Autori contemporanei
affermati, emergenti ed esordienti

Giovanni Donegà
Con questo racconto si è classificato ottavo ex equo al concorso Marguerite Yourcenar 2001 sez. narrativa
 
 
Il vero nome di Nathan Russell
 
Sean Dewberry aveva lasciato il molo 6 qualche ora prima. Aveva atteso la fine del temporale, e poi con la sua barca si era inoltrato in mare aperto. Come sempre. Andava a pescare spesso, soprattutto negli ultimi tempi. Lo trovava rilassante. E lui aveva bisogno di pace. Il suo viso di giovanotto annoiato si fece più teso quando depositò la canna sul fondo della piccola imbarcazione. I capelli neri erano ormai sempre più radi, si trattava del souvenir dell'ultimo angosciante mese. Aprì la borsa che aveva con sé e si infilò la muta da sub. Sedette e attese. Si guardò intorno. Estrasse il binocolo e scrutò il mare in ogni direzione. Nessuno. Era abbastanza distante dalla costa. Nessuna imbarcazione in vista. Prese la tanica di benzina e la rovesciò su scafo e motore. Poi Sean si accese l'ultima sigaretta. Ne diede un'unica lunga tirata, come per appropriarsi dell'essenza. Prima di tuffarsi in acqua la lasciò scivolare dalle sue dita nel piccolo scafo.
Le fiamme avvolsero la barca, come in un manto. Il fuoco non osò nemmeno sfiorarlo, come un novellino alle prime armi nei confronti di un veterano. Si allontanò mentre ancora i bagliori illuminavano il mare.
Pochi secondi dopo udì, come qualcosa di incredibilmente distante, l'esplosione del motore. Fu solo un'impressione.
Era a distanza di sicurezza, non chilometri più in là come la sua mente avrebbe voluto fargli credere. Ora mancavano meno di due ore dalla costa. Con pinne su mani e piedi era uno scherzo per un nuotatore come lui. Ripensò a quei giorni. Alle angosce. Alle paure.
Sì!
Aveva deciso per il meglio
Nuotò con vigore, finché il buio si sostituì alla luce nell'eterna maratona verso l'infinito. A poco a poco. Sulle spalle un piccolo zainetto chiuso ermeticamente. Dentro dei soldi, dei vestiti, una forbice e il suo rasoio.
Finalmente scorse la costa. Ora poteva dirlo. Sean era morto, al suo posto approdava alla riva Nathan Russell. Salì sulle rocce, che davano sul mare, con un vigore ritrovato, come se fosse stato davvero un'altra persona. Ormai era vicino alla sua via d'uscita. Si distrasse un attimo, quel tanto che gli costò una piccola ferita al piede su una roccia appuntita. Non sentì nulla. Continuò ad avanzare finché giunse sul ciglio della strada. C'era già stato una settimana prima. Non era molto trafficata, così poté liberarsi della muta e indossare vestiti asciutti. Poi Nathan s'incamminò verso est. La direzione opposta rispetto a quella da cui proveniva. Camminò per un paio di miglia, aveva raggiunto la sua prima meta: un motel. Non era un granché, ma già lo sapeva, era per questo che faceva al caso suo. Pagò in anticipo il trasandato gestore, non prima di averlo etichettato come assiduo lettore di riviste pornografiche. Entrò in camera e rifletté sul valore economico di 20 dollari. Quantomeno era pulita. Prese la forbice ed andò dinanzi allo specchio nel bagno, e cominciò ad accorciarsi i capelli con la forbice. Poi iniziò a rasarsi il cranio. Ripensò a Geena, adorava i suoi capelli. Tagliò tutto.
Poi si stese sul letto e cominciò a capire cosa volesse significare quel giorno per lui. Ripensò al suo passato, e perso nelle sue fantasie, come in un labirinto, cadde in uno strano stato di dormiveglia.
L'arredamento intorno a lui era scarno. Il letto molle, un comodino recuperato da un rigattiere della zona e un'abat-jour che non c'entrava nulla. Dimenticare casa sua sarebbe stato impossibile.
Sean Dewberry era morto in mare. Niente di meglio per un amante della pesca. Nathan odiava la pesca. Ripensò alla minuziosa preparazione del suo piano. "Scomparire è possibile", aveva pensato. Aveva abbandonato dubbi e certezze. Per ricominciare. Ora dormiva, e non pensava agli interminabili momenti trascorsi piangendo. Senza trovare una soluzione. Una scappatoia. Aveva trascurato il suo lavoro da meccanico. Era diventato spigoloso e tagliente. Aveva perso il vizio dell'allegria. La sera si ubriacava. Con Geena, anziché allearsi contro il nemico comune, aveva iniziato una personale "guerra civile tra disperati". La settimana antecedente alla sua decisione fu un inferno. Sempre lo stesso dannato pensiero a marchiargli la mente, come fosse stato un capo di bestiame. Poi, dopo aver progettato la fuga, tutto era tornato come prima. Quando si è trovata una via d'uscita, tutto diventa sopportabile, qualsiasi cosa. E Sean stava già scalando il muro di cinta della sua personalissima prigione.
