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- 31
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- Il ruvido volto di un uomo asiatico
spuntò all'improvviso dietro l'angolo, e lui si
ritrasse di colpo, evitando uno scontro che sembrava
già avvenuto. Sorrise, quel vecchietto dagli
occhi tirati, e 31 lo ricambiò con un ghigno,
proseguendo poi rapidamente verso il piazzale. La
Stazione Tiburtina era in fiamme. Un giallastro acre e
spezzante tingeva quei giorni di metà luglio ed
anche il libero celeste della volta sovrastante
sembrava prigioniero, in un'attesa spasmodica senza
fine né senso. Come ogni mattina 31 si
sciacquò le mani e la faccia con la tiepida
acqua della fontanella, cercando un improbabile
sollievo dalla canicola estiva. E subito dopo, con un
gesto altrettanto consueto, arrotolò
maldestramente fin sopra i gomiti le logore maniche
della camicia, riflettendo intensamente sul da farsi;
si guardò un po' attorno, cercando di scorgere
qualche collega con cui parlare. Per la chiassosa
comunità degli autisti di autobus romani era
una figura a metà strada tra un guru e un
cialtrone, con i suoi ventitré anni di
servizio, di cui venti spesi a bordo sempre dello
stesso autobus, quel 31 che ormai da tempo era
diventato
- anche il suo nomignolo. Era mutata ogni cosa in
tutto quel tempo: il tragitto da effettuare, le
vetuste vetture arancioni, i colori dei biglietti. Ma
lui e il suo autobus erano una cosa sola,
inscindibile, esattamente come Roma e l'eterna aria
immobile.
- Mancavano ormai cinque minuti alle undici,
orario di inizio del suo turno, e così decise
di incamminarsi a passo spedito verso la piattaforma a
lui tanto familiare, quella banchina grigia dall'aria
stanca e dalle pietre consumate.
- Le persone riempivano i larghi marciapiedi,
sudate e annoiate, aspettando con ansia l'arrivo del
73 per Largo Argentina o del 489 diretto a S.
Silvestro, trepidando nell'attesa di scorgere dietro i
pilastri della tangenziale la nota sagoma del 56,
mentre dall'altro lato un folto e colorito gruppetto
sognava i tratti amichevoli dell'80. In questo
microcosmo numerale si avventurò 31,
bighellonando intorno al cartellone pubblicitario
posto di fianco alla banchina. Si accarezzava di
continuo i lunghi capelli brizzolati, spingendoli
dietro con la mano sinistra, mentre con la destra
reggeva il giornale, gettando di tanto in tanto lo
sguardo verso il ponte in vista dell'autobus, del suo
autobus. Era ingrassato a dismisura negli ultimi sei
mesi, e in quell'istante, osservandosi dall'alto, se
né rese drammaticamente conto, anche se la cosa
non lo turbò più di tanto. Finalmente
giunse a tutta velocità, in ritardo di tre
minuti, il suo fido compagno metallico, traboccante di
gente e di cattivi odori. Il suo vecchio collega Paolo
si alzò dall'appiccicoso sedile di pelle,
mentre il nuovo cuore catalitico del 31 seguitava a
rombare, sussurrando forse qualcosa a quell'uomo
grassoccio che lo aspettava sull'asfalto
bruciato.
- "Non si può lavorare oggi. È un
massacro" esclamò Paolo avvicinandosi al
collega. Al contrario di 31 era uno smilzo signore
sulla cinquantina, dai capelli totalmente bianchi e
dai modi educati. Una vistosa cicatrice gli
attraversava la fronte, creando delle pieghe bizzarre
che aderivano perfettamente alle sopracciglia; la
camicia era sbottonata per metà, in segno di
protesta verso l'afa e chiunque ne fosse responsabile.
31 soffermò lo sguardo sull'informe groviglio
di peli, senza fine né senso.
- "Paolo, io vado. Ci vediamo dopo" disse
alzando gli occhi.
- Si arrampicò sull'autobus nuovamente
colmo di anime, e dopo aver posato il giornale sullo
sterminato cruscotto abbandonò le chiappe
grassocce sul sedile sformato. Era tutto a posto,
così come lo aveva lasciato il giorno
prima.
- Il volante morbidamente proteso verso di lui,
le tante lancette pronte a sorridergli, l'imponente
parabrezza a coccolarlo dolcemente. Era ora di andare.
Spinse lentamente il bestione fuori dalla banchina, e
il movimento gli apparve meno rude del solito, quasi
sinuoso. Imboccò il ponte che portava sulla
Tiburtina e si incanalò diligentemente sul
romanzesco traffico dell'ora di punta, quando il
movimento si annulla e gli dei dell'Olimpo precipitano
sulla terra, assumendo le fattezze di un qualsiasi
automobilista.
- L'enorme orologio digitale si ergeva imponente
sul fabbricato in lontananza, e informava tutti coloro
che si immettevano sullo stradone lastricato che erano
passati tredici minuti dopo le undici, mentre trentuno
gradi centigradi anestetizzavano ogni parvenza di
pensiero.
- L'autobus si muoveva a passo d'uomo,
costeggiando i pini del Verano, e 31 guardava dritto
davanti a sé, lucido e impassibile, mentre
pochi metri sotto di lui si consumava l'eterna sfida
della strada e del suo popolo di congestionati. A poco
a poco, metro dopo metro, la lunga fila si
sbriciolò impietosamente, e l'autista di cui
nessuno ricordava più il vero nome
riuscì a far scendere i primi passeggeri,
aspettando che altre facce salissero a bordo.
Rinchiuse le porte e puntò deciso verso la
fermata seguente, cercando ansiosamente con lo sguardo
l'altissima insegna del Mc Donald, soffocando i suoi
guai in quell'immagine familiare. Fiancheggiò
il negozio di fiori del suo amico Nando,
osservò con compiaciuta attenzione le mamme coi
bambini dirette al parco, e le fermate si susseguirono
rapide, sempre identiche, sempre nuove.
- Come ogni mattina ripensò alla moglie
che non aveva mai avuto, al figlio tanto desiderato,
all'immagine di suo padre persa nella memoria troppo
pigra. Teneva le mani ferme sullo sterzo,
aggrappandosi a quel cerchio nero e sudaticcio con
imponente dignità e quando qualcuno da dietro
gli urlò di muoversi perché l'autobus
stazionava già da un paio di minuti davanti
alla fermata di Piazza Crivelli, 31 chiuse le tre
porte e senza fare una piega ripartì
spedito.
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