Autori contemporanei
affermati, emergenti ed esordienti

Federico Bianchessi Taccioli

Con questo racconto ha vinto il primo premio del concorso Città di Melegnano 1998 sezione narrativa

 
 
Le muse
 
Alle nove del mattino. Dal molo fino al piazzale il porto bolle nel fetore. Il puzzo viscido del pesce in putrefazione vapora con il caldo, penetra nelle case, filtra attraverso la barriera delle imposte e delle tende, tutte chiuse, tutte abbassate, ma con cento occhi nascosti dietro, s'impasta ai muri, agli oggetti, agli abiti, ai corpi, impregna ogni angolo, ogni respiro e ogni pensiero. Quintali di triglie, di sgombri, di piccoli tonni, di merluzzi, di sarde, di orate, di naselli, marciscono nell'afa di luglio sparsi sull'asfalto, davanti allo scarico merci e alla guardia costiera. A palate, a mucchi, lungo le banchine e sulle aiuole con gli oleandri e il monumento ai Caduti del mare. Un tappeto umido e scintillante al sole, mobile di carni nere e bianche, fremente di bagliori bluastri, argentei e rosa. Qua e là, bruno violacei grovigli di polpi s'attorcigliano come escrementi di un mostro. Razze, simili ad aquiloni precipitati sull'asfalto. Ostinate anguille ancora capaci di muoversi mentre vengono scarnificate dai gabbiani, calati a banchetto, a centinaia, urlando come prefiche a un funerale. Di un'enorme ricciola restano soltanto la struttura spinale, le pinne spalancate come un ventaglio di cartone grigio e la smorfia d'orrore. Un cumulo di squaletti scompare sotto una battaglia di becchi. Accanto, tre gatti si azzuffano con furia su una collina di seppie. Nuvole di mosche e tafani dappertutto. Nessuno osa avvicinarsi. Nessuno tranne Dimitri. Il vecchio ci cammina in mezzo, a passi lenti, le spalle curve, la testa storta avvitata sul collo tozzo, il cappello calcato con determinazione e nel pugno il bastone con il pomo d'avorio a forma di pinna. Si tira dietro per mano una ragazza scurissima e sottile, i capelli raccolti, una tunica corta di seta grigia. Il pomo bianco e la candida camicia dell'uomo di neve su un grumo di lava: neri il cappello, la giacca, i calzoni, il panciotto. Tinti di pece i baffi, i capelli, le sopracciglia, di cuoio bruciato la pelle. Solo lo sguardo il Russo non s'è potuto annerire, rimasto d'un celeste slavo. Dimitri il Russo. Un vecchio senza età approdato dieci anni prima tra i disperati, chiuso in un campo di clandestini, russo, ma forse ucraino, serbo, albanese o chissà di quale razza in fuga. Scomparso dalla nave che lo doveva rimpatriare. E rieccolo dieci mesi dopo con passaporto e visti in regola, professione armatore, padrone - almeno di nome - d'un tesoro procurato per chissà quali vie e nascosto in chissà quale forziere. Dimitri il Russo. Subito un boss. Pezzo dopo pezzo, in pochi anni, tutto ciò che in paese aveva a che fare con il mare, dal cantiere alle reti da pesca, dal circolo nautico all'assicurazione marittima, era finito nelle sue mani. Ora si aggira tra lo sfacelo di quel pesce e pare un corvo o piuttosto un insetto, un enorme moscone, davanti al quale le mosche sembrano scostarsi, gli cedono il passo, ronzando nel loro linguaggio un confuso «Baciamo le mani». Sono sue le barche che dondolano in fila nel porto, appese al soffitto indaco del cielo come lampioni colorati. Calliope, Melpomene, Tersicore, Urania, Clio, Euterpe, Talia, Erato, Polimnia. Le nove Muse. Sue le gru, il magazzino, il negozio del pesce all'angolo, con la saracinesca abbassata. E suo quel frutto d'una notte di lavoro delle Muse che va in malora. Il Russo assume i suoi pescatori solo tra stranieri, naufraghi dell'esistenza com'era stato lui, nessuno che sputi una parola di una lingua diversa dall'indecifrabile arabo che lui usa con la ciurma. Sono suoi, in tutto. Incluse le