Autori contemporanei
affermati, emergenti ed esordienti
Fiorella Borin
Ha pubblicato il libro
Fiorella Borin - Mir i dobro


 

 
 
 
Collana Le schegge d'oro (i libri dei premi)
12x17 - pp. 60 - Euro 6,70
ISBN 88-8356-789-7

 


Opera 1a classificata nel concorso Letterario «F. Ivaldi 2003»
indetto dal comune di Gadesco Pieve Delmona (Cr)

 

Presentazione
Incipit

Motivazione del Premio
 
La giuria decide di attribuire il primo premio all'opera "MIR I DOBRO" che si segnala per la solidità dell'impianto narrativo, per l'accurata ricostruzione storica, per l'attenta caratterizzazione dei personaggi e l'abile uso di lingue e registri linguistici diversi, dal colto al popolare. Per completezza e rigore il lavoro emerge su tutti.
 
 

La giuria del premio «Filippo Ivaldi» 2003

 
 

 
Mir i dobro

PRESENTAZIONE
 
Mir i dobro. Un racconto a due voci.
di Nicola Di Girolamo
 
 
L'aura sacra che avvolge in gran parte questo racconto è in consonanza col titolo: in italiano "Pace e bene", il saluto inventato da san Francesco. Confermano la sacralità, le preghiere e il voto del secondino, Gerolamo. Per salvare il condannato, si rivolge a Dio: "Signor Dio Padre...". Chi sia il condannato spiegherà il memoriale che egli vuole scrivere come ultimo desiderio, rispondendo alla concessione che si fa ai condannati a morte. In maniera ironica, una delle guardie osserva che non può essere un diario di bordo, riferendosi alla prigione e a ciò che fuori lo attende. Il recluso replica con un pensiero che illumina la scena: ribatte a chi aveva ironizzato: "andrò non sul patibolo ma nell'isola delle farfalle": un lampo nella notte dell'attesa che scuote la coscienza.
Alla fine della lettura ci siamo chiesti, per dare una definizione, se questo nuovo lavoro di Fiorella Borin è un racconto apologetico, una parenesi sociale, un'operetta morale, un lungo apologo. Dobbiamo riconoscere che i racconti si sottraggono ad ogni formula e definizione troppo perentoria. In principio credetti che il racconto fosse stato tratto dalle cronache veneziane del Cinquecento. Con la nota posta alle fine si indica da dove ha preso le mosse la scrittrice. Breve, la nota, come quella pubblicata dalla "Gazette des Tribunaux" che diede origine al romanzo "Le Rouge et le Noir". Per entrambi i casi si calcola ciò che da quelle note è derivato: un capolavoro e un bel racconto.
In una lettera, la scrittrice fa sapere che, tolta la nota, tutto il resto (ovvero, l'intreccio) è stato inventato dalla sua fantasia. Ma si è lasciata guidare da un'idea, dal sentimento della sua coscienza civile: un'idea a se ipsa facta (Cartesio) che avvalora l'inventato. Da questo è scaturito il violento realismo della prima pagina in cui, però, soffia liberamente il vento dell'umano sentire che porta a riflettere sui rapporti degli uomini, in qualunque situazione si trovino. In quella pagina Agostino Querini, condannato a morte, e il suo carceriere, Gerolamo, sono inventati, sì, ma sono esempi di una umanità che si fa avanti senza iperboli, pensieri enfatici: essa sgorga da semplici gesti, da poche parole comuni. In consonanza col titolo si pone il sacro, come si è detto, dando maggior rilievo al comportamento di Gerolamo: egli crede in Dio, lo prega affinché lo aiuti per salvare il carcerato. Il condannato non è da meno col suo comportamento nei riguardi del carceriere: basta un gesto, come vedremo.
