Autori contemporanei
affermati, emergenti ed esordienti
Fiorella Borin
Ha pubblicato il libro
Fiorella Borin - Lo scrivano


 

 
 
 
Collana Le schegge d'oro
(i libri dei premi)
12x17 - pp. 64
Euro 7,00
ISBN 978-88-6037-4240

 

 

In copertina:
Raffaello Sanzio,
La Scuola di Atene (particolare)
Roma, Palazzi Vaticani,
Stanza della Segnatura (affresco)


Opera 1a classificata nel concorso
Letterario «F. Ivaldi 2007»
indetto dal comune di Gadesco
Pieve Delmona (Cr)

 
Presentazione
Incipit

Motivazione del Premio
 
Racconto strutturato in modo magistrale e costruito su un intreccio appassionante.
Lo stile è colto e raffinato. La Giuria ha apprezzato particolarmente il nesso tra lo spunto storico e la componente di invenzione. I protagonisti sono delineati con grande precisione e profondità psicologica mantenendo un'elevata sintonia con il contesto in cui la vicenda è ambientata. Il ritmo narrativo rende la lettura estremamente piacevole e intrigante.



La giuria della III edizione del premio «Filippo Ivaldi» 2007

 
 

 

LO SCRIVANO


Venezia, Anno Domini 1512.


Da dieci anni Pietro Bontremolo fa lo scrivano all'Uffizio dei Dieci Uffizii. In migliaia di giorni interminabili ha riempito con la sua calligrafia chiara, ordinata, senza sbavature né correzioni, migliaia e migliaia di fogli. Su ogni pagina ha fermato un lampo di esistenze altrui, traducendole in cifre, date, firme, timbri premuti nel cuore fluido della ceralacca; di sé, soltanto il fiato con cui soffiava via la cenere dal foglio.
Per dieci anni è tornato a casa, il suo bel palazzo in campo Santo Stefano, chiedendosi quale mai fosse davvero la sua vita. La cercava nel viso smorto della moglie Adriana, sulle labbra di lei così avare di baci e prodighe di ciance inconcludenti, nel piatto di minestra che gli si freddava davanti e nel quale affondava, senza voglia, il cucchiaio. La cercava tra le pieghe delle lenzuola, che di quei rapidi amplessi consumati al buio, prevedibili e immutabili come giaculatorie, conservavano solo la firma di un'immensa solitudine a due. Cercava la sua vita dentro lo specchio, Pietro Bontremolo, quando il barbiere glielo avvicinava al volto dopo la rasatura, e nella superficie levigata trovava il volto di un uomo di trentasei anni che ne dimostrava almeno dieci di più: la fronte incisa dai pensieri, le sopracciglia spioventi sugli occhi disabituati all'allegria, le guance molli degli uomini tristi, le labbra pallide, deserte di sorrisi. Allontanava da sé con rabbia lo specchio, come allontanava il piatto di minestra e la mano di Adriana, quando nel letto veniva a cercarlo per chiedergli non un gioco d'amore, ma il seme per un figlio.
Il posto da scrivano glielo ha procurato il padre; la moglie gli è stata imposta dalla madre; altri hanno deciso per lui dei soldi e dell'amore, del pane e della compagnia, del giorno e della notte; e di altri scrive la vita, enumera i fatti, conserva memoria in indispensabili registri inutili. Ma quanto sia effimero ciò che viene affidato alla carta, Pietro Bontremolo lo sa alla perfezione. Ha visto interi volumi divorati dai tarli e dai topi; altri ridotti in poltiglia da un'inarrestabile alta marea; altri ancora inceneriti da un fuoco divampato all'improvviso.
Di una cosa è convinto: nel nome è scritto il destino. E il suo nome, Pietro, non parla di carta, ma di qualcosa di infinitamente più forte e duraturo. Vorrebbe una vita degna di essere scritta nella pietra. E invece continua a riempire quinterni e quinterni di carta fragilissima e volgare.

Dell'amore lui ha letto nei libri. Parole di carta.
Ne ha udito nelle canzoni. Parole di vento.
Ha capito che deve essere una cosa bellissima.
Lo ha trovato nell'epigrafe incisa sulla tomba di una poetessa veneziana:

"Per amar molto ed esser poco amata,
visse e morì infelice, e qui giace
la più fedele amante che sia stata"

Parole di pietra.
Ha capito che l'amore deve essere una cosa terribile.
E lui, questa cosa bellissima e terribile, non si accontenta di desiderarla: la vuole.