donne, anche quelle importate da lui, da un'altra terra, con un'altra lingua non meno incomprensibile, donne a poco prezzo, i marinai se le passano, solo tra loro, come ogni cosa, come solo tra loro trascorrono ogni istante della vita. Hanno tirato su un villaggio separato, fuori dal paese, in una piccola cala. Un villino, dove vive Dimitri. Tre casupole tinteggiate di calce e una decina di container, un baracchino attorno al quale si riuniscono a bere tè di menta, una roulotte che è l'ufficio dell'amministratore, il rimorchio di un camion che è la moschea. In paese non si vedono mai, se non all'alba quando scaricano il pesce. I carabinieri li passano regolarmente al setaccio. All'inizio, ne hanno portati via due o tre perché tenevano hascisc nel materasso. Da allora, tutto fila liscio. Più che liscio. All'isola ogni approdo di clandestini è cessato completamente. Stella, l'ultima prostituta del paese se n'è andata, dicono al nord. Non più una violenza, un furto, né un mendicante. Ed è stato risolto anche il problema dei pescatori locali. Pescatori, per la verità, non ce n'erano più da tempo. Ma quando si vide che i pescherecci del Russo tornavano carichi e lui si arricchiva, allora tra i giovani disoccupati riemerse l'antica vocazione. Scoppiò una rissa. I locali ebbero la peggio. Uno venne ferito da una bottigliata. Intervenne Dimitri e concluse un accordo con gli improvvisati sindacalisti. Si costituirono due cooperative, una dei pescatori immigrati e l'altra con i locali, fornita a sua volte di nove pescherecci, affittati da Dimitri stesso e battezzati con i nomi delle Pieridi, mitologiche rivali delle Muse: Colimba, Iunce, Cencride, Cissa, Cloride, Acalantide, Nessa, Pipo e Dracontide. Le due flottiglie pescano in concorrenza, ma il pesce delle Pieridi se lo compera tutto il padrone delle Muse. Stranieri e indigeni tra loro non si incontrano e non si parlano mai. «Ognuno a casa sua. Eviteremo litigi e contese», aveva voluto il boss. Era sembrata a tutti una saggia pretesa. E così era stato.
«Mai visto il paese tanto tranquillo», ripete da mesi, incredulo, il maresciallo Felice Diamante. Quasi un ritornello.
«E allora, maresciallo, cos'è quel disastro?», Elio, il barista, gli porge il caffè e racconta: «Stavo aprendo. I pescatori sono arrivati in porto e hanno cominciato a rovesciare il pesce per terra. Tutto. Forse per un'ora. Lei sa perché, maresciallo?».
«Sono stato al porto, ma chi ci capisce niente di quel che dicono? O se ne stanno muti o ti urlano in arabo. Ho fatto venire io Dimitri. Ora sentiamo».
«È chiaro, è una rivolta, - dichiara Tano, il barbiere. - I turchi sono stufi del Russo».
Mimmo Paglia, maestro elementare e direttore del settimanale locale, tuffa la brioche nella granita di caffè e scuote la testa.
«Macché, - arrotonda con un sorriso di compatimento, - macché».
«Macché, cosa?», si irrita subito Elio.
«Macché. È stato lui, Dimitri. Non leggete i giornali? Il prezzo crolla e lui distrugge il pesce».
La tesi convince anche il caporedattore del quotidiano della provincia. Dal telefono del bar Paglia annuncia la rivolta degli imprenditori locali contro i boss del pesce e spunta un servizio di trenta righe. Proprio allora, sulla soglia del bar si affaccia lui, il presunto imprenditore ribelle. Rimane un istante lì, fermo, ancora più nero in controluce, appoggiato al bastone.
«Maresciallo, a sua disposizione». Poi sposta lo sguardo sul maestro.
«Dottor Paglia, posso disturbarla?».
«Si figuri, - arrossì l'interpellato, compiaciuto. - Ho appena parlato con il giornale... interesserebbe molto una sua intervista... gliela posso chiedere? Mi farebbe tanto onore?».
«Prima però sono io che la vorrei intervistare un momento, qua sulla piazza. Se il maresciallo acconsente, in sua presenza».