La scrittura di questa prima pagina non scade nel realismo oggettivo, il linguaggio non è quello della cronache; esso fa ricordare quel che Italo Calvino disse del mestiere dello scrittore: "... ma raccontare è raccontare". Fiorella Borin sa raccontare.
La seconda voce - il diario di Agostino - può ricordare avventure di romanzi popolari ma la maniera come sono orchestrate, la complessità e la struttura labirintica - per questo ci siamo chiesto, leggendo, come ne sarebbero usciti gli operatori che dovevano liberare Agostino - fa capire che la scrittrice non ha seguito lo "spartito" (una supposta cronaca) ma ciò che ha fluttuato all'interno dove s'impone l'idea, ossia il ricorso al soggettivo, alla fantasia, all'idea a se ipsa facta. Perciò le avventure spesso cedono il passo alle evasioni: esse ripropongono i gravi problemi dell'umanità; si ritorna al sacro, si contesta il "pax tibi Marce, evangelista meus" e si raccontano fatti e leggende che rendono la narrazione sempre più complessa, più avvincente.
Per tutto ciò pensiamo che Fiorella Borin ha scritto senza esitazioni, senza freni, scossa dai fatti reali, contro i quali la dominante sentimentale è la pace. Ciò che accadeva a Venezia, i processi, le torture, le condanne a morte, il Consiglio dei Dieci, con modi diversi ci sono ancora nel mondo: nella civile America (!) la pena di morte.
La bibliografia è stata dimenticata e si è imposto il minimalismo, ossia il dettaglio, un elemento che proviene dalla propria poetica: non può essere stato inventato. La situazione, il motivo umano non distoglie il critico da ciò che sorregge il racconto: l'arte. L'arte di immaginare ciò che accadeva a Venezia, per una traslazione; e se la bibliografia fa pensare a una mimesi essa è stata impastata da quel che viene definito transustanziazione.
Nella prima pagina fa vedere un tale fenomeno: "il prigioniero sollevò la testa dalla paglia dove si era rannicchiato e strinse le palpebre, infastidito dalla luce traballante del lume... Un sorriso esangue spianò le labbra... Il bugigattolo puzzolente in cui da cento giorni stava rinchiuso aveva un nome: Malpaga. E un pavimento di assi viscide e marce, in autunno lavate più spesso dall'alta marea che dai secchi d'acqua dei custodi. E soffitto e pareti misericordiosamente rivestite di larice, affinché i detenuti non si accoppassero prendendo a testate i muri". Non è una descrizione che si può trovare nelle cronache. Per la figura del prigioniero l'immaginazione va oltre: "gli stenti e le torture lo avevano molto provato: un pallore grigiastro gli induriva i lineamenti, ma le labbra non mostravano la piega amara che veniva a stamparsi come un marchio di disperazione sulla bocca dei carcerati, e gli occhi, benché lucidi di febbre, avevano lo stesso guizzo di luce indecifrabile del giorno dell'arresto. Come se l'estenuante attesa del processo, e poi gli interrogatori, le tenaglie del carnefice e la voracità degli insetti gli avessero martoriato la carne ma lasciato intatto lo spirito", quello che volteggia nell'isola delle farfalle.