Esistono occhi da cui è impossibile distogliere lo sguardo. Esistono sorrisi che ti si piantano nel cuore e mettono radici dalle quali si levano in volo i sogni. Esistono mani giunte in preghiera nel cui schiudersi promettono carezze. Esistono voci che, all'ombra di un monastero incastonato nell'isola di Torcello, cantano la gloria di Dio, ma vibrano di ben più carnali armonie. Esiste una donna dal nome aspro - si chiama Marpessia - nome buio come il suo destino di monaca per forza. è lei, l'amore.
Pietro lo intuisce subito. Sin dal primo incontro, avvenuto nel parlatorio del convento il giorno dell'Assunta, gli è chiaro che la sola vita degna di essere scritta sulla pietra, sarà quella da trascorrere al fianco di una donna che non è sua moglie. Ma che lo diventerà, costi quel che costi.
Si deve però levare dai piedi l'insipida Adriana. E vuole capire perché la madre abbia tanto insistito per fargli sposare quel rospo con la sottana che, oltre a incarnare la quintessenza della noia, in dieci anni di matrimonio non è riuscita a farsi ingravidare neppure una volta: vanificando così i progetti del vecchio Bontremolo buonanima, che aveva provveduto a monacare le quattro figlie per lasciare il grosso del patrimonio all'unico figlio maschio, Pietro, da cui si aspettava una florida prosecuzione della schiatta.
L'augusta genitrice è donna arcigna, abituata a liquidare i postulanti col minor numero possibile di parole. Anche in questa occasione elargisce al figlio un saggio dell'abituale parsimonia vocale e spiega, laconica:
"Perché il patrimonio restasse in famiglia. Perciò vi siete sposati".
"Famiglia!" ripete due, tre, quattro volte Pietro, per far colare tutto il grasso dalla parola opulenta, sontuosa, che gli allarga la bocca, e ingoiarne solo la salvifica essenza: dunque esiste una parentela di cui era all'oscuro! E tanto basta a invalidare il matrimonio con la smortina.
Lo scrivano esulta, bacia la madre, lancia in aria il cappello mentre rimastica il nettare dell'illuminante rivelazione, si precipita da un prete, spiattella il perché e il perciò, e subito dopo corre da un avvocato, e anche a lui sciorina il perché e il perciò, ottenendo dal primo un tiepido benedicit e dal secondo un convinto assenso alla richiesta di annullare le nozze con Adriana. Superato questo scoglio, non vi saranno impedimenti al matrimonio con Marpessia.
Bisogna però farla scappare dal monastero di San Giovanni di Torcello. Non è impresa difficile, se si è disposti a pagare il prezzo giusto ai mariuoli giusti. Con la complicità della notte - resa ancora più buia, sorda e sicura da una cospicua mancia alla madre guardiana - e la correità dei quattro rematori più veloci di Venezia, il rapimento di suor Marpessia va a buon fine. Come se la ritrova in barca, a lei che chiede il motivo di quel bacio così appassionato e teme le conseguenze del ratto sacrilego, a lei che trema più di un passerotto sulla neve, Pietro risponde:
"Perché ti amo. Perciò voglio sposarti".
"Quando?"
"Al più tardi, domani. Non potrei resistere un giorno di più".
"Ma siamo in Avvento..." obietta lei. "Non si può... ci porterà sfortuna..."
"Avremo fortuna, invece" taglia corto lui, chiudendole la bocca con un altro bacio.
Non è difficile nemmeno trovare un notaio disposto a registrare subito l'atto e un prete più sensibile al tintinnio dei ducati che alle proibizioni dell'Avvento: alla presenza di testimoni lo scrivano proferisce i verba de futura e i verba de presente, infila un anello all'anulare di Marpessia e finalmente, seguito dal corteo degli invitati, può compiere la traditio della sposa nel suo bel palazzo di campo Santo Stefano, da cui ha fatto sloggiare un'infuriata Adriana. Ma insieme con la smortina è sloggiata pure la madre, andatasi a rinserrare in un appartamento ereditato dal fratello: non ha lasciato spiegazioni, ha ordinato a quattro facchini di riempire una peatta con le sue robe ed è sparita. Qualcuno dice di averla sentita mugugnare qualcosa contro i monachini, quei pervertiti maledetti da Dio che vanno a letto con le suore.
Ma Pietro non si cura dell'assenza materna, delle pareti spoglie di quadri, specchi e arazzi, del deserto di mobili, suppellettili, piatti da parata e preziose maioliche faentine, che invece ammutoliscono gli ospiti: lui ha occhi solo per Marpessia. è incantevole nella veste nuziale di velluto cremisino, i capelli ornati di fiocchi e teneri fiori, un filo di perle a illuminarle l'incarnato perfetto; al suono di pifferi e trombe lei danza con la grazia innocente dei suoi vent'anni restituiti alla luce del mondo. Ma le spalle rotonde, il seno florido, la morbidezza dei fianchi, le gambe sode e svelte, i piccoli piedi irrequieti come caprioli, nel ballo lanciano promesse di piaceri carnali, di abbracci trionfanti di sensualità.
Nessuna delle altre dame presenti alla festa di nozze riesce a eguagliarla. Difatti hanno tutte un sorriso tirato, e una alla volta paiono spegnersi, oscurate dallo splendore di Marpessia. E quella sfilza di volti incupiti, seminascosti dai ventagli, smorza anche la loquacità degli uomini che, anziché unirsi alle danze o inventare motti arguti di buon augurio agli sposi, si contendono le poche sedie rimaste oppure si appoggiano schiena al muro, immusoniti, rosi dall'invidia per la fortuna toccata allo scrivano.
Pietro non insiste perché gli invitati prolunghino la loro presenza a una festa trasformatasi in mortorio; li saluta con sbrigativa cortesia e nella casa finalmente restituita al silenzio prende Marpessia per mano e, quasi correndo, la conduce in camera da letto.
Di lì a poco, tra le lenzuola odorose di lavanda, lo scrivano non scoprirà il piacere: toccherà l'estasi.

E'questa la vita che Pietro Bontremolo, scrivano all'Uffizio dei Dieci Uffizii, reputa degna di essere scritta sulla pietra. Così commissiona una lapide, sulla quale fa incidere la sintesi di questo percorso d'amore: due parole appena, le più significative: "PERCHE' PERCIÒ" e la data: MDXIII. Ordina che il prezioso riquadro di marmo sia applicato sulla facciata esterna del palazzo, a sinistra del poggiolo, lì dove amerà, la sera, sorseggiare l'ultimo bicchiere di malvasia e fantasticare sulle gioie della notte.
Ma Adriana, la goffa, insulsa, ripudiata Adriana non vuole darsi per vinta. Non si accontenta della restituzione della dote. Ha sporto denuncia contro l'uomo che si ostina a voler considerare ancora suo marito: lo accusa di adulterio, di bigamia, di concubinaggio con una monaca corrotta, fuggita dal convento per compiacere la sua insaziabile libidine. Ce n'è a sufficienza perché gli sbirri si presentino dallo scrivano e lo conducano in prigione. Ci resta per un po', a marcire in una cella della Serenissima, prima che l'avvocato riesca a farsi dare ascolto e a esibire la documentazione attestante la parentela con Adriana e la conseguente nullità del primo matrimonio, ottenendo infine il rilascio e la completa riabilitazione del suo assistito.
Sono settimane lunghe come anni, che lo prostrano nel fisico ma non lo abbattono nello spirito. Nel gelo di quella tomba di pietra, la Malpaga, umida, maleodorante e senza finestre, lunga 20 piedi veneti e larga 12, nemmeno per un istante Pietro ha rinnegato l'amore per la sua Marpessia. Ha accettato il temporaneo esilio in carcere come qualcosa di ingiusto, ma necessario a capire meglio la vita: una vita degna di essere scritta sul marmo, non sulla carta.
Non batte ciglio quando gli viene comunicato che Adriana pretende un risarcimento di duecento ducati: è una cifra considerevole, ma la sborserà di buon grado purché costei si levi definitivamente di torno, come una meretrice alla fine del lavoro. La donna che vuole essere pagata non merita nome diverso.
Pallido, smagrito, con la barba lunga, Pietro Bontremolo torna finalmente a casa. È il 1° marzo dell'Anno Domini 1513, e mentre la gondola scivola docilmente sul canale, lui pensa che questo è un giorno degno di essere ricordato sulla pietra, perché dopo il buio e lo strazio della prigione, Venezia gli viene restituita con le voci, gli odori, il colorato fiorire della luce. Ma non gli viene in mente nessuna frase da dettare allo scalpellino. Che strano: nessuna frase...
 

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Ins. 26-11-2007