Autori contemporanei
affermati, emergenti ed esordienti

Gabriele Leone
Con questo racconto ha vinto il sesto premio all'edizione 2006 del Premio La Montagna Valle Spluga.



CREPUSCOLO


L'Eremita staccò le mani grinzose che teneva congiunte e smise l'impercettibile movimento delle labbra con cui accompagnava la preghiera. Alzò il capo verso l'entrata della grotta da cui era giunto il rumore, il quale aveva interrotto il silenzio, che riempiva l'intera vallata, ancora illuminata dalla luce del tramonto proveniente da dietro le spoglie pareti rocciose della montagna innanzi all'eremo. Il vecchio frate vide allora un giovane che si appoggiava alla roccia e lo guardava, tenendo accanto a sé un fucile: era poco più di un ragazzo, ma il volto arso dal sole e stracciato dai graffi dei rovi, il corpo spossato coperto di poveri vestiti madidi di sudore e sangue, parevano sopportare il peso dell'eternità. L'Eremita non aveva ancora distinto se egli fosse un essere reale o creato dalla sua mente ingannata dalla solitudine, che il giovane crollò a terra. Il vecchio si alzò e corse verso il ferito che non emetteva un gemito, stava con gli occhi spalancati, velati di lacrime e fissava la montagna davanti a sé, quasi che volesse in quell'attimo abbracciarne con lo sguardo tutta la maestosità degli imponenti strapiombi come mura titaniche, la bellezza dei folti boschi uniformi, la delicatezza dei bianchi villaggi dei pastori posti in lontananza sui fianchi azzurri intorno ai campanili a punta, da cui riecheggiavano i rintocchi del vespro. L'Eremita baciò il tao di legno che portava al collo e si chinò sul giovane: il respiro affannoso indicava che non era morto, ma aveva un fianco lacerato dal fuoco e dal piombo di una fucilata, e doveva aver camminato molto perché il sangue gli ricopriva l'intero corpo. "Confessami" disse senza staccare lo sguardo dai crinali cerulei "Confessami perché non voglio morire come sono vissuto, come una pecora dispersa dal gregge che in quei boschi viene braccata e sgozzata dai lupi." Il frate avrebbe voluto dire che da anni egli non poteva più confessare, che era scappato dal mondo intero rifugiandosi lassù anche per questo, ma capì che il giovane non poteva sentirlo: era la sua anima a parlare, e con lo sguardo perso su quelle rocce solitarie non vedeva altro che l'immensità della montagna e la sua pace. "Sono un diavolo. Da bambino sentivo raccontare dai vecchi delle storie: dicevano di aver visto i diavoli per le strade solitarie, nottetempo, per carpire le anime dei dannati. Non era vero, i diavoli sono solo uomini come me: io lo sono diventato perché ho tolto la vita a degli innocenti come se fossero degli animali. E mentre lo facevo non vedevo più nulla, se non quel rosso intenso, tanta era la rabbia che mi accecava. I molti anni passati non avevano cancellato l'odio e la rabbia. Ho versato altro sangue perché avevo visto scorrere quello di mio padre. Perciò ho ucciso: per lavare con il sangue dell'assassino il suo sangue che, da allora, ho rivisto tutte le notti, sia che dormissi nel meriggio sotto la calura estiva, che infuoca le rocce ed inaridisce i pascoli, sia che mi rannicchiassi innanzi al fuoco nelle lunghe notti dell'inverno quando la montagna si ricopre di neve ed il silenzio avvolge ogni cosa. Ma nemmeno uccidere è servito a dimenticare. Anche adesso rivedo mio padre davanti a me. Lo vedo mentre lo conducono per le strade del paese, ammanettato, coperto di sputi, circondato dai soldati, ferito ed insultato dalla stessa folla che pochi giorni prima lo aveva aiutato ad assaltare i palazzi dei galantuomini. Nessuno lo seguiva più ora, adesso che il Conte era tornato con i soldati. Nessuno più lo seguiva se non io, chiamandolo ogni volta che qualcuno prendeva a sassate anche me, lui allora si voltava e mi urlava di andare via. Ma io non lo feci: lo accompagnai fino alla piazza, che si apre sotto a quel campanile, che da qui pare solo un ciottolo più grosso degli altri, laggiù sul fianco a mezzogiorno della montagna. Accanto a quel campanile c'è il palazzo del Conte, ed egli stava sul suo balcone con un ragazzino biondo in braccio, al quale indicava le ali di pietra della grande statua di San Michele Arcangelo, che si innalza al centro della piazza. Proprio su una di quelle ali un soldato legò la corda a cui impiccarono mio padre. Ho due ricordi precisi di quel momento: la bellezza di questa montagna vista da laggiù ed il volto sofferente di un Lucifero di pietra. Quando vidi scalciare i suoi piedi nel vuoto corsi verso di lui ed allora un soldato mi tirò un calcio nello stomaco: prima di crollare a terra, alzai lo sguardo proprio verso la montagna illuminata come adesso dalla luce del tramonto che rende nette e distinte tutte le chiome degli alberi dei boschi, e pensai "Su quelle cime, in quella pace, tutto questo male non esiste." E mentre ero a terra, immobilizzato dal dolore, ai piedi della statua dell'Arcangelo, guardavo il viso di Lucifero innanzi a me: per sfuggirti devo andare via, mi dicevo, lontano da questa gente e da questo odio. Quella stessa notte partii dal mio paese e non vi sono più tornato. Da allora sono trascorsi tanti inverni tutti uguali, quando solo i lupi si aggirano lungo le pendici e tra i boschi e si deve dormire con il fucile in