Autori contemporanei
affermati, emergenti ed esordienti
Fiorella Borin
Ha pubblicato il libro
Fiorella Borin - Le putine del Canal Gorzone
 
 

 

 

Collana Le schegge d'oro (i libri dei premi) 12x17 - pp. 48 - Euro 5,20 - ISBN 88-8356-368-9

 
 
 

Questo libro è stato pubblicato quale opera 2a classificata nel concorso Letterario «F. Ivaldi 2002» indetto dal comune di Gadesco Pieve Delmona (Cr)

 

 

Motivazione
Postfazione

Incipit

Motivazione della Giuria
Il racconto, articolato in tre parti, rievoca una tragedia realmente accaduta secondo un punto di vista fortemente soggettivo.
La componente linguistica mostra una notevole plasticità adeguandosi al parlato popolare dei personaggi con suggestivi effetti realistici e poetici.
La struttura narrativa, complessa e articolata, arricchisce il racconto con una significativa stratificazione temporale in cui si rappresentano le peculiarità psicologiche ed emotive dei tre momenti cruciali della vita della donna.
 

La giuria del premio «Filippo Ivaldi» 2002

Postfazione
 

Però raccontare è raccontare; la narrativa

quando si occupa di raccontare ha già il suo

daffare, e la sua morale, e il suo modo di

incidere sul mondo.

 

Italo Calvino ("Ulisse", 1956-57, p.950)

 
"Senza nessi e rapporti non si fa critica letteraria". Non è la prima volta che Fiorella Borin chiede ausilio alla cronaca giornalistica per il suo raccontare. Stabilite le debite distanze, possiamo dire che lo chiesero Stendhal per "II Rosso e il Nero", Zola per una più vasta rappresentazione del reale; ma è la prima volta che affronta il racconto lungo, non senza rischio, dopo l'unità e la concinnità delle molte novelle che ha scritto.
A differenza delle novelle, in cui i fatti vengono centralizzati, con le variazioni necessarie a fare degli eventi quotidiani una cronaca diversa, qui Fiorella Borin parte da lontano per l'idea dell'immanenza del tragico nella vita dell'uomo.
Esaminata la struttura del racconto, si scopre che la tragedia dell'antica Grecia non è lontana: un solo personaggio al culmine della narrazione; o due, come avveniva all'origine della tragedia.
La fine del piccolo Zuanin nelle acque delle Zattere (Venezia) è un non diverso "coro": vi è l'annuncio di ciò che potrà accadere alla fine. Il dolore della madre con il figlioletto morto fra le braccia, ma che per lei è ancora vivo, dà luogo ad uno di quei monologhi interiori, o dialogo ingannevole col morto, in cui la sensibilità della scrittrice raggiunge limiti difficilmente riscontrabili in altri eventi. Alla fine, come nella tragedia greca, il "deus ex machina": esso, però, non dà luogo alla catarsi.
Ancora: la composizione del racconto, le tre parti - variazioni sullo stesso tema: il fato, il tragico, la morte - autorizza a ricordare la trilogia del teatro greco, senza averne, però, la grandezza e la solennità.
Muore il bambino e alla fine del racconto apprendiamo che muore una bambina in acque diverse: il parallelismo è altamente simbolico per lo sviluppo del racconto: muoiono due vite destinate a popolare la Terra, legge cosmica negata dall'assurdo. Sulla loro morte incombe non soltanto l'antico Fato, ma anche - modernamente - l'assurdo. Dialettizzato da Albert Camus nel "Mito di Sisifo", e drammatizzato poi ne "La Peste" e nel "Malentendu" (dramma). Che cosa è l'assurdo? Semplificando, è l'irrazionale che siede ai piedi del razionale, l'aduggia e lo trascina alla morte.
Già prima dell'episodio descritto, un altro presagio: un giovane operaio muore nell'acqua di un canale per il cedimento della passerella. Due passerelle, la seconda è quella del canal Gorzone, dove muoiono, secondo la cronaca, quindici ragazzine. Oltre che presagio, la morte del giovane dà luogo a ciò che può essere considerato un inserto in cui protagoniste sono due bambine. Nelle altre novelle i principali attori sono uomini maturi o vecchi; qui, per la prima volta, due bambine con i loro commenti sulla morte del giovane e le conseguenze che formano un inserto, appunto. È la sola evasione arbitraria, forse per il gusto di rappresentare personaggi nuovi, insoliti, con le loro "ciacole" popolarmente vivaci, vere per ciò che vogliono esprimere. Nell'economia del racconto, nella sua organicità esso confluisce nel tema dominante. È un momento, pensiamo, di felicità espressiva per la scrittrice.
Il terzo tempo del racconto sembra anch'esso staccarsi dalla simbologia precedente: ma non è così per ciò che la narratrice sa vedere in quel mondo in cui vivono donne che hanno perduto la ragione: anche qui il senso tragico, ma che si rivela con altri motivi magistralmente orchestrati. In questo terzo momento ha inizio il racconto tratto dalla cronaca. Ma prima viene rappresentato quel mondo in maniera esemplare.
"Ombre che vagano, incomprensibili incomprese, compatite per la loro follia, derise, malsopportate, ingombranti, amate da nessuno, uniche al mondo, irragionevoli, disprezzate, grottesche tenerissime creature di vite violate dal dolore". Quel che colpisce in cotal mondo è la capacità di disegnare con tratti indelebili le varie figure di alienate. Il linguaggio, i tratti hanno la meglio, in principio, sullo svolgimento dei fatti, che non esistono, o sono irrilevanti.
Là troviamo Clelia, disegnata a tutto tondo: "... se ne sta in disparte, pallida nei suoi abiti pallidi, e le rare volte che si sbottona in una frase di lunghezza superiore alle quattro parole, svela una voce monocorde, piatta, modulata sempre sulla stessa nota. Nessuno l'ha mai sentita ridere e nessuno l'ha mai scoperta a piangere". Non è una pazza, ma impietrita dal dolore è come se fosse tale. Insieme con Zoreide ripercorre la sua via dolorosa, rappresentata da una scatola nella quale vi è tutto ciò che le ricorda la vita della figlioletta finita anche lei nelle acque del canal Gorzone. È il momento in cui la narratrice raggiunge un pathos eccezionale, ma senza gridi o lacrime, né parole amare; a parlare sono le cose, il gesto: "Clelia solleva il vestito, lo accarezza, lo bacia là dov'era il ventre gonfio delle capriole di sua figlia".
La fine non ha, per conseguenza, toni drammatici e perciò il ricorso ai versi di Vicente Aleixandre: "... duole in terra la stessa ombra dei denti, / duole ogni cosa, / anche la scarpa triste portata via dal fiume".
 