Il maestro fa un mezzo inchino e si avvia verso l'ombra nera sulla porta, seguito da Diamante. L'odore di pesce che emana da Dimitri lo colpisce con un'impressione di disagio, come se si trattasse della rivelazione intima d'una qualità morale della quale soltanto lui, in quell'istante, si sia reso conto. I tre camminano insieme verso il monumento, dove attende la ragazza, al margine dell'inopinata discarica ittica. Accanto a lei, si materializza l'amministratore di Dimitri, il suo braccio destro, una truce faccia da corsaro saraceno: la testa calva con una cicatrice a mezzaluna, un rubino a un orecchio, baffi arricciati, occhi come due tazze di caffè. Porge al suo capo una cartella di stoffa, lurida e sdrucita. Dimitri tira fuori un quaderno giallo, mezzo strappato.
«Gredi, - mormora, voltandosi verso la ragazza. È la prima volta che ne pronuncia in pubblica il nome. - È il tuo maestro, non è vero?», le domanda. La ragazza abbassa gli occhi. Non risponde.
«Maestro, ha dato lezioni d'italiano a questa donna?».
Paglia alza le spalle: «Do lezioni private tutti i giorni a casa mia o a cada dei miei allievi, al pomeriggio, finita la scuola...».
«E ha dato lezioni a questa ragazza?».
Il maestro cerca invano un aiuto nello sguardo di lei, sempre a capo chino. «Un po' di grammatica, qualche vocabolo...».
«Maestro, non prendiamoci in giro. Lei dà lezioni di italiano a Gredi da almeno due mesi, due o tre volta la settimana. A casa mia, quando non ci sono. O alla sua scuola. E anche per telefono».
Il maestro immagina una questione di gelosia: «Sono un professionista. E un gentiluomo. - Il tono della voce sale di qualche croma. - Sì, la signorina mi ha chiesto delle lezioni. Mi ha regolarmente pagato e posso mostrarle le ricevute; non nascondo nulla. Non deve pensare a qualcosa di... sono sposato».
«Mi fraintende. Se erano corna, forse la perdonavo. Quel che ha fatto è molto peggio. Lei l'ha violentata. Me l'ha stuprata».
«Ma cosa dice?» Paglia s'imporpora.
«Era una ragazza dolce e pulita. E docile come una capretta; Gredi significa capra, in arabo. Non è un insulto. Lei mi ama, lei mi saluta, lei mi ascolta e mi obbedisce, parla e canta nella sola lingua che conosce e che deve conoscere qui. L'italiano Gredi non doveva nemmeno sapere cosa fosse. Lei lecca il sale dalla mia mano. Me l'ha drogata, maestro... non mi sembra nemmeno più la stessa donna». E pare quasi sul punto di piangere.
«Andiamo...». Il maestro tenta di arginare il crescendo emotivo.
«È diventata una stupida che va in giro a chiacchierare, fa telefonate, s'impiccia con gente... ma è inutile, lei maestro non mi capisce, parliamo lingue diverse, per l'appunto, e così dev'essere. Non pretendo che capisca la mia, lei non pretenda di darci lezioni della sua. Ma non basta. C'è ancora qualcosa di peggio di quel che lei ha fatto a Gredi. Qui, maresciallo, mi vogliono liquidare. Il sindaco, il parroco, il maestro qui presente, altri... vogliono distruggere me e quel che ho creato in questo paese. M'hanno tirato un pesce in faccia grosso così. Un avvertimento? Bene, ecco: io quel pesce in faccia glielo restituisco». Indica l'ammasso fetido lì attorno. Il Saraceno gli porge un pacco di fogli.
«Veda di spiegarsi chiaramente». Il maresciallo Diamante cola sudore e sbalordimento. E prima di lasciarlo parlare annuncia a Dimitri che tutto il pesce scaricato sulla piazza è sotto sequestro. Gli elenca i reati, la lordura di suolo pubblico, l'intralcio alla circolazione, il rischio per la salute pubblica. Il magistrato lo convocherà. «Pagherò quel che dovrò pagare, non dubiti».
«Queste carte. Cosa sono?», domanda il carabiniere.
«Paglia, lo dica lei al maresciallo. Li riconosce? Ne ho trovati sei di questi, sulle barche e nelle stanze dei miei pescatori. Sono suoi?». Il capo delle Muse mostra i fogli al maestro.