mano per difendere le greggi perché la fame non li fa temere nulla, e tanti estati sono passate: allora le piante ed i pascoli germogliano di nuovo, e la sofferenza della stagione fredda si dimentica presto, perché la bellezza è tale che ci si chiede come non si può credere a Dio davanti allo splendore di siffatti colori che, con il profumo del fieno appena falciato, il tepore del vento che spira leggero da meridione, ed il canto ininterrotto degli uccelli che salutano l'alba di un nuovo giorno, riempiono l'anima di una gioia immensa. E quella pace che cercavo l'avevo trovata. Mi bastava aver spinto le pecore su uno dei pascoli più remoti e solitari, e lasciare che brucassero placidamente, per stendermi poi all'ombra di una di quelle querce antiche quanto la stessa montagna, a guadare il cielo, senza una nuvola, immenso quanto il mare, che si vede da quassù, perchè in quel momento in me la rabbia e l'odio svanissero come la neve che al calore del sole della primavera lascia il posto all'erba. Avevo creduto che, come una malattia, quel mio dolore la montagna l'avesse sanato. Due settimane fa ho scoperto che non era così. Non s'udiva nulla se non lo strofinio del panno di cotone con cui lucidavo le canne di questa doppietta, un suono ritmico che riecheggiava per una stretta valle che si apre lontano da ogni sentiero, quando il vento, cambiando direzione, mi fece percepire un chiacchiericcio, proveniente da oltre un folto gruppo di olmi, dietro ai quali sapevo che si apriva una larga distesa dall'erba bassa e soffice. Per non lasciare che si logorasse a terra, mi caricai il fucile in spalla, e mi arrampicai su delle rocce bianche e taglianti, fino a quando non vidi oltre la boscaglia, senza essere scorto. Erano tre uomini elegantemente vestiti: due anziani, che fumavano la pipa mentre discorrevano, ed un giovane biondo. Con loro vi erano anche due donne, una bella ragazza dalla carnagione candida, che teneva per mano il giovane, ed una serva che disponeva e serviva le pietanze sulla tovaglia stesa sul prato. Incuriosito scivolai lentamente giù dalle rocce e mi incamminai in silenzio tra i tronchi fino a quando non distinsi chiaramente le loro parole. Erano felici: si parlava di un fidanzamento, del giovane biondo con la ragazza dalla pelle candida, e di un nuovo Re che era giunto, presso la cui Corte era conosciuto uno dei due uomini anziani, padre della bella ragazza. Proprio l'uomo conosciuto a Corte si rivolse all'altro vecchio che fumava con lui la pipa chiamandolo con quel nome che tutti al paese conoscevamo anche se nessuno di noi miserabili lo usava, per noi lui era solo il Conte. Allora tutto davanti ai miei occhi cambiò. Erano giunti fin lassù per stapparmi anche la pace e la tranquillità della mia montagna, dopo che mi avevano preso tutto con la vita di mio padre: loro ridevano colmi di allegria, mentre io era stato costretto a fuggire dal mondo intero per placare la mia sofferenza. Non li era bastato ricacciarmi tra questi boschi, rendermi senza una famiglia, senza una compagnia, come una di quelle rocce che sporgono dai crinali, solitarie per l'eternità, erano addirittura arrivati davanti a me per mostrarmi che la loro vita era piena di gioia, mentre io anche se fossi stato sbranato dalle bestie, non avrei avuto il pianto di anima viva. Mi accorsi di averli uccisi tutti solo perché, finito il riecheggio dei colpi, era ritornato il silenzio nella valle. Rimanevo unicamente io, che tremavo con il fucile ancora fumante tra le mani, e quei corpi immobili: i due giovani non avevano avuto nemmeno il tempo di sciogliere le loro mani intrecciate. E' dal momento che li ho visti che sto fuggendo. La montagna si è riempita di militari, a piedi ed a cavallo, che hanno marciato giorno e notte, rimuovendo ogni sasso, battendo anche i rovi, fino a quando ieri, mentre provavo a calmare, con un sorso d'acqua da un ruscello, la mia gola riarsa per la fuga, ho sentito la fucilata che mi ha colpito e che finalmente sta ponendo termine alla mia disperazione. Perciò sono venuto da te: prega per me, non sono malvagio, come non è malvagio il lupo che sbrana: esso è spinto solo dalla fame, non dalla cattiveria, il dolore e la rabbia mi hanno accecato ed ho commesso il male, ma il male non è in me." L'Eremita sussurrò "La gloria di Dio penetra in te, come la luce del sole che sta adesso attraversando i crinali della montagna davanti a noi. Il male non è nella tua anima, come non è in nessuna parte del creato: ora pensa solo a quando eri felice nel momento in cui ti stendevi sull'erba, nel silenzio, ad osservare l'immensità del cielo sopra di te, pensa a quel momento di pace assoluta in cui la montagna ti stringeva nel suo abbraccio calmo come quello di una madre. Ecco, lascia che tua anima si perda in quel mare che si distingue all'orizzonte, svuota la tua mente dal dolore, rammentando una cosa sola: tutte le vicende degli uomini, i loro amori, i loro odi, le loro stesse vite sono nulla innanzi all'eternità ed all'infinita bellezza di questa visione innanzi a te". Il respiro affannoso del giovane era lentamente andato a cessare. L'Eremita tracciò in aria il segno della croce e sfiorandogli il volto con la mano gli chiuse le palpebre.

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 Ins. 28-11-2007