Autori contemporanei
affermati, emergenti ed esordienti

Gaia Brugnolo
Con questo racconto ha vinto il nono premio al concorso
Marguerite Yourcenar 2005, sezione narrativa

«Elena»


Sola sulle mura buie di Troia sta Elena dai bei sandali, ed il vento che scorre le fluisce nei capelli e dà loro la forma di un'onda. «Diranno perfino, negli anni a venire, che non salii mai sulle nere navi, e che mai giunsi agli spalti della tua città lontana... come se questo potesse cambiare il corso di ciò che è stato, o restituire intatto l'onore che a mio marito preme di possedere tra gli uomini. Così dovrei forse scordare ogni cosa io stessa, poiché - è lecito chiederselo - cosa si costruisce sul ricordo di parole e gesti irreparabilmente perduti? Cosa si costruisce se non fragilità e tronconi d'illusione, e speranze monche e spezzate? Potrei dimenticare... se mai volessi e potessi farlo, e certo con la medesima facilità allora anche dilaniarmi le viscere, strappare la mia pelle in lenti brani, affondare le mani nel cervello, immergere le braccia nel mio sangue: farei ben chiaro e verrei a capo di tutto, seguendo i miei tendini come Teseo il filo di Arianna.
Come una mela rosa dimenticata dai coglitori mi sentivo, nel traboccare del mio spirito, quando nelle giornate più tetre, dietro le mura del chiuso palazzo, mi ripetevo che è meglio essere una sorgente ormai secca piuttosto che un pozzo d'acqua bella e profonda, a cui mai nessuno attinge. Poi arrivasti tu, lo straniero dagli occhi verdi che passa per andarsene.
Con una rosa tra i chiari capelli ti aspettavo, e la chioma ombrava le mie spalle e le bianche braccia. Così ti aspettavo nell'ombra screziata del tempio, l'ampia peristasi dove alle colonne intrecciavamo i nostri passi, attese colme di parole trascorse e pomeriggi luminosi, lasciando che i nostri torpori impigrissero al sole come lucertole, e formicolassero caldi tra languidi pensieri.
Restavo sgomenta quando mi comparivi innanzi, come la luce del giorno irrompe dagli scuri spalancati: nel silenzio, il sussultare del mio cuore, il rombo delle orecchie, il tremare delle membra e del mio animo soprattutto, ed io sbigottita e scossa come lo è un'erba dal vento. Così la logica - e le mie ferme intenzioni con essa - si sfarinava al tuo apparire, per me che trascorrevo le ore della tua assenza a formulare tutte le obiezioni che il buon senso poteva muoverti: tutte le confutava e le scioglieva la sola luce dei tuoi occhi, un solo sguardo obliquo dei tuoi occhi allora troppo riempiti di luce, e tristemente opachi ora.
Ricordi il mattino in cui ti ho visto, sapendo che era l'ultimo? Ero così vicina a te, così sul tuo petto da sentirti il cuore e quasi l'anima: dovevo supplicarti con gli occhi probabilmente. Che altro potevo se non venirmene via con te, partendo di nascosto da tutti? Nella scia chiarolucente della luna ogni cosa spariva, di quelle che avevo lasciato alle spalle, ogni cosa parevano cancellare i gorghi del mare di viola. Quando mi svegliai presso di te, aprendo gli occhi vidi le tue mani belle e forti, e c'erano silenzio e sole intorno, e una luce dolce che pioveva dall'alto nell'Oriente sempre più prossimo. E ora? Potrei aspettare che questa luna gelida tramonti, che si plachi il vento e che si allenti infine la morsa al mio cervello; potrei aspettare un conforto che non arriva, tutto quello che non inizia; potrei non curarmi più di nulla: non mi importerebbe più nulla di nulla...
Non si sfaldava, infatti, il tuo accorto pensiero: ne erano prova parole in ogni momento meditate e stringenti, inesorabili, cui non potevo opporre alcun ragionamento. A cosa valsero i miei tentativi di persuasione? Tu non soggiacesti mai alla passione che scuote membra ed intelletto in un unico turbine, ma ti piegasti solo a quel fremito che pare talora scioglierci le ginocchia. Andavi e venivi come la pioggia, lasciandomi sola e inerme e sconfortata: sei stato ambiguo e disarmante, tenero e brutale, sei stato leale e contorto: non posso neppure rinfacciarti di avermi ingannata, e consolarmi così con vani rancori.
Io ti cercavo e ti aspettavo, sono stata ostinata e infelice, ho avuto il sole negli occhi e poi più nulla. Dovrai ora svanire dolcemente? Forse sei anche tu della materia di cui sono fatti i sogni, e il calore del giorno è troppo forte: come un ricordo evaporerai?
Miei sono i tuoi capelli, rigoglio di spighe dense fra le dita; mio il sentirmi presa e vinta nella gabbia delle tue braccia, con le tue mani sui miei polsi arrendevoli; mio il senso della tua presenza ritmica dentro di me, nell'affannarsi del respiro; mio lo sguardo spezzato, il buio e la luce, e lo stupore; mio il profumo ruvido che lasciavi sulle mie membra rabbrividenti, e che rimaneva quando te ne andavi; mia la perdita ora, mia l'assenza e mio il divampare violento del desiderio e del ricordo.