Nicola Di Girolamo

 
Complemento
Riveduto nelle sue parti, il racconto è una grande metafora in cui "II Tragico Quotidiano" di Domenico Giuliotti, di molti anni fa, fu foriero delle sventure che avrebbero colpito l'umanità. Se i Greci ricorsero ai miti e alle leggende, oggi all'artista s'impone la realtà quotidiana, che è tragica.
In una delle sue pagine, Benedetto Croce osservò che importa poco se uno scrittore non realizza totalmente il suo disegno, ma importa che abbia un'anima. Lasciamo che Fiorella Borin si dilunghi più del dovuto in qualche parte del suo racconto, che dilaghi anche nel favolistico (dialogo tra la Brunetta e la Biondina) per il piacere di presentare il loro mondo per mezzo di una endoscopia letteraria ammirevole, arrivando a identificarsi con i due personaggi e usando un linguaggio che non è quello dell'autore, come avviene altrove: le "ciacole", non a caso riportate nel dialetto veneziano.
Ha affrontato un genere mai tentato prima, suggestionata, forse, da una nuova scrittura che dà facoltà di evasioni. Ma quelle di Fiorella Borin sono in corrispondenza col motivo conduttore, in gran parte: sono finalizzate, senza artifici.
Favolistico, abbiamo detto, per la storia della moneta d'oro rubata ad un morto ammazzato; in quello, però, la vivacità del contendere, la naturalezza delle espressioni, il ritmo del dissidio e la brevità delle battute approdano alle "baruffe goldoniane", "chioggiotte" ("si licet parva...") e non, o, più lontano, alle "allegre comari..." di Shakespeare. Trascritto, il diverbio in veneziano (veneziana, la scrittrice!), più vivo si sarebbe fatto sentire Goldoni. Presa in sé, questa parte del racconto, è una prova della versatilità di Fiorella Borin.
Sicura e forte nelle novelle tradizionali, nelle quali dominano il simbolismo, la metafora e il senso del reale, qui si è trovata come un atleta specialista nei 1500 metri e che tenta i cinquemila. È stata la prima impressione a lettura iniziata. Si può pensare che vi siano più di un racconto nel testo, ma ciascuno, come abbiamo accennato, ha una sua funzione in rapporto col tema dominante. Essi sono come "ouvertures" (per lei pianista uscita dal Conservatorio) nello spartito; come in una sinfonia, creano molteplicità di situazioni confluenti verso la dissolvenza voluta.
La sua prosa è come il "Placido Don" (se è vero che sia tale): esso, nel suo corso, bacia tante contrade rigenerandole: l'arte.
Sa raccontare, la nostra scrittrice, e "incidere sul mondo": la casa delle pazze è un "j'accuse" di sciasciana memoria, se non stendhaliana.
 