La scrittura tiene lontano le parole usate: "la chiave esaurì i suoi giri nella serratura..." per far capire la sicurezza nella segregazione. Poi: "...dietro le assi pietose, si annidavano prospere colonie [i corsivi sono nostri] di insetti immondi che d'estate banchettavano sulle piaghe dei prigionieri..."; "Gerolamo lo fissò col mento ciondoloni, le dita macchiate di ruggine". Il dettaglio non è stato inventato.
Nello sconvolgente scenario brilla un raggio di umanità, di solidarietà: "in precedenti occasioni il vecchio secondino aveva ricavato un sordido, inconfessabile piacere dalle urla animalesche... Quel giovane di vent'anni che lo guardava senza odio era tutta un'altra cosa. Non solo per l'età, la stessa di suo figlio... ma per l'incomprensibile sproporzione della condanna comminatagli dal Consiglio dei Dieci". E ancora: "Voleva vederli ancora, quegli occhi non incupiti dalla paura della morte: avevano lo stesso colore del mare, quando il mare è buono... Il secondino completò sottovoce, lottando contro l'agitazione che gli seccava la gola". Con un complemento più chiaro dei rapporti fra i due, l'addio del prigioniero: "... al posto delle mani degli angeli datemi la vostra, perché vorrei andare via col ricordo di avere stretto la mano a un brav'uomo".
In rapporto con quanto abbiamo letto si può dire che la poetica di Fiorella Borin nasce dall'opera. E' chiaro che cosa ha mosso la scrittrice: lo apprendiamo da quel che dice il "fratello Ante": "... fratello Ante mi spiegò che la pace è il bene supremo a cui deve aspirare l'umanità. La prima nemica della pace è la discordia: una perfida gramigna dilagata nel mondo subito dopo che Dio ebbe confuso le lingue dei costruttori della torre di Babele, per punirli della loro arroganza. Se si vuole impedire alla discordia di mettere i popoli perennemente in guerra l'uno contro l'altro è importante imparare a parlarsi e ad ascoltare [il corsivo è nostro], così da comprendere le ragioni dell'altro e, dopo averci riflettuto su, decidere se siamo noi a dover perdonare o a dover chiedere perdono".
È una "predica" che si è ascoltata tante volte; qui non è diversa da un deus ex machina affinché il principio si unisca alla fine per l'unità del racconto. "Parlarsi ed ascoltare" è stato un problema non risolto anche in altre novelle di Fiorella Borin. Qui lo pone più apertamente, rischiando di far considerare il suo racconto apologetico. "Parlarsi ed ascoltare": spinge a ricordare la commedia di Pirandello "Le ragioni degli altri" col risultato di vedere l'uomo sempre più solo.
Nelle altre novelle l'epilogo è quasi sempre doloroso, straziante a volte. In questa invece si apre la porta alla speranza e in maniera allusiva si arriva al "j'accuse": nelle invenzioni la verità.
La bibliografia lascia ammirati e scettici: tanta ricerca per un racconto? Non furono diverse le ricerche di Flaubert e di Zola, "si licet...". Non è arrivata al capolavoro ma tutto è stato mescolato e impastato per un ottimo pane: quello fatto con le sue mani, a se ipsa facto. Quanti scrittori, oggi, possono ricorrere a tale affermazione?
L'ultima ricerca, che non è quella bibliografica, varca i limiti personali e raggiunge il dolore del mondo con due parole: pace e bene.
 