«Sono dispense. Le lezioni della signorina. Sì, li ho dettati io... ma la signorina non è una capra, Dimitri...». La voce di Paglia scivola nel falsetto che tradisce l'acme del suo imbarazzo.
«E queste? - Dimitri tira fuori dalla borsa altri rotoli di pagine stampate, con fotografie, disegni e testi didattici. - Cosa sono?».
«Sono testi in italiano per stranieri. La signorina me ne ha chieste venti copie, con le cassette».
«Venti? Quali cassette?».
«Nastri. Dialoghi, esercizi di conversazione». C'è dell'orgoglio ora, nell'atteggiamento di Paglia.
Dimitri brontola con l'amministratore: ci sono solo sei dispense. Il Saraceno fa avvicinare un gruppo di pescatori. Parlano fitto tra loro, finché Dimitri li interrompe tutti, grida, un urlo disumano, ripetuto sempre più forte. I pescatori arretrano, ammutoliti. Un giovane capobarca viene spedito di corsa verso il molo dove attraccano i pescherecci. L'amministratore trema, di rabbia e di paura, si sforza invano di calmare il padrone.
Il Russo riattacca: «È la prova, maresciallo? Io denuncio un piano per rovinarmi. Per portarmi via la gente. E arruolare la loro nuova malavita. Io e lei, qui, difendiamo la legge. L'ordine. Lei lo sa. Diamo fastidio. Perciò vogliono farci fuori. Lei, maestro, l'hanno usata come un killer. So tutto: facevano scuola sulle mie barche. C'è salito anche lei, gli emissari del prete, don Tino, che ce l'ha tanto con i miei musulmani, e un uomo del Comune, pagato dal sindaco... alle mie spalle. Dimitri ha un decalogo e il primo comandamento è che io sono il capo, il secondo è che i miei uomini e le mie donne non sanno e non devono sapere la lingua di qui. Li sorveglio. E allora qualcuno li corrompe di nascosto. Con le grammatiche clandestine, con la scuola sulle barche, mentre li credo là fuori, in mare, a pescare».
«Via, Dimitri, cos'ha da temere? Buttare via tutto questo pesce così splendido... - Il maresciallo fa un gesto di rammarico verso quel bendidio così sprecato. - E poi, la signorina... così intelligente».
«Maresciallo, m'intenda. Lo so che Gredi non è una capra. È una ragazza più che intelligente. ma questa roba ne ha fatta una bestia. Le ha guastato il cervello e l'anima. E questi uomini crepavano di fame. Non sono venuti qui per andare a scuola, ma per lavorare. Pescano la notte, dormono e fanno altri lavori durante il giorno, nel villaggio, mangiano il loro cuscus con il pesce, pregano, e la giornata finisce. Studiano. Il mare, il pesce, le rotte. Ma l'italiano no, non devono studiarlo. Queste dispense sono peggio di un giornale pornografico: sono il manuale dei mafiosi».
Paglia non cede: «Insomma, è l'italiano che fa i mafiosi?».
«Con l'italiano i pescatori diventano banditi e le donne puttane. Con l'italiano vogliono soldi, sempre più soldi, si credono padroni, non vogliono più pescare, vogliono la moda, le cose della televisione. Pensate di farne dei professori? Quelli diventano ladri e assassini. Vi ricordate quando non c'ero io, qui? Quando comandava il Pisano, don Calogero e gli altri della società? La vostra scuola clandestina serve a far tornare tutto indietro, con nuovi criminali a prostituire le donne e a sparare ai cittadini. E allora sappiatelo: oggi butto via il pesce, domani vendo le barche ai giapponesi. Me le hanno già chieste. E allora vendo e me ne vado. E saranno guai vostri. Maresciallo, lo dica lei. Meglio cinquanta pescatori che parlano il loro arabo o cinquanta mafiosi che recitano la Divina Commedia?».
«Chissà... forse ha ragione. Tuttavia...». Il maresciallo è sempre più perplesso. Lo avvicina un collega più giovane, arrivato in moto.