Nicola Di Girolamo

 

 
 
Le putine del Canal Gorzone
 
L'obiettivo è quello di una vecchia macchina fotografica, caricata con una pellicola in bianco e nero, come usava negli anni '50. Inquadra scenette di vita paesana: gente che va a Messa, una vedova dai modi bruschi, due bambine che si scambiano confidenze e litigano per contendersi il vanto del segreto più grosso... Piccole cose, insomma, di cui resta traccia solo nella memoria degli anziani e in vecchie fotografie d'archivio.
La scena si svolge in un piccolissimo paese del Veneto, cresciuto tra Cavarzere e il canal Gorzone: il suo nome è Boscochiaro. E sembra un nome rubato a un libro di favole, così lieto e leggero da parere un guizzo della fantasia.
Invece esiste.
E lì, nel dialetto dolce e ruvido dell'entroterra veneziano, le bimbe si chiamano "putine".
 
MAGGIO 1950
"Hai già fatto i compiti?" sussurra la bambina alta alla sua vicina, più paffuta, che tiene la bocca incollata alle mani giunte.
"Sì", risponde girando appena gli occhi la piccola.
"Bene. Anch'io. Così possiamo stare fuori un po' a chiacch..."
"Sst! Zitte! Sempre a parlare, voi due!" ringhia alle loro spalle la vedova Zanetti, una megera che ha accoppato il marito a suon di giaculatorie, penitenze e digiuni da Venerdì Santo anche quando era il giorno del Pranzo di Natale.
"Ave Maria gratia plena..." ricomincia don Mosè.
"Sì però la mamma mi ha detto di non fare tardi", precisa, in un soffio, la più piccola.
"Una mezz'oretta non è fare tardi", ribatte, gli indici premuti sul naso, la bambina alta. "E allora? In chiesa si prega!" riattacca, stizzita, la vedova Zanetti, assestando uno scappellotto sulla nuca per ciascuna.
"Sancta Maria Mater Dei..." strillano le bambine, accodandosi al coro dei fedeli. È maggio, il mese caro alla Madonna, e il Rosario va recitato anche se non se ne ha tanta voglia.
Ancora dieci minuti, e don Mosè congeda i devoti. Gli anziani raddrizzano vecchie schiene e ginocchia artritiche, le donne lisciano le pieghe della gonna, le giovani sono le più svelte a sciogliere il nodo del velo che oscura loro i capelli, le spose accendono una candela sospirando la richiesta di un aiuto dal Cielo, e i bambini sono già tutti corsi fuori.
"Ti va una passeggiatina?" propone la bambina alta, scuotendo la testa appena liberata dalla schiavitù del fazzoletto, che fa girellare intorno al dito come una trottola. Ha capelli di un bel castano ramato, sciolti sulle spalle. Ha un nome e un cognome, ma d'ora in avanti la chiameremo semplicemente "la brunetta".
"Non so..." tentenna l'amica paffutella, ricacciando dietro le orecchie le ciocche dei suoi bellissimi capelli biondi, mortificati dal fazzolettaccio di cotone che ora ripiega con cura e fa sparire in una tasca. Naturalmente anche lei ha un nome e un cognome, ma per noi sarà "la biondina" e basta.
"Cosa avevate da parlare, voi due?" le aggredisce la megera Zanetti, "Si può sapere?"
"Ve saludo, Alta Regina,
Tuto 'l mondo ve se inchina..." recita, soave e compunta, la Brunetta, accompagnando l'ultima parola con una riverenza, poi si leva su di scatto e, indicando i fianchi rinsecchiti della vedova, aggiunge:
"... Per quel fruto che portaste,
Tuto 'l mondo iluminaste..."
"... 'Luminè l'anima mia,
Dolze Vergine Maria", conclude la Biondina.
"Volete farmi credere che stavate pregando?" s'inalbera la beghina, e il sospetto di essere presa in giro la rende ancora più brutta. Si dice che una donna di Cavarzere abbia perso il latte, per lo spavento di essersela trovata davanti all'improvviso. E che un bambino di Martinelle sia diventato "schechè" (balbuziente) in seguito ad una ceffata appioppatagli per averla fatta inciampare nell'ombrello. E che i pesci non abbocchino all'amo manco a scongiurarli, se lei domanda, ruvida e curiosa: "Cossa se pesca, ancùo, de bon?" (Cosa si pesca oggi di buono?)...
Se ne dicono tante, insomma, sulla vedova Zanetti. Ma all'ombra di quel pugno di case sparpagliate tra l'Adige e il canal Gorzone, di qualcosa e di qualcuno bisogna pur parlare; ed è meglio inventare nessi fantasiosi tra una scalogna e una vecchia grifagna, che interrogarsi sul destino di quei ragazzi partiti per la Russia e mai tornati...
"Pregavamo, sì", conferma la Brunetta.
"Non andiamo certo in chiesa per far ciàcole (chiacchiere)", precisa la Biondina.
"Brave, brave le mie putine! E adesso andate dritte a casa, ad aiutare le vostre povere mamme che hanno sempre tanto da fare; e non state a guardare i giovanotti, ché siete ancora piccinine, e non parlate di frivolezze, perché con acqua e ciacole non se impasta fritole!"
"Con acqua e chiacchiere non si impastano frittelle!" ride la Biondina, "Bello questo proverbio; non l'avevo mai sentito".
"Eh, ghe ne so, ghe ne so!" s'inorgoglisce la Zanetti, "In tutti questi anni, la vita mi avrà pure insegnato qualcosa. E adesso andate a casa, belle putine, con la benedission di Dio, de la Madona, e la mia: che a paragon con le grassie dei Santi val quanto il due di coppe quando briscola è spade, ma comunque è sempre meglio di un mostacciòn (sberla) sul naso".
Le due accennano una sorta di goffa riverenza e salutano rispettosamente; sanno dove abita la vedova, e a passo svelto si incamminano nella direzione opposta.
 
