Autori contemporanei
affermati, emergenti ed esordienti

Emilio LaBianca
Con questo racconto ha vinto il dodicesimo premio all'edizione 2006 del Premio Marguerite Yourcenar.



«L'artigiano dei sogni»


Tutte le mattine percorrevo il viale che, tagliando in due partiquell'isola di verde, conduceva direttamente dalla stazione della Metropolitana al cuore pulsante della Città: un breve intervallo pieno di pensieri e riflessioni fra due caotici poli che non lasciavano alcuna possibilità di concentrazione.
Sarei rimasto in quella Città per due mesi, forse di più; questi erano i tempi d'impegno che il lavoro m'imponeva.
I primi giorni non lo notai, ero troppo attratto da tutto ciò che di quella città cadeva sotto il mio sguardo, ma ben presto la mia attenzione fu colpita da un uomo che, seduto su una panchina, scrutava con puntigliosa attenzione il cielo che ci sovrastava come se seguisse con sguardo attento il movimento di qualcosa che da lì attirava la sua curiosità.
Distrattamente o spinto da un riflesso condizionato anche io più di una volta avevo volto il mio sguardo in alto senza che riuscissi a scorgere nulla se non il cielo che in quel periodo appariva di solito sempre uguale: terso e spumeggiato qua e là da qualche bianca nuvola trasportata chissà dove da un vento leggero e fresco.
Il modo di scrutare il cielo da parte di quell'uomo appariva troppo razionale e preciso per poter essere concepito come una banale e casuale abitudine, lui doveva avere un obiettivo calcolato, profondo, preciso, non certo frutto di casualità. Alcune volte incrociavo il suo sguardo e proprio allora capivo di trovarmi davanti ad un essere perfettamente conscio delle sue azioni, anzi dotato, forse, di una non comune capacità intellettiva, non poteva certamente appartenere a quella categoria di persone la cui mente ha perso qualsiasi cognizione della realtà e vaga in un mondo tutto suo fra sogni ed incubi che nessuno può comprendere. Sicuramente al termine dei miei impegni sarei partito portando dentro di me quell'inquieta ed insoddisfatta curiosità, ma fu lui, proprio lui, un giorno, a cogliere il mio stato d'animo e ad offrirmi la possibilità di capire ciò che faceva. M'invitò a fermarmi un attimo e si dichiarò disponibile a raccontare tutto ciò che avrei voluto sapere se e quando avessi avuto del tempo per ascoltarlo. Non potevo perdere quell'occasione e così decisi di sacrificare alcune ore del tempo libero di una delle giornate non lavorative per conoscere quello che in quel momento mi appariva come un piccolo o grande segreto.
Ero finalmente seduto sulla panchina accanto a quell'uomo il quale mi chiese improvvisamente e senza alcun preambolo «Sogni mai? Sogni spesso? Che tipo di sogni fai?». Con un certo imbarazzo balbettai la prima cosa che mi venne in mente e lui prevedendo il mio disagio e la mia sorpresa continuò:
«Nulla è così concreto ed allo stesso tempo effimero e sfuggente come un sogno, lo puoi ricordare la mattina quando ti svegli, lo puoi percepire ma non concretizzare quando cerchi di capire cosa hai sognato, eppure i sogni occupano quasi la metà della nostra vita, perché dunque non renderli importanti, non immortalarli come facciamo per un viaggio, per un avvenimento attraverso le fotografie? Perché nessuno possiede un albo dei propri sogni? Sarebbe anche il mezzo per esorcizzare quelli che molti chiamano brutti sogni, altri incubi».
Non riuscivo a comprendere quale attinenza potevano avere i sogni con quello che io volevo sapere da quell'uomo.
«I sogni - proseguì - sono come quelle nuvole che sovrastano le nostre teste - in quel momento riconobbi lo stesso sguardo, gli stessi movimenti che ogni mattina attiravano la mia attenzione, e con l'indice puntato verso il cielo - individua una di quelle nuvole, guardala un attimo, chiudi gli occhi per qualche istante, riguardala nuovamente e dimmi se ti appare come prima».
Ebbi qualche esitazione nello scegliere una delle tante bianche e spumeggianti nuvole che sembravano rincorrersi nel cielo, chiusi gli occhi, li riaprii dopo alcuni istanti e con somma sorpresa stentai a ritrovarla subito, non era più come prima, qualche cosa era cambiato nel suo stato, nella sua forma, nella sua consistenza.