Nicola Di Girolamo

 

 
MIR I DOBRO
 
 
Venezia, Anno Domini 1574
 
La chiave esaurì i suoi giri nella serratura e la porta si aprì stridendo sui cardini.
"Agostino Querini!" disse il carceriere.
Il prigioniero sollevò la testa dalla paglia dove si era rannicchiato e strinse le palpebre, infastidito dalla luce traballante del lume.
"Alzatevi. È ora di lasciare la Malpaga."
Un sorriso esangue spianò le labbra del prigioniero. Il bugigattolo puzzolente in cui da cento giorni stava rinchiuso aveva un nome: Malpaga. E un pavimento di assi viscide e marce, in autunno lavate più spesso dall'alta marea che dai secchi d'acqua dei custodi. E soffitto e pareti misericordiosamente rivestiti di larice, affinché i detenuti non si accoppassero prendendo a testate i muri (ma dietro le assi pietose, si annidavano prospere colonie di insetti immondi che d'estate banchettavano nelle piaghe dei prigionieri). E una finestrella sul cortile del Palazzo Ducale, troppo bassa per consentire la vista del cielo, chiusa da inferriate troppo grosse per essere svelte con la sola forza delle mani, e troppo angusta perché l'aria degli uomini liberi potesse entrarvi a fare pulizia dello sporco e del dolore. Aveva un nome, la sua cella: come una nave, un'isola o una donna. Malpaga.
"La lascerò senza rimpianti" mormorò il prigioniero, mettendosi in piedi. Era molto debole e gli girava la testa.
Il secondino avvicinò il lume al volto del povero giovane. Gli stenti e le torture lo avevano molto provato: un pallore grigiastro gli induriva i lineamenti, ma le labbra non mostravano la piega amara che veniva a stamparsi come un marchio di disperazione sulla bocca dei carcerati, e gli occhi, benché lucidi di febbre, avevano lo stesso guizzo di luce indecifrabile del giorno dell'arresto. Come se l'estenuante attesa del processo, e poi gli interrogatori, le tenaglie del carnefice e la voracità degli insetti, gli avessero martoriato la carne ma lasciato intatto lo spirito.
"Abbassate il lume, Gerolamo" disse Agostino Querini, "ho familiarità col buio. E lì dove devo andare, mi aspetta una notte senza luna e senza stelle."
Gerolamo lo fissò col mento ciondoloni. In tanti anni malvissuti tra lo stridio di serrature, chiavistelli e catene, per la prima volta si trovava davanti un uomo che reagiva all'ordine di lasciare la cella senza un soprassalto di speranza, senza un grido - sempre lo stesso grido: "Sono libero? Sono libero, vero?". Abbassò il lume.
"Seguitemi, Agostino Querini. Vi condurrò alla Chiesola. È una cella molto più confortevole di questa. Passerete la notte..."
"La mia ultima notte" lo corresse il prigioniero in un filo di voce.
In precedenti occasioni il vecchio secondino aveva ricavato un sordido, inconfessabile piacere dalle urla animalesche che l'orrore della morte così prossima cavava di gola ai condannati al patibolo. Tutti ladri matricolati, assassini, traditori della Patria, bestemmiatori e sodomiti: marmaglia buona per bruciare all'Inferno, collottole plasmate dal Creatore per finire appese a un cappio o maciullate dal maglio del boia.
Ma con quel giovane di vent'anni che lo guardava senza odio, era tutta un'altra cosa. Non solo per l'età, la stessa di suo figlio - anzi, sarebbe stata la stessa, se nelle acque di Cipro la freccia turchesca non fosse mai stata scagliata contro un petto ancora di ragazzo - ma per l'incomprensibile sproporzione della condanna, a suo parere comminata dal Consiglio dei Dieci più per assecondare un bizzoso puntiglio, che in conseguenza della gravità del reato commesso.
Gerolamo sollevò nuovamente il lume. Voleva vederli ancora, quegli occhi non incupiti dalla paura della morte: avevano lo stesso colore del mare, quando il mare è buono. Si schiarì la voce e riprese la filastrocca dal punto in cui era stato interrotto.
"Agostino Querini, passerete la notte nella Chiesola. Vi terranno compagnia i generosi confratelli dei Picai, da cui riceverete tutta l'assistenza e il conforto spirituale che la vostra anima richiede."
Il prigioniero annuì. Il secondino completò sottovoce, lottando contro l'agitazione che gli seccava la gola, la formula che da trent'anni gli toccava ripetere tale e quale.