 
Eccole, adesso, camminare su e giù lungo la passerella gettata sul canal Gorzone, la Brunetta e la Biondina. Una abita di qua e l'altra di là di quella striscia d'acqua che distribuisce nella campagna la prodigalità dell'Adige, su fino a Chioggia: lì si mescola col Brenta e col Bacchiglione, per poi concludere la corsa nel mar Adriatico.
Parlottano della scuola, della Nuccia che si è presa i pidocchi e l'hanno dovuta rapare, della poesia lunga come una quaresima che la maestra esige si mandi a memoria ("È tutta matta, quella là!"), della santa processione che avrà luogo fra tre giorni ("Tua mamma ha dovuto allungartelo, il vestito della Prima Comunione? La mia sì: dice che se continuo a crescere in questa maniera, diventerò una cavallona!", "La mia l'ha solo lavato e stirato. Dall'anno scorso non sono cresciuta neanche di un centimetro. In famiglia sono sicuri che resterò piccola"); a un certo punto la Biondina domanda all'amica: "Tu la conosci, la storia del Garzone del Mugnaio?"
La Brunetta increspa la fronte: "Quale mugnaio? Quale garzone? Il Girolamo? O il Pasquale? O quello coi brufoloni sulla faccia?"
"Ma no!" trionfa la Biondina, che vuole pareggiare lo smacco per non essere cresciuta quanto la compagna, "La mia è una storia antica! Me l'ha raccontata il nonno. Possibile che tu non ne abbia mai sentito parlare?"
"Parlare di chi? Del garzone di un mugnaio? Eh, capirai! Si trattasse del figlio di un re... beh, allora..."
"Guarda che è una storia di paura", precisa, secca e tagliente, la Biondina.
"E dove è successa? Qui? Nel nostro paese?"
"Sì. Ma tanti anni fa, prima ancora che il nonno nascesse. Te l'ho detto, che è una storia antica".
"Comincia a raccontarmela. Così vedo se la so", replica la Brunetta.
"D'accordo. C'era una volta un mugnaio che..."
"C'era una volta?! Se inizia in questo modo, è una favola e non una storia vera!" sghignazza la Brunetta, saltellando sulla passerella che cigola, scricchiola e mugugna ad ogni colpo.
"Quanto sei antipatica! Basta, ti saluto, me ne vado a casa. E non sperare che ti suggerisca, se domani la maestra t'interroga sulle tabelline. Hai capito? Non ci sperare!"
La Biondina vorrebbe scappare via, ma l'altra ha gambe più lunghe e troppa voglia di sapere quella storia di paura.
"Dai, facciamo pace".
"No".
"Neanche se ti chiedo scusa?"
"No".
"Neanche se ti do una spinta, tu cadi in acqua e io mi annego per salvarti?"
Alla Biondina scappa da ridere e la pace è fatta.
"Allora stammi a sentire. Tanto tempo fa un mugnaio aveva il mulino su una sponda dell'Adige, e su un ponte di legno molto più forte e robusto di questo, il garzone portava avanti e indietro sacchi di frumento e sacchi di farina. La sai?"
"Ehm, mi pare di no. Vai avanti", dice la Brunetta.
"Insomma, per mesi e anni il garzone porta sulla schiena sacchi pesantissimi, con la pioggia, col vento, col sole a candelone sulla testa, e fatica, fatica dalla mattina alla sera, e non succede mai nulla di strano o di interessante. Non incontra lupi, draghi, figlie di re, né diavoli né serpenti. E questo lo dico per farti capire che non è una favola, zuccona che non sei altro! Ma un pomeriggio gli sembra di scorgere, tra le canne, un uomo disteso. "Sarà un ubriacone che si sta smaltendo la sbronza!" pensa, e non si prende la briga di andare a vedere. Porta al mugnaio il sacco di frumento, si carica sulle spalle il sacco di farina e ripercorre il ponte. Cerca con lo sguardo il punto di prima, e vede che l'uomo si è messo con le spalle appoggiate a un albero di sambuco. Strizza gli occhi e si accorge che il poveretto ha la camicia rossa, ma così rossa..."
