Autori contemporanei
affermati, emergenti ed esordienti

Fabrizia Berlingieri

Con questo racconto ha vinto il quinto premio del concorso Club Poeti 2001-2002, sezione narrativa

Lo
 
L'orario si manteneva sempre più o meno costante, il rientro fissato alle 21.30 di ogni giorno, nessun contrattempo o deviazione sul tragitto per casa. Non aveva bisogno di aprirne la porta, nessuna chiave da ricercare disperatamente nell'approssimarsi al confine della sua dimensione familiare. La luce elettrica della sua stanza coincideva con quelle della città fuori, dall'unica finestra che dava su un retro del Rossio, cortile e quinta scenica di vite e angoli dimenticati, troppo difficili da incontrare. Un rettangolo mal definito era il suo palcoscenico quotidiano, l'ambito rientro e la sua consolazione solitaria, tale da non riconoscerne la voce. Un orologio a pendolo vecchio e scuro, in tinta con la carta da parati retrostante (appartenente al gusto del ridicolo fiorato di chissà quale vita svoltasi là dentro), un pavimento con un colore leggermente addormentato dalla quantità di polvere accumulatasi e un mobilio di spolio, corredavano il vuoto della sala. Lui, come unico elemento in moto della composizione, ne accentuava la fissità, invariata da diversi anni. Gettò sulla poltrona il suo salario quotidiano, pensando di perdersi nella conta delle monete solo più tardi, solo dopo aver adempiuto il suo più importante rituale diario, così lui lo definiva;
quindi si mosse lentamente, spogliandosi; e accese l'interruttore della debole luce al neon. Il pallido delle piastrelle rifletteva l'alone verdastro dello spettro visivo e cromatico che lentamente, acquistando forza, iniziava a definire i contorni di quello spazio. Lo specchio gli stava di fronte, troppo scontata e facile la sua posizione, che gli ricordava che era e chi o cosa appariva, che lo manteneva sempre aggiornato sui suoi mutamenti, trasformazioni lente e quasi invisibili. Quella sera, così calma e pacifica nella città, lo aveva ben disposto per uno studio accurato.
 
"Dove sono, dove sono andate a finire, solo un ammasso informe di carne e protuberanze che non posso controllare e che continuano senza pietà alcuna. Senza alcuna pietà guardati, guardati pure: cosa stai vedendo, cosa stai cercando di ricordare? Un uomo forse lo sarò stato pure, un tempo, prima di tutto questo cammino..." La bottiglia di vino riuscì a captare l'entrata della sua bocca per alleviarne la sofferenza, rise senza alcuna pietà verso se stesso, o verso lo specchio e iniziò la sua esplorazione.
Iniziò a toccare quella carne, a muoverla, a girarla, ad alzare meticolosamente ogni piega ed ogni superfetazione della pelle, per vedere se sotto era rimasto ancora qualcosa di riconoscibile. Proprio là, davanti alla sua immagine di animale mostruoso, indefinito e indefinibile per qualsiasi libro di medicina, abisso vuoto e abbandonato, figura inumana, inguardabile per paura, inavvicinabile e solitario nella sua quotidianità, continuò senza tregua, anzi con un ritmo leggermente accelerato dovuto alla curiosità quasi bestiale e infantile della voglia di sapere, di riconoscere la realtà delle cose e, soprattutto, la sua. Guardando con estrema attenzione poteva capire, dopo diversi tentativi, dove erano i pezzi della sua faccia e, insieme ad essi, quelli della sua vita perduta. Ad ogni organo o elemento che ritrovava, riscopriva un momento del suo passato, il momento esatto in cui avveniva la trasformazione, e riusciva a rivedere, quasi fosse reale, il suo volto originale, umano, a poco a poco, regredì fino al primo passo, fino all'inizio. Si osservò, sempre davanti a quello specchio, incredulo ed incapace di tanta memoria restò immobile, senza distogliere lo sguardo da quella apparizione,
come caduto in un sogno, per fissarne i caratteri. Il corpo, fatto d'immobile stanchezza, rimase bloccato nella squallida composizione della stanza, in un tortuoso equilibrio tra arti e pezzi di bianco sporco.
 
La luce di taglio incominciò a penetrare rapidamente nella città, all'interno di quelle strade sudice e degli spazi aperti e fin troppo abitati, attraversati in quella ora da fugaci sguardi fra vite che si riabituavano alla vista del loro ordinario percorso e quelle che lo conoscevano abbastanza bene per poter finalmente chiudere gli occhi. Radente alle facciate dei palazzi ne definiva perfettamente gli spigoli e ne moltiplicava, in un grafismo lirico, innumerevolmente le linee dei balconi, i vasi di fiori e panni stesi, le forme sinuose dei suoi lampioni come rami contorti di chissà quale pianta esotica. Bucava qua e là, infine, con un riflesso accecante quelle masse pesate e stanche già dal risveglio.
L'ingresso della luce diurna non modificò il carattere del salone, nel controluce i livelli visibili erano solo i contorni delle cose, mentre l'anima rimaneva in disparte, nelle zone d'ombra. Il neon del bagno, in lotta per prolungare quell'allucinazione notturna, dopo alcuni minuti ne uscì perdente, spenta dalla mano ancora salubre. Guardandosi indietro vide la bottiglia di vino e il suo liquido sparso sul pavimento, se lo ritrovò anche addosso, macchie e puzza, nulla cui non fosse già abituato. Si sedette sul divano ed iniziò a contare le monete, poi le depositò in un sacchetto di plastica e si alzò. Con lo sguardo si diresse verso la finestra, il corpo ne accompagnò il movimento, libero da impulsi nervosi. Il fluire delle vite, nel vicolo scuro coincideva con quello del sangue nelle sue vene, contaminato da realtà altre, esistenti o fantastiche. Proiettò se stesso nel vetro e in quello che scorreva al di là, confondendosi per non guardarsi. Poi, prese il sacco di plastica ed un cartello, sul quale aveva dichiarato al mondo la sua appartenenza al genere umano; socchiudendo la porta s'inoltrò nel vuoto interstiziale delle scale. Uscito alla luce sommessa del vicolo, riattaccò il cartello a quello che ancora riconosceva come il suo collo, dirigendosi verso il Rossio, per lavorare.

 Classifica Concorso Club poeti 2001-2002 sezione narrativa

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ins.3 maggio 2002