Autori contemporanei
affermati, emergenti ed esordienti

Fabrizio Squillace
 
Con questo racconto ha vinto il secondo premio del concorso Vittorio Tolasi 2000, sezione nerrativa
 
31
 
Il ruvido volto di un uomo asiatico spuntò all'improvviso dietro l'angolo, e lui si ritrasse di colpo, evitando uno scontro che sembrava già avvenuto. Sorrise, quel vecchietto dagli occhi tirati, e 31 lo ricambiò con un ghigno, proseguendo poi rapidamente verso il piazzale. La Stazione Tiburtina era in fiamme. Un giallastro acre e spezzante tingeva quei giorni di metà luglio ed anche il libero celeste della volta sovrastante sembrava prigioniero, in un'attesa spasmodica senza fine né senso. Come ogni mattina 31 si sciacquò le mani e la faccia con la tiepida acqua della fontanella, cercando un improbabile sollievo dalla canicola estiva. E subito dopo, con un gesto altrettanto consueto, arrotolò maldestramente fin sopra i gomiti le logore maniche della camicia, riflettendo intensamente sul da farsi; si guardò un po' attorno, cercando di scorgere qualche collega con cui parlare. Per la chiassosa comunità degli autisti di autobus romani era una figura a metà strada tra un guru e un cialtrone, con i suoi ventitré anni di servizio, di cui venti spesi a bordo sempre dello stesso autobus, quel 31 che ormai da tempo era diventato
anche il suo nomignolo. Era mutata ogni cosa in tutto quel tempo: il tragitto da effettuare, le vetuste vetture arancioni, i colori dei biglietti. Ma lui e il suo autobus erano una cosa sola, inscindibile, esattamente come Roma e l'eterna aria immobile.
Mancavano ormai cinque minuti alle undici, orario di inizio del suo turno, e così decise di incamminarsi a passo spedito verso la piattaforma a lui tanto familiare, quella banchina grigia dall'aria stanca e dalle pietre consumate.
Le persone riempivano i larghi marciapiedi, sudate e annoiate, aspettando con ansia l'arrivo del 73 per Largo Argentina o del 489 diretto a S. Silvestro, trepidando nell'attesa di scorgere dietro i pilastri della tangenziale la nota sagoma del 56, mentre dall'altro lato un folto e colorito gruppetto sognava i tratti amichevoli dell'80. In questo microcosmo numerale si avventurò 31, bighellonando intorno al cartellone pubblicitario posto di fianco alla banchina. Si accarezzava di continuo i lunghi capelli brizzolati, spingendoli dietro con la mano sinistra, mentre con la destra reggeva il giornale, gettando di tanto in tanto lo sguardo verso il ponte in vista dell'autobus, del suo autobus. Era ingrassato a dismisura negli ultimi sei mesi, e in quell'istante, osservandosi dall'alto, se né rese drammaticamente conto, anche se la cosa non lo turbò più di tanto. Finalmente giunse a tutta velocità, in ritardo di tre minuti, il suo fido compagno metallico, traboccante di gente e di cattivi odori. Il suo vecchio collega Paolo si alzò dall'appiccicoso sedile di pelle, mentre il nuovo cuore catalitico del 31 seguitava a rombare, sussurrando forse qualcosa a quell'uomo grassoccio che lo aspettava sull'asfalto bruciato.
"Non si può lavorare oggi. È un massacro" esclamò Paolo avvicinandosi al collega. Al contrario di 31 era uno smilzo signore sulla cinquantina, dai capelli totalmente bianchi e dai modi educati. Una vistosa cicatrice gli attraversava la fronte, creando delle pieghe bizzarre che aderivano perfettamente alle sopracciglia; la camicia era sbottonata per metà, in segno di protesta verso l'afa e chiunque ne fosse responsabile. 31 soffermò lo sguardo sull'informe groviglio di peli, senza fine né senso.
"Paolo, io vado. Ci vediamo dopo" disse alzando gli occhi.
Si arrampicò sull'autobus nuovamente colmo di anime, e dopo aver posato il giornale sullo sterminato cruscotto abbandonò le chiappe grassocce sul sedile sformato. Era tutto a posto, così come lo aveva lasciato il giorno prima.
Il volante morbidamente proteso verso di lui, le tante lancette pronte a sorridergli, l'imponente parabrezza a coccolarlo dolcemente. Era ora di andare. Spinse lentamente il bestione fuori dalla banchina, e il movimento gli apparve meno rude del solito, quasi sinuoso. Imboccò il ponte che portava sulla Tiburtina e si incanalò diligentemente sul romanzesco traffico dell'ora di punta, quando il movimento si annulla e gli dei dell'Olimpo precipitano sulla terra, assumendo le fattezze di un qualsiasi automobilista.
L'enorme orologio digitale si ergeva imponente sul fabbricato in lontananza, e informava tutti coloro che si immettevano sullo stradone lastricato che erano passati tredici minuti dopo le undici, mentre trentuno gradi centigradi anestetizzavano ogni parvenza di pensiero.
L'autobus si muoveva a passo d'uomo, costeggiando i pini del Verano, e 31 guardava dritto davanti a sé, lucido e impassibile, mentre pochi metri sotto di lui si consumava l'eterna sfida della strada e del suo popolo di congestionati. A poco a poco, metro dopo metro, la lunga fila si sbriciolò impietosamente, e l'autista di cui nessuno ricordava più il vero nome riuscì a far scendere i primi passeggeri, aspettando che altre facce salissero a bordo. Rinchiuse le porte e puntò deciso verso la fermata seguente, cercando ansiosamente con lo sguardo l'altissima insegna del Mc Donald, soffocando i suoi guai in quell'immagine familiare. Fiancheggiò il negozio di fiori del suo amico Nando, osservò con compiaciuta attenzione le mamme coi bambini dirette al parco, e le fermate si susseguirono rapide, sempre identiche, sempre nuove.
Come ogni mattina ripensò alla moglie che non aveva mai avuto, al figlio tanto desiderato, all'immagine di suo padre persa nella memoria troppo pigra. Teneva le mani ferme sullo sterzo, aggrappandosi a quel cerchio nero e sudaticcio con imponente dignità e quando qualcuno da dietro gli urlò di muoversi perché l'autobus stazionava già da un paio di minuti davanti alla fermata di Piazza Crivelli, 31 chiuse le tre porte e senza fare una piega ripartì spedito.
 

 

Classifica Concorso Vittorio Tolasi 2000 sez. narrativa
 
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inserito il 19 dicembre 2000