"Era per caso uno dei Garibaldini?" la interrompe la Brunetta, che a detta della classe è forte in storia.
"Macché Garibaldi! Macché camicia rossa dei Mille! Era sangue, macaca! Sangue, sangue! Quel poveretto stava morendo per chissà quale ferita e di sicuro non era un soldato, ma un nobiluomo, a giudicare dagli abiti che indossava e dal contenuto delle sue tasche..."
"Che cosa aveva in tasca?"
"Abbi pazienza e lo scoprirai", prosegue, indispettita, la Biondina. "Il garzone posa per terra il sacco e si avvicina all'uomo ferito. "Aiuto, aiuto..." lo sente mormorare. "Conciato com'è, gli resta poco da vivere", dice fra sé. Certo, potrebbe caricarselo sulle spalle e, ripercorrendo il ponte, affidarlo alle cure del mugnaio, che di medicina un po' ne capisce. Ma questo significherebbe lasciare il carico incustodito, e con la brutta gente che c'è in giro... Fa spallucce: "Tanto, a questo qui gli resta ben poco da vivere; e se mi rubano il sacco chi mi salverà dalle bastonate del mio padrone?". Così gira le spalle al moribondo e riprende a fare il suo lavoro come se niente fosse. Consegnata la farina, si mette sulla groppa un bel carico di frumento, e ripassa dal punto dove aveva lasciato l'uomo ferito. Si immagina di vederlo bello e morto; invece no: "Aiuto, aiuto..." lo sente invocare un'altra volta. "Amico mio, ho la schiena a pezzi e sono stanco morto. Se ti prendo in braccio e ti porto dal mugnaio, faccio una fatica boia e c'è pure il rischio che mi rubino il sacco e il mugnaio mi accoppi di botte. Perché non chiudi gli occhi e muori in santa pace, senza far perdere tempo a nessuno?" Quello reclina la testa e pare stecchito. Il garzone ripiglia il sacco, attraversa un'altra volta il ponte e torna dal mugnaio. Che bellezza! Non c'è più nient'altro da trascinare avanti e indietro! La giornata di lavoro è finita; il garzone si beve un bicchiere di vino, si spazzola alla meglio la giacchetta, si sciacqua il viso e, fischiettando, riattraversa il ponte. La tentazione di dare un'occhiata al morto però è irresistibile; difatti il morto è ancora lì, mica si è alzato e se ne è andato via sulle sue gambe. Allora il garzone gli si inginocchia davanti, gli tasta il collo per vedere se il sangue gli è uscito tutto oppure gliene circola ancora, gli apre gli occhi e ci soffia dentro per capire se è crepato sul serio o sta solo dormendo della grossa, e poi... e poi..."
"E poi cosa?" domanda la Brunetta, in un filo di voce.
"E poi gli fruga nelle tasche! Ecco cosa fa, quel briccone! Gli fruga nelle tasche e non smette finché non trova una moneta d'oro zecchino. La guarda per dritto e per rovescio, la saggia coi denti, la lustra con la manica e se la mette in scarsella. Si allontana di qualche passo, poi si ferma. Si guarda intorno: nessuno. Sollevato, ricomincia a camminare; ma subito si ferma un'altra volta. Eh, no! Mica può tornare a casa come se niente fosse. Poniamo che incontri qualcuno, e che quel qualcuno si accorga