"Ditemi che cosa vi piacerebbe mangiare, e sarà nostro dovere accontentarvi." Ma subito aggiunse, in un balbettio concitato, una postilla non contemplata dai codici della Serenissima: "Ascoltatemi a me, ho messo da parte una caraffa di malvasia, roba buona mica sciacquatura di botti, ve la regalo volentieri, giuro sull'onor della Madonna che non è un vino da poveracci ma un bevanda da vescovi di Roma, credetemi a me che mi possano cascar tutti e due gli occhi per terra se quella non è un'uva spremuta dalle mani degli angeli..."
"Bevetela voi, Gerolamo," lo interruppe il condannato, "e al posto delle mani degli angeli datemi la vostra, perché vorrei andare via col ricordo di avere stretto la mano a un brav'uomo."
Il secondino strofinò la destra sul farsetto, prima di stenderla verso il prigioniero. E nonostante il ruvido tentativo di pulizia, si vergognò ugualmente di avere le unghie nere e le dita macchiate di ruggine, e si sentì mille volte più sporco dell'uomo vestito di stracci induriti dagli umori, dalle chiazze di sangue rappreso e dalla muffa del carcere, a cui stringeva la mano. Si vergognò di quel mestiere fetente che gli pagava sì il pane, il vino e le puttane, ma in cambio lo obbligava a collaborare sempre col carnefice, anche quando avrebbe voluto schierarsi dall'altra parte.
Preceduti dal Capitano delle Guardie, due soldati entrarono nella cella e si posero ai fianchi del prigioniero.
"È ora di andare..." mormorò Gerolamo staccandosi da lui. Non si era mai sentito così fiacco e inutile come in quel momento. Avrebbe voluto dirgli: "Pregherò per voi", ma la commozione era un groppo in gola e lui non sapeva da che parte cominciare a scioglierlo. E poi, forse non era più nemmeno capace di pregare.
Agostino Querini gli rivolse un sorriso.
"Addio, amico" disse. E mentre gli sbirri lo afferravano per le braccia, spingendolo fuori, girò la testa e aggiunse, in un filo di voce: "Mir i dobro".
Il vecchio Gerolamo non si era mai spinto più in là dell'isola di Sant'Erasmo, nella sua vita baciata solo da madonna Povertà. Dell'entroterra ignorava sin quasi l'esistenza e non conosceva altra lingua al di fuori del veneziano. Sollecitato da un grugnito dell'ufficiale, chiuse la porta della Malpaga e riconsegnò al Capitano delle Guardie tutte le pesanti chiavi, perché così prescriveva il regolamento. Rimasto solo, si attardò nel corridoio, con la faccia buia, ripetendo sottovoce più volte quella frase misteriosa, mai udita prima.
Mir i dobro.
Poteva essere una formula magica. Un'invocazione al demonio. Un sortilegio per apparecchiarsi una via di fuga. Una preghiera al dio degli infedeli. Una burla. Cos'altro?
Fu tentato di raggiungere i soldati per chiedere una spiegazione al prigioniero. Esitò; fece qualche passo di corsa; si arrestò; tornò indietro; si mordicchiò il labbro; ripartì di slanciò; si fermò di nuovo.
Meglio non sapere.
Meglio tenersi un dubbio che ricevere una delusione.
Per la scala interna salì al mezzanino, dove erano le camere degli sbirri e dei custodi; trascinando i piedi raggiunse la sua stanza e si lasciò cadere pesantemente sul letto. Spense il lume; tastò sulla mensola e trovò ciò che cercava. Con un mugolio di piacere portò alla bocca la caraffa di malvasia. Aveva già le labbra bagnate da quel nettare sublime, quando un pensiero gli tappò la gola: se il serenissimo doge Mocenigo fosse morto prima dell'alba, l'esecuzione sarebbe stata sospesa e il Querini graziato! Allora tra mille cautele rimise la caraffa al suo posto, e cadde in ginocchio davanti al crocefisso inchiodato alla parete, lui che non pregava più dal giorno in cui i turchi gli avevano ammazzato il figlio. Pregò a suo modo, non in latino, ma nella sola lingua che conosceva.
"Signor Dio Padre, ascoltate questo povero vecchio che per amor vostro fa il fioretto di tenersi la sete che lo brucia, e Voi che siete onnisciente sapete che questo povero vecchio ha messo via la caraffa senza parar giù neanche una goccia di un vinello buono come quello fabbricato dal vostro Signor Figliolo alle nozze di Cana. Ascoltatemi a me, Signor Dio Padre col vostro Signor Figliolo e anche voi Signor Spirito Santo: per amor di questo povero vecchio che vi prega ginocchioni, voi che siete Dio in tre e tre Dii in uno, e però tutti e tre messi insieme un Dio così potente da valere per tre Dii onnipotenti, potrebbe mica uno di voi tre tirar giù una saetta sul corno del doge Mocenigo?"
 