Notando la mia sorpresa accennò un sorriso e: «I sogni, anche se credi di ricordarli non hanno mai contorni netti e precisi, di loro ti sfuggono l'inizio, la fine, molte fasi intermedie, li puoi raccontare ma sempre in maniera incompleta, evanescente e quello che più turba è che dopo qualche ora, essi svaniscono del tutto dalla tua mente, di essi non ricordi più nulla, soprattutto di quelli più belli. Svaniscono e si disperdono proprio come quelle nuvole ». Non mi chiese più nulla e cominciò a raccontare la sua vita, la vita dei suoi sogni ma soprattutto dei sogni degli altri. Sin da piccolo era attirato da quel senso d'impalpabilità e d'evanescenza che caratterizza questo nostro misterioso fenomeno che è il sogno, già da piccolo aveva sempre provato tristezza, nostalgia, disillusione per la fragile esistenza di una storia, vissuta in prima persona, e mai percepita concretamente, difficile da raccontare, spesso anche da spiegare, e già da ragazzo si era sempre chiesto se anche gli altri provassero quello che provava lui. E così avvenne che a tutti gli amici, le amiche, i compagni di scuola che si avvicendarono nella sua giovanile esistenza cominciasse a chiedere, prima con una certa timidezza poi con più consumata audacia se la notte prima avessero sognato e cosa avevano sognato. Cominciò così a tentare in qualche modo di materializzare quei sogni: ogni sogno che gli veniva raccontato, per quanto rammentabile, lo traduceva in uno schizzo, in un disegno; lui possedeva una grande, precoce capacità rappresentativa. Di tutti questi disegni ne realizzava due copie, una la regalava al sognatore, una la teneva per sé e la riponeva in un album in una sorta di diario dei sogni; lo cominciarono a chiamare il ragazzo dei sogni. Nonostante gli sforzi ed i buoni risultati non era mai soddisfatto, tutto era troppo evanescente o troppo concreto, tutto era troppo dipendente o dalla sua soggettività o da quella della persona che raccontava il sogno, ma soprattutto non riusciva a rendere quel continuo evolversi e disgregarsi della forma del sogno, quell'impalpabilità che lo rendeva così diverso dalla realtà ed allo stesso tempo così vicino. Era troppo condizionato dalla materia con cui cercava di dare forma alla rappresentazione e soprattutto non sopportava la staticità e quel modo di fermare il sogno con una scena o una fase.
Era una giornata di primavera e girovagava solo, sempre in preda alla sua ossessione tra i baracconi di una piccola giostra, quando rimase affascinato dalle movenze di un rivenditore di zucchero filato, più questi avvolgeva materia intorno a quel minuscolo ed esile bastoncino più quell'ammasso quasi inconsistente assumeva forme svariate, sempre differenti, si chiedeva come quell'impalpabile materia potesse avere un espressione così incisiva nella sua caduca ed effimera consistenza. Tutto quello rappresentava forse per lui la più logica soluzione alla sua insoddisfatta impotenza rappresentativa, non poteva certo lavorare con lo zucchero filato, ma quella visione gli aveva aperto la possibilità di ricercare nuove tecniche, nuovi materiali e questo lo indusse a pensare che poteva ben meritarsi in quel momento un piccolo peccato di gola! La sua mente cominciò a galoppare cercando di mettere in fila una serie di possibili metodi di composizione paragonabili a quel dolce elemento, metodi che dessero la sensazione della sua fluttuazione, metodi che ricalcassero quel suo continuo mutare, e pose un punto fermo su quello che doveva essere un assioma inamovibile; qualsiasi materiale avesse deciso di usare questo doveva essere bianco, ovattato, imprendibile, sfuggevole mai statico, sempre in continua evoluzione formale. Ben presto si trovò a rovistare fra le cose dimenticate da tempo e quelle ancora in uso, provò con l'ovatta che quantunque leggera e resa vivibile con l'aria di un piccolo ventilatore non gli parve troppo adatta allo scopo, provò con delle piume dopo averle trafugate da un vecchio cuscino e deposte in un contenitore agitato nel suo interno sempre dall'aria di quelle piccole eliche, provò con la schiuma prodotta da una serie di piccole e profumate saponette agitata continuamente con un piccolo mestolo, alla fine decise di usarla per un bagno ristoratore; da questa passò alla chiara dell'uovo che freneticamente sbattuta assumeva una consistenza quasi pari allo zucchero filato ed anche qui, non soddisfatto, decise di preparare delle gustose meringhe. Era alquanto scoraggiato, tutti i tentativi, tutti i materiali non riuscivano a rendere quello che lui aveva potenzialmente e chiaramente in mente.
In quel periodo, ancora ragazzo, dormiva nella stanza adibita a soggiorno nella quale trovava posto un divano letto che tutte le sere veniva allungato e preparato come suo giaciglio. In quella stanza inoltre troneggiava l'immancabile televisore per cui fino ad una certa ora tutti i suoi familiari s'intrattenevano in quel posto dando sfogo nello stesso tempo alle loro più svariate manie ed abitudini adatte al sacrale momento: chi sorseggiava un insostituibile bicchiere di liquore, chi una bibita, chi sgranocchiava qualcosa, chi, purtroppo, non poteva fare a meno della sigaretta.