Sopraggiunge anche il capobarca. È un torello ricciuto, sui vent'anni, con una cicatrice sul collo e muscoli da lottatore. Consegna al capo le cassette trovate a bordo dei pescherecci e un registratore a pile. Dimitri strappa i nastri e sbatte a terra l'apparecchio, calciandolo via in mezzo al pesce. Poi all'improvviso gli domanda: «Che ora sono, Ibrahim?». E quando il ragazzo sbircia l'orologio da polso (privilegio del capobarca) Dimitri lo afferra per i capelli e comincia a schiaffeggiarlo. Quattro manrovesci. Il torello non reagisce. Dimitri lo colpisce ancora fino a fargli piegare le ginocchia a terra. «Traditore, - urla in italiano. - Avete fatto la vostra scuola anche a lui, vero signor maestro?».
Paglia arroca il suo falsetto: «Tu, tu sei il mafioso. Il Pisano metteva i sassi in bocca ai morti, tu li metti ai vivi».
«I sassi in bocca li state mettendo a voi stessi - grida Dimitri - e ai vostri figli. E i sassi sono le vostre belle parole italiane».
Mentre Dimitri parla, Gredi si china sul capobarca, gli accarezza i capelli e l'aiuta ad alzarsi. Lo abbraccia. Dimitri impietrisce.
«Puttana - sibila. - Da oggi te ne vai a dormire nei container, con i pescatori. Tutti. Ma non con lui. Lui lo rispedisco da dove viene. Ecco, voi professori. Ne avete fatto una puttana. Congratulazioni, - urla di nuovo. - A questo serve il vostro italiano. E tu, povero stronzo, torni alle capre del Caucaso».
Il marinaio si è staccato da Gredi, che gli resta accanto. Guarda in basso, il pesce. Gli sanguina un labbro e una mano gli trema. Pare vinto, un pesce morto anche lui. Ma qualcosa gli si accende dentro, d'un lampo. La testa si alza sul collo come un girasole sullo stelo quando la luce irrompe dal cielo. Ficca gli occhi in faccia al Russo. «No, Dimitri. Lo stronzo è tu». Dice così: "è tu". Dimitri è come gli avesse infilato un coltello nella pancia, ma lui al volo si rende conto dell'errore del suo turco e sceglie di approfittarne. Lo colpisce con sarcasmo: «Oh, che bravo scolaro. Davvero un bell'italiano! E bravo anche il maestro», ghigna.
Ma Ibrahim non si lascia intimidire, fa un passo di lato e si rivolge ai pescatori: «Io non sono bestia. Io uomo e uomo parlare lingue. Lingua è lavorare, lingua è vivere. Italia vengo, parlare e guadagnare mia vita, mio paese, aiutare».
Gli viene meno il fiato. Il maestro lo squadra e sorride: «Sì, bravo Ibrahim, è un bell'italiano il tuo, perché parli da uomo».
Dimitri, sferra un calcio a un tonno e si allontana. Dà un ordine, i pescatori cominciano a pulire la piazza. «A disposizione, maresciallo». Se ne va con l'amministratore, entra nel bar e in silenzio, uno dopo l'altro, vuota sei bicchierini di vodka.
La voce di Ibrahim riprende: «Imparate le parole, voi. Non capre, Gredi. Imparate... io ama, io lavora, io vadi, io conosce, io mangi, io beva, io ha, io sono. Mafia è ignorantsia, vuole noi muti, sordi, animale, non capire, vuole noi... gredi... capre». Gredi accarezza con tenerezza il collo forte del ragazzo e gli si stringe al fianco. Il maestro corre a prendere la macchina, dietro al bar. Torna e spalanca la portiera arrugginita: «Coraggio. Salite, voi due. Vi porto io dove potrete stare tranquilli per un po'. Poi faremo insieme una nuova scuola...».
«Sì, io sono... e io... io è uomo», conclude Ibrahim. Grida ai compagni, ma gli voltano le spalle. S'infila in macchina con Gredi.
Accelerata. Il carabiniere più giovane intima l'alt.
«Ma no». Il maresciallo fa segno a Paglia di partire.
«Non ha visto? - insiste il brigadiere. - Ha tutte le luci rotte».
«Se a santa Lucia piace questo viaggio, non saremo proprio noi a fermarli», risponde Diamante. E porta la mano alla visiera per salutare. L'auto parte. La marmitta spara come un mitra.
 

 

Classifica Concorso Città di Melegnano 1998 sezione narrativa
 
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inserito il 24novembre 1998