del morto e chiami le guardie: tutti penserebbero che è stato lui ad accoppare il nobiluomo, e finirebbe in men che non si dica in galera, con la palla di piombo al piede! Eh no, troppo rischioso. Pensa che ti pensa, decide di tornare, gridando, facendo gesti e voci, sino dal mugnaio, fingendo di essersi accorto solo allora di quel cadavere insanguinato; di mostrarsi pieno di spavento e di sincera disperazione per quel poveraccio coperto di sangue dalla testa ai piedi. E difatti comincia a correre, a gridare come un matto, le mani tra i capelli e gli occhi fuori dalle orbite, per rendere più credibile la commedia. Ed è proprio a metà del ponte, quando..."
"Quando?" incalza la Brunetta.
"Quando il ponte, che aveva sostenuto il peso di carri, carretti, cavalli, muli, somari, braccianti, garzoni piegati a metà dal peso di sacchi giganteschi, quel ponte, insomma, mille volte più forte e robusto di questo, il ponte... paf! Si apre in due: giusto sotto i piedi del garzone. Si apre in due e poi gli crolla tutto addosso. Il garzone scompare nell'Adige e il suo corpo non verrà mai più ritrovato".
"Ben gli sta! Ladrone! Carogna! Senzadìo!" s'infiamma la Brunetta.
"E allora, la conoscevi sì o no questa storia?"
"Mah. Forse... beh, magari per sentito dire... certo, non tutta come me l'hai raccontata tu, ma qualcosa..."
"Ah sì? E che cosa insegna questa vicenda? Qual è la morale?"
"Morale? Morale? Che i ponti, prima o poi, sono destinati a crollare? Che pesa di più un soldo rubato che cento sacchi di farina?"
La Biondina scuote la testa, poi dice: "Questa storia ci fa capire che i peccatori vanno dritti all'inferno. Perché il demonio ha la manina svelta: acchiappa il cattivo per il piede e via!, se lo porta nel cuore della terra. E se lo mangia!"
La Brunetta è rimasta a bocca aperta. Impietrita.
"Paura, eh?" la stuzzica la Biondina.
"No".
"E allora, cosa c'è?"
"Niente".
"Io dico che hai paura".
"Figurarsi! Andiamo a casa?"
"A casa? Non è presto? Altre volte stiamo qui per intere mezz'ore".
La Brunetta è in difficoltà. "Sì, ma se mi ripasso le tabelline..." abbozza, cercando di apparire convincente.
"Come vuoi. Vorrà dire che il finale della storia te lo racconterò un'altra volta".
"Quale finale? Perché, c'è dell'altro?" balbetta, curvandosi verso l'amica paffutella.
"Uh, hai voglia! Mi ero dimenticata di dirti che il demonio, dopo essersi pappato il cattivone, sputa gli ossi e le altre cose dure".
"Cose dure?"
"Proprio così. Un esempio di cosa dura è una moneta, se proprio vuoi saperlo. Il demonio si digerì il garzone ma si cavò di bocca la moneta e con un lancio la ributtò nel fiume".
"Ma dai!"
"Sissignora! La ributtò nel fiume e mio nonno, quand'era ragazzo e nuotava come un pesce nell'Adige, vide sul fondo qualcosa che luccicava. Andò a prenderla. Era proprio la moneta di quel garzone ladro e senzadìo!"
La Brunetta è gialla d'invidia. "Vado a casa. E domani ricordati di confessarti, bugiardona che non sei altro. Amica falsa e ciacolona!"
La Biondina sorride esultante. "Va bene. Domani te la porto, quella moneta".
La Brunetta corre via, tappandosi le orecchie, sgraziata sulle gambe troppo lunghe. E l'altra, con le mani a imbuto sulla bocca, ripete:"Te la porto! Te la porto! Hai capito?"
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