Parlare con Geena non serviva, anzi forse era peggio, anche se si trovavano entrambi, sulla stessa proverbiale barca, erano soli. Anche Geena lo sentiva, ma il defunto Sean Dewberry ne era ossessionato.
Tutto ha un inizio ed una fine, aveva sentito dire a qualche guru. Già, solo che i suoi, se li era scelti. Nathan si svegliò al mattino presto e se ne andò a piedi. Si sforzava di mettere più miglia possibili tra sé e Geena. Tra sé e il problema. Arrivato alla stazione degli autobus ne prese uno di quelli che attraversano gli stati. Comprò un capellino degli "Yankees". Ma non funzionava. Più Nathan si allontanava, e più i pensieri lo riportavano a casa. Aggiungeva un miglio e bussava alla porta un ricordo, come nel trucco delle spade infilzate sulla cassa.
Nessun miglio in più uccideva la fidata assistente del mago. Nessuna spada in più affondava nei suoi pensieri. Ripercorse istante per istante l'ultimo mese. E la macchina del tempo si fermò a quel 13 maggio. Geena gli aveva detto semplicemente: "Ho un ritardo...".
Sean era abituato ai suoi ritardi, una volta avevano atteso due settimane nella più totale angoscia. Poi tutto si era risolto per il meglio. Sean, più volte, aveva pensato al test.
Ma finiva sempre per scartare l'idea. Si immaginava il suo bel volto da ventenne nel negozio della signora Trinkemann, la farmacista. Il rossore sulle guance e lo sguardo beffardo di lei, a rimproverarlo. Tanto più che sarebbe stato decisamente meglio non sapere. Come se si fosse potuto rimandare in eterno il momento della responsabilità. Come se qualche giorno in più avesse potuto portare con sé miracolosi benefici. E non un ulteriore carico d'angoscia.
"No...", si era detto "... e se fosse incinta... te lo immagini...". In quel mese non accadde nulla. Si riproposero, solo, di non farlo più con il preservativo. Geena promise di prendere la pillola. Probabilmente, non si erano resi conto che ormai era troppo tardi.
Il sole lo infastidì non poco, e calò ancor di più il frontino sulla testa. Era diretto ad Atlanta, da lì, con i documenti falsi che si era procurato tramite un sito Internet, avrebbe spiccato il volo. Letteralmente.
In quel momento il suo unico rimpianto era non poter assistere al suo funerale. Lo aveva sempre desiderato, per scoprire quanto gli volevano bene, o quanto lo odiavano.
Insomma sarebbe stata la prova suprema della altrui sincerità. Si immaginò arrampicato su un albero. Nascosto tra le fronde, un centinaio di metri più distante, con il suo potente cannocchiale intento a scrutare. I visi. Le lacrime. Gli occhi. Alla ricerca dei sentimenti serbati nel cuore di Geena, di sua madre, di suo padre. Di Tango, il suo migliore amico. Di tutti. Perfino di Lalas, il cane, così chiamato in onore del suo calciatore e cantante preferito.
Nel frattempo l'autobus si era fermato ad una stazione di servizio. Nathan scese e si fece consegnare la chiave del bagno. Poi comprò un giornale locale e un paio di sandwich. Ormai era da parecchie ore che aveva lasciato la stazione di Port Saint Joe e Atlanta si rendeva sempre più desiderabile.
Sedutosi nuovamente sul sedile ben imbottito, prese in mano il quotidiano e lo lesse avidamente. Non trovò nulla. Nemmeno un trafiletto su un pescatore saltato in aria con la sua barchetta. Nathan giurò a se stesso che non avrebbe più comprato la "Greenville Gazette".
"Che razza di nome...", disse ridacchiando, ma non si lasciò trasportare oltre, dalla collera.
Ne approfittò allora per tornare sul luogo del delitto e rappresentarsi cosa realmente avesse spaventato Sean.
Probabilmente il giudizio della gente: non abitava in una grande città. Anzi, in realtà si trattava di un paese del più profondo sud. Nella parte degli Stati, in cui la Florida confina con Alabama e Mississipi. Gli stati del Ku Klux Klan. Gli stati più puritani d'America, forse del mondo.
Con lo sguardo, all'interno del bus, cercò un personaggio "da Sud". Ne identificò subito una, seduta accanto all'autista. Stava pontificando con il suo atteggiamento di onniscienza, su "... i giovani d'oggi... sa, sono fatti così...", aveva lo sguardo severo, e la sua eleganza appariva un po' antica, come se avesse comprato i suoi abiti presso un negozio di costumi teatrali.
Questo tipo di persone erano e sarebbero state la rovina di Sean. Nathan, già se lo immaginava. Sarebbe bastata una gomitata e due amiche di vecchia data si sarebbero scambiate una frase del tipo:
"... guarda, quello è il figlio di Louise e Ted, ha messo incinta Geena Dixon...".
E l'altra: "Nooo... ma dai...", e via con le danze...