 
La Chiesola era una cella più ampia e confortevole della Malpaga. Prendeva aria da due finestrelle, anch'esse protette da sbarre e con vista sul cortile del Palazzo Ducale; l'arredo era costituito da una panca, un tavolino, due sgabelli, un inginocchiatoio, un tavolaccio inchiodato da un lato a una parete e dall'altro sostenuto da due basamenti di pietra d'Istria, un secchio per i bisogni corporali e un catino d'acqua limpida. Accatastati in un canto, qualche pagliericcio, coperte e lenzuola pulite. Quando non ospitava condannati a morte, ci venivano a dormire gli sbirri, dentro la Chiesola: la trovavano più lussuosa dei loro fin troppo spartani alloggiamenti.
Agostino Querini fece scorrere lo sguardo su ogni oggetto e rimase impassibile.
"L'albergo è di vostro gradimento, Eccellenza?" gli domandò il soldato alla sua destra, mimando un inchino cerimonioso. Già in altre occasioni gli aveva manifestato un'ingiustificata antipatia senza mai lesinargli insulti, calci, provocazioni e sputi nella ciotola del cibo.
"Non è proprio di mio gusto ma in fin dei conti si tratta di una notte sola. Vedrete che riuscirò a adattarmici" rispose il prigioniero.
Con un cenno della testa il Capitano delle Guardie ordinò ai due soldati di scostarsi di un passo dal condannato. Era giunto il momento del discorso ufficiale. Si schiarì la voce.
"Agostino Querini da San Tomà, oggi il Consiglio dei Dieci ha esaminato il vostro caso; alla presenza di un Avogadore esperto in giurisprudenza e profondo conoscitore delle leggi, sono stati serenamente valutati tutti gli atti processuali e la sentenza è stata approvata con la prescritta maggioranza di due terzi dei voti."
Il prigioniero annuì. Il Capitano si grattò un orecchio e proseguì.
"Agostino Querini, siete stato giudicato reo di esservi comportato con grande crudeltà contro lo Stato e l'onore della Repubblica Serenissima. Domattina il Gastaldo vi condurrà al patibolo facendovi passare dalla porta della Carta. Come l'avrete varcata, provvederà a tagliarvi la lingua quanto più profondamente gli sarà possibile. Con la lingua appesa al collo voi attraverserete la Piazzetta e raggiungerete la forca innalzata per voi tra le colonne di Marco e Todaro. Colà verrete appeso per la gola e il vostro corpo resterà esposto per ventiquattro ore. Ora ditemi che cosa vi piacerebbe mangiare e sarà nostro dovere accontentarvi."
Il prigioniero si era fatto pallidissimo. Raggiunse la panca e si mise seduto, il busto inclinato in avanti, le braccia appoggiate sulle cosce, le mani congiunte.
"Una fetta di cacio fatto col latte delle pecore, qualche oliva, un grappolo d'uva e un po' di fichi. Non mi serve nient'altro, Capitano" disse senza alzare gli occhi da terra.
"Nient'altro?" domandò l'ufficiale, perplesso da una richiesta tanto frugale.
"Una camicia bianca, pulita."
"Sarete servito. E poi?"
"Qualche foglio e l'occorrente per scrivere."
Il Capitano aggrottò le sopracciglia. "Se volete fare testamento bisognerà chiamare un notaio... Ma poi, dico io!, di quali beni può disporre un uomo così miserabile da non potersi pagare un avvocato? Un uomo che in tutti questi mesi ha ricevuto solo le visite della madre, una stracciona con più debiti che rammendi sulla sottana..." si grattò di nuovo l'orecchio e proseguì, rosso in volto, "Dico io!, un uomo che non ci ha rimborsato neanche il cibo, le lenzuola, l'olio del lume che gli ha fatto luce..."
"E neppure le tenaglie consumate dal carnefice" disse il prigioniero. Fissò il Capitano con una tale fierezza da obbligarlo ad abbassare gli occhi.
"Va bene. Allora chiameremo un notaio" acconsentì l'ufficiale.
"Non mi serve un notaio. Quanto verrà scritto non è un testamento."
"E cosa, allora? Una lettera?"
Agostino Querini aveva un'aria serena, adesso.
"No. Un diario di bordo."
"Ma cosa dite? Questa non è una nave e voi non siete in viaggio!"
"Sì che lo sono, invece. E lo siete anche voi: dal giorno in cui siete venuto al mondo."
"Anch'io? In viaggio?"
"Sì, Capitano. Proprio come me. Con la differenza che il mio finisce domani."
"Già, sul patibolo" precisò con un ghigno di soddisfazione il soldato che lo aveva in odio.
Il prigioniero si alzò e raggiunse la finestrella più vicina. Afferrò le sbarre e inclinò la testa nella speranza di riuscire a vedere il colore del cielo.
"No. Sull'isola delle farfalle" disse, e aveva la voce di chi sta sorridendo.

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