dai grandi lobi e dai grandi padiglioni, il naso che la faceva da protagonista al centro del volto, le labbra pronunciate.
Quello non era il volto di un uomo, era il volto della millenaria storia dell'uomo. Lì tutto era scritto e conservato. Capii, da vari atteggiamenti, che ormai il Francese viveva una vita del tutto figurata. Era divenuto più che mai 'imprendibile', libero e lontano come un'aquila. Lui spaziava ormai in orizzonti per noi troppo distanti, impossibili da esplorare.
Sovente lo si poteva vedere, mentre passeggiava, immerso in complicati discorsi e ragionamenti fatti a mezza voce. Era una sorta di litania, un misto di orazioni, antiche reminiscenze ed ipotetici, tragici, scenari futuri. Il Francese in quel periodo viveva molto di ricordi, esperienze passate vissute ed immaginate tanto da creare un intreccio fantastico e poetico. I suoi discorsi erano intercalati da sonore imprecazioni e bestemmie che però non avevano i toni della cattiveria e del rancore, bensì erano semplici parole che rafforzavano e colorivano i toni del suo eloquiare. Egli si poneva domande e si dava risposte. Qualcosa nella sua mente si era inceppato, arrancava, non riusciva a venir fuori. Una volta mentre cavalcava gli euforici e briosi effetti di un vinello rosso prodotto con metodi del tutto sinceri e naturali da un contadino della campagna di Amandola mi disse: "sento un orso mannaro dentro di me, un lupo che ha bisogno di scappare". Capii che la sua vita era ormai un indumento troppo stretto. Di lì a poco non disse più nulla o meglio le uniche parole che uscivano dalla sua bocca erano: LA LIBBERTA'. Lo ripeteva con una frequenza regolare come il gocciolio dell'acqua di un rubinetto che perde, poteva durare anche due ore. Questo poteva accadere in qualsiasi momento della giornata: alle cinque del mattino mentre fissava rapito le cime della catena dei Sibillini, alle undici di sera mentre passeggiava meditabondo nel buio, alle tre del mattino quando i suoi occhi prendevano di mira i cieli stellati delle serate agostane. A quel punto però non era più la sua vita a stargli stretta, ma era il mondo che lo aveva ingabbiato. Egli aveva scoperto LA LIBBERTA' ed ora tutto pesava come un macigno. Tutto era falso, effimero, beffardo, stupido. Vedeva gli altri uomini derubati della propria vita, incapaci di capirla, rassegnati, malinconicamente rinunciatari, in balia dei flutti di una marea apparentemente ingovernabile. Lui aveva compreso LA LIBBERTÀ. Ora soffriva come un cavallo, il suo tormento era quasi tortura, e, mentre tutto ciò aumentava di intensità di giorno in giorno il suo sguardo era sempre più rapito dalla Sibilla e dal cielo azzurro che le faceva da sfondo. Ormai da mattina a sera non faceva altro che ripetere: LA LIBBERTÀ. Scomparve il Francese. Alla sera però, se prima di addormentarmi, dopo aver tolto i vestiti, quelli veri e quelli falsi, mi rannicchio in rispettoso silenzio e ascolto il profondo del mio animo, lì incontro il Francese. Il Francese, con il suo viso scolpito, la sua carica di ribellione, il suo ammaliante richiamo di LIBBERTÀ. Ma non solo. Se nelle giornate di autunno, quando il vento si insinua intrigante e violento tra le Gole dell'Infernaccio, chiudo gli occhi e mi abbandono, da lassù posso udire un sibilo nitido, forte, che riecheggia sino al mare e che sembra ricostruire due parole: LA LIBBERTÀ
 

 Classifica Concorso Club poeti 2001 sezione narrativa

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ins.4 maggio 2001