Tuo il piede morbido e il dondolio dei fianchi nel tenero ondulare del passo; tuoi il nido delle labbra, la conca alla base del collo, l'onda del dorso ed il golfo tra i seni dove hai posato la testa, dove ti sei fermato, per un istante solo; tuo il rosa delicato del mio orecchio, la fragile conchiglia che hai morso veloce ed aspro, ed ubriaco per l'odore di capelli; tuo l'ombelico, su cui si sono posate un attimo le tue labbra, nell'errare della bocca; tuo il calore del ventre, che hai percepito - la testa nelle mie cosce - risalire fino alla sommità bronzea dei seni; tuo il rapido fluire del sangue intravisto nella trasparenza della pelle.
Cosa mi resterà di te, quando anche il sapore dolce della tua saliva l'avrò scordato? E cosa rimarrà di me nella tua testa, vorrei poterlo dire, dato che non di amore si trattava, nemmeno di questo si trattò mai. Quanto credi possa giovarmi ora il contrapporre all'asciuttezza della tua astrazione il mio sapere che nasce dalle cose, che si nutre di carne e sangue, e di dolore perfino? Ciò che di calcolato era nei tuoi abbandoni, lo so ora. Me lo chiedo ora, e solo questa voce è rimasta ad echeggiare in me come un rivolo d'acqua sul marmo.
Ed io? Quali calcoli feci mai io, che ho soppesato anche le tue parole non dette e i tuoi pensieri confusi, oltre ai miei? Mi si accuserà che per un capriccio leggero abbandonai - cose sacre per una donna - la casa e il - marito, mentre mormoreranno appena della tua fatuità e della debolezza: potevi forse non cedere alla mia lusinga? Questo ameranno dirsi, per sentirsi rassicurati, e certo così verrò fraintesa, terribilmente: è il cuore oscuro e selvatico della donna, che dà la vita e la morte, che risana e divora. Così espierò il mio destino, e la paura che suscitai nel tuo animo vigliacco, una volta esauritosi l'ardore della passione effimera.
Nulla, in me che ti scelsi, vi fu di effimero e di leggero: fu questo che ti spaventò così a fondo e che ora osi rimproverarmi? La mia colpa sta dunque nel non aver mai mentito a me stessa e nell'aver creduto che un giorno ci verrà chiesto conto dell'amore sprecato, nell'essermi data alla vita che premeva, non addomesticabile, e a te, per il bene che intuii nel tuo animo... ma non abbastanza bene c'era forse nel tuo animo, non abbastanza amore evidentemente da vincere le tue fondate obiezioni. L'esondare dei sentimenti... troppo lo hanno soffocato le tue troppe parole: null'altro rimane che la loro eco nel mio animo desolato. Io invece non ho quasi più parole con cui riempire la scatola vuota dei giorni, e niente sento in me se non nostalgia delle cose che furono e malinconia per quelle che potevano essere, poiché tutte queste cose non risultano, alla magra resa dei conti, che mere impossibilità: questo ho scoperto una volta ancora, alla resa di tutti i conti. Io ti ho offerto il mio amore. Tu non lo vuoi, lo so. Io lo so che non lo vuoi, amaramente lo so, e pure non so impedirmi il resto. Per questo sono ora nel deserto di ogni consolazione, scabra come una rupe e trascinata dall'amore e dall'odio contemporaneamente, nel vederti lontano adesso quanto prima mi fosti vicino, e sorridente: il tuo pensiero è già altrove, già altro richiama la tua incostante attenzione... a me spettano una volta di più spaesamento ed abbandono. Vorrei quasi che il mio cuore fosse di bronzo, per non sentirlo così straziato: quanto fu malleabile ed indifeso alla felicità allora, tanto lo è ora al dolore... ma è stato un rischio che scelsi di correre, poiché non c'è dolore pari ad uno solo degli istanti di felicità che ho vissuto, nonostante tutto. Tu sei così tiepido ed incerto nei tuoi sentimenti, mai né freddo né caldo: nulla è stato abbastanza da costringerti infine al rendiconto dei tuoi gesti. Per il pensiero di avermi fatto più male del preventivato - per un rammarico che tardivamente ti punse, blanda risposta alla mia lunga pena - mi hai domandato perdono, il pomeriggio in cui mi hai trovato in lacrime sopra le mie povere cose (il telaio, i monili e le vesti, i ricordi di te e di me prima della guerra e di questa città straniera ed ostile)? Con il tuo tepore spegni il mio sentire impetuoso, rendi vano ogni mio sforzo e sprecata ogni cosa in me... collera, vendetta, amore, gelosia feroce: tutto sbatte contro la tua imperturbata insignificanza, la debole profondità a cui vuoi spingerti di te stesso, la stessa che ti mette al riparo dalle sofferenze che mi divorano il cuore. Mi dai la nausea: mai scalfibile ad ogni mio malessere ed ogni mia pretesa, la tua pretesa era ed è quella di tessere una ragnatela perfetta di ipocrisia in cui avvolgerci? Mi chiedi ciò che io non posso chiedere a me stessa, né darti. Eppure in tutto questo, nella nausea, nel rombo estenuante delle tue giustificazioni inconfutabili e nell'astio vendicativo che mi afferra, sono schiacciata dal peso della tua assenza: è l'erompere primitivo di sentimenti dissonanti a lasciarmi prosciugata, poiché non so venirne a capo e mi dibatto invano nel loro viluppo, senza più respiro. Tu così disincantato e distratto, com'è tuo destino di passare sulla terra: distrattamente hai ucciso Achille feroce, solo ieri, e con indifferenza hai udito le lodi dei Troiani, del cui risentimento e della cui invidia - quando mi vedevano passare fiera per l'erta via che conduce alla reggia, me che portai loro la rovina in dote - parevi vagamente bearti. Neppure rivalsa ed orgoglio hai provato, neppure questo, come se nulla potesse renderti qualcosa che hai perduto un tempo, e mai più trovato. Io non riesco a lenire le tue angosce che non vanno via, né farmi strada fra le paure del tuo cuore imperscrutabile. Hai scelto di vivere in una quieta mediocrità, impenetrabile a tutto ed a tutti impermeabile, mentre me ogni cosa scuote e consuma fino all'osso, che sia felicità o dolore. E pure faticando a giustificarti, non so che comprenderti. Una sera, infatti, quando il buio ormai sceso poteva ben nasconderti il viso, mi raccontasti della tua vita, con poche parole pronunciate a bassa voce e quasi a precipizio, e fu come se cose a lungo e con sofferenza covate nel tuo animo venissero infine alla luce. Né io le ho mai dimenticate: ne ho anzi fatto tesoro e le conservo in un angolo sigillato della mia memoria, così come ogni cosa che ti riguarda, poiché tutto di te mi è prezioso. Mi dicesti di come tuo padre e tua madre e i tuoi fratelli, ignorando i tremendi vincoli di sangue, ti cacciarono per la profezia che ti voleva funesto alla tua stessa città.
Fu questo il tradimento deliberato e terribile che colpì il più sacro dei legami, ciò che di più sacro vi è tra gli uomini: così vennero estirpati alla radice il senso e la possibilità stessa di amare ed essere amato. Ciò che da allora concedi di te non va più in profondità di un'incisione nell'oro o nell'argento; ciò che prendi dagli altri - da me... - è solo quello che puoi permetterti di perdere senza dolore. Con attenzione e con calcolo misuri quanto dare e cosa averne in cambio, mentre io in nulla sono oculata, e scialacquo imprevidentemente ogni cosa: ho fiducia che non per questo mi ritroverò impoverita. Tu non accetti di mettere la tua felicità in mani diverse dalle tue, perché hai paura di ciò che non ti è direttamente soggetto: ma in questo modo quale altra stella ti spetta, che non sia la tua anima? Quello che vorrei è poterti restituire ciò che pensi di aver perso... questo avrei voluto tu mi consentissi. Vorrei sentirti felice in ogni fibra del tuo essere, e volevo che aprissi il tuo cuore al mio desiderio di renderti tale. Ma tu non hai voluto credere che delle mie mani avrei fatto una culla per la tua felicità, così che essa potesse essere finalmente al sicuro. Eppure che ragioni offrivo alla paura che avevi di me? Ora è passato anche il tempo dei rimorsi postumi: così si sono esaurite tutte le possibilità, così venne sprecata scioccamente la nostra possibilità di essere felici. Io non posso più aspettarti trepidante nell'ombra del tempio: altro per noi stabilì il Fato. Arriverà presto il giorno feroce e sfolgorante in cui la città sarà presa: me ne andrò intorno, assorta, nello sbattere snervante delle porte... quale degli eroi argivi mi salverà, portandomi in trionfo sulla nave come una polena? Non opporrò resistenza: tornerò alla casa che fu mia, al marito che mi diedero, alla vita che mi toccò in sorte, e farò mostra di un esemplare pentimento. Lascerò che dicano quel che più aggrada loro, darò quello che mi si chiederà, sarò ciò che vorranno io sia, non pretenderò più di poter scegliere una vita che sia mia soltanto.
Mi accomiato ora da luoghi e giorni che non possedetti mai, dal cuore di chi non fu mai mio. Su queste pietre che saranno rotte ti lascio quello che volevo darti un tempo, e che tu non accettasti, poiché ti bastò ciò che di me riuscisti a prendere: presto sarò presso la prua della nave che va ad Occidente, né mai più tornerò indietro».

Gaia Brugnolo


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