Sean non avrebbe resistito agli sguardi complici, ai sorrisetti ironici e malvagi. All'ipocrisia della gente. Nathan ripensò con piacere alla coppia che insieme alle partecipazioni di matrimonio, aveva inviato anche il nome del loro futuro primogenito.
"Ben fatto!".
Chissà quante volte Geena e Sean sarebbero divenuti l'oggetto delle discussioni altrui. Quante volte il tema del giorno, o la portata principale del menù del ristorante del pettegolezzo. Tutto questo ossessionava Sean. Questa era la mano che lo aveva spinto tra le braccia della morte.
Ad ogni fermata, Nathan scendeva e comprava un giornale, sul quale cercava notizie di Sean. Le prime volte con curiosità. Poi con ardore, ed infine con indignazione. Sfogliava il giornale con rabbia, lo leggeva in ogni sua parte. E la sua attenzione si moltiplicava quando il suo sguardo incrociava i necrologi. Ogni volta sempre con maggiore attesa e trepidazione. Ed ogni volta una cocente delusione era pronta ad attenderlo al varco dell'editoria quotidiana made in Usa.
Continuò così per ore che sembrarono minuti, e per minuti che sembrarono secondi. Il trascorrere del tempo infatti sfiorava l'irreale, come se la sabbia scorresse in una vecchia e stanca clessidra, che chiede solo la meritata pensione.
Atlanta sembrò verosimilmente più vicina che mai. Nathan sapeva che quella città sarebbe stata, per lui, la fine e l'inizio.
Scese dall'autobus con l'entusiasmo di un bambino in gita con la scuola. Poi si fece suggerire dal simpatico edicolante un albergo pulito, ma non troppo costoso. Ricompensò il venditore con l'acquisto dell'ennesimo giornale.
Poi si diresse a piedi verso la direzione indicatagli. Non badò troppo alle auto che infastidivano, con i loro rumori molesti, i passanti come lui. Non ebbe cura di tutte le altre cose che gli accadevano intorno. Era leggero, e camminava venti centimetri più alto da terra. Fu un rischio, perché la gradinata dell'albergo per poco non si pose d'inciampo.
Salì in camera e si buttò sul letto. A volo d'angelo. Come il neonato Nathan Russel non aveva mai fatto.
Fece una doccia e si cambiò. Poi uscì di nuovo. Mangiò un hot-dog, con tanto ketchup, proprio come piaceva a lui.
Dopo pranzo cominciò il suo peregrinare da un'edicola all'altra. Ad ognuna comprò un quotidiano diverso, nella disperata rincorsa a Sean Dewberry, il defunto Sean Dewberry. Evitò di comprare ventiquattro quotidiani presso un unico negoziante. Avrebbe provocato sospetti. Completò il giro solo verso le cinque del pomeriggio, o almeno così gli parve. Non che avesse molta importanza, in realtà.
Comunque si ritirò nella sua stanza e prima di ricominciare la sua affannosa ricerca, accese il televisore. Ma nessuno sembrava sapere di un pescatore morto in mare al largo di Port Sulphure. Allora riprese la sua impresa titanica. Lesse il primo. Poi il secondo. Il terzo. Ma solo dal settimo cominciò a innervosirsi. "Possibile che nessuno sappia nulla di Sean...". Inviperito continuò lo spoglio. Il decimo fu accartocciato e gettato contro il vetro della finestra. Undicesimo e dodicesimo scomparvero in mille strisce filanti pronte per Halloween.
"Nessuno sa...".
"Nessuno lo sa!". Dapprima era un'invocazione, poi una terribile paura. Ma non si fermava. E il suo ritmo ora era forsennato. La televisione annunciava l'ennesimo notiziario a volume iperbolico. Non gettò la spugna e ne lesse un altro. E poi un altro. E ancora. Ma più si avvicinava all'ultimo che aveva comprato e più lo assaliva una sensazione di disperazione e panico.
Era indiavolato. Leggeva e rileggeva, magari più volte le stesse frasi, gli stessi articoli con maniacale precisione volta a non tralasciare nulla. Volta alla perfezione. Eppure non c'era nulla. Nulla. Si appigliò all'ultimo, con le residue speranze, come un naufrago in attesa di una nave di passaggio. Con la consapevolezza che sarà l'ultima chance.
Probabilmente l'unica.
Eppure non c'era nulla. Giunse ai necrologi, e non vide nulla: nessuna famiglia Dewberry. Nessuna Geena Dixon e famiglia.
Nulla. Dapprima quest'idea si fece silenziosamente largo nella sua mente. Fino a diventare così implacabile che poteva essere urlata.
"Nulla!".
"Nulla!".
"Nulla!".
"Nulla!".
Sean cadde dal letto, urlando come un ossesso "Nulla!".
Sbatté la testa sul comodino. E la luce che filtrava dalla tapparella lo colpì con un montante da ko. Cercò di riaddormentarsi e anche se con fatica vi riuscì. D'altronde era normale fare brutti sogni.
La mattina seguente si vestì ed andò a casa di Geena. Era il giorno in cui avevano deciso di dirlo ai suoi genitori.

 

Classifica Concorso Marguerite Yourcenar 2001 sezione narrativa
 
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inserito il 3 novembre 2001