E fu proprio quest'insopportabile abitudine che lui aveva sempre detestato non per altro perché lasciava una scia di fastidioso olezzo in quella stanza, fu proprio questa ad innescare una nuova forse decisiva soluzione ai suoi tentativi.
Nei momenti in cui il sonno sembrava soggiogare l'attenzione per la futilità di ciò che proveniva da quel piccolo schermo, nei momenti in cui egli fluttuava fra una semirealtà ovattata ed un appisolarsi momentaneo, il suo sguardo vagava intorno a quelle spire di fumo che continuamente cambiavano forma, girovagavano, si spostavano rapidamente al più piccolo movimento d'aria per poi disperdersi e svanire per sempre e che sembravano ipnotizzarlo.
Quei movimenti, mai razionali, quelle forme definite e definibili solo dall'immaginazione di chi le seguiva con attenzione gli parvero poter concretizzare quello che lui intendeva e pensava sulla natura dei sogni. Doveva assolutamente verificare questa possibilità e così per un certo periodo scese ad un compromesso con se stesso: la sera quando tutti i familiari erano andati a dormire radunava i mozziconi di sigaretta che facevano bella mostra di sé negli ingialliti portacenere e provava, vincendo con forza il disgusto verso quel vizio, a riprodurre quelle spiralate forme. Doveva, però imprigionarle in qualche modo, doveva far sì che le stesse continuassero ad esistere, mantenendo però quell'affascinante senso d'incoerenza e quell'elegante modo di fluttuare, doveva lasciare loro la libertà e la possibilità di muoversi e direzionarsi a piacimento quantunque guidate da un disegno ben preciso. L'unica maniera era di imprigionare questo fumo in un contenitore, in un volume trasparente. La soluzione più ovvia fu quella di ricorrere ad una normale bottiglia soffiando dentro di essa quella sostanza. La prova ebbe un certo successo, l'effetto era quello che desiderava, ma ancora non poteva controllare e variare il movimento, non poteva dare ad esso una sua personalità una sua identità. Non vi era alcun dubbio il contenitore doveva essere malleabile e cedevole alla pressione delle mani di modo che quella sostanza così aerea potesse assumere le forme e le direzioni volute dal burattinaio. Un certo risultato lo ottenne con una bottiglia di plastica ancorché troppo limitativa sia per il materiale sia per la forma.
Ancora una volta lo soccorse una pensierosa passeggiata che inconsapevolmente lo condusse di nuovo verso un piccolo luna park. Si soffermò ad osservare un uomo che vestito approssimativamente da pagliaccio mostrava ad un gruppetto di bambini come dare forma ed anima a palloncini di tutti i colori e le forme. Spuntavano così con molta rapidità, gli animali più comuni, le forme più strane e stravaganti. Tutto apparve chiaro nella sua mente, corse immediatamente a comprare un cospicuo quantitativo di palloncini di tutte le forme disponibili e di colore tale che il fumo, da contenere negli stessi, apparisse alquanto evidente in trasparenza, si rifugiò nella sua piccola cantina laboratorio, prese a caso uno dei disegni che riproducevano il sogno di una sua compagna, e cercò di infondere vita allo stesso, mantenendo con la forma dei palloncini la sagoma più o meno approssimata del soggetto principale del sogno e facendo fluttuare il fumo attraverso gli stessi; cambiava continuamente forma e direzione con semplici pressioni delle mani su quel materiale così morbido ed arrendevole. Con una certa sorpresa scoprì che non solo riusciva a rendere quel senso d'impalpabilità e d'evanescenza pur rimanendo nel contesto del sogno ma questo poteva a suo piacimento integrarlo, continuarlo se non addirittura cambiarlo, poteva perfino usarlo per riportare a galla nella mente del sognatore fasi da questo completamente dimenticate o che credeva di aver dimenticato. Si accorse quindi, con un certo timore, di avere in mano una sorta di pendolo ipnotico dove l'oscillazione era sostituita dal movimento di quel fluido e la memoria da quello che ognuno avrebbe creduto di vedere. Compose in breve tempo in duplice copia alcuni dei sogni che aveva riposto nella sua cartellina ed il giorno dopo consegnò questi ai legittimi proprietari dando loro alcune semplici spiegazioni su come manovrare quelle forme con semplici movimenti delle mani. L'immancabile scetticismo iniziale fu subito superato dalla curiosità e l'interesse con cui ognuno palpeggiava il suo sogno e quella che per lui era stata un'inconscia preoccupazione ben presto si rivelò essere una gratificante soddisfazione: i suoi compagni e le sue compagne non solo ritrovavano il loro sogno, ma sembravano riviverlo e completarlo secondo la propria fantasia ed immaginazione.
Gli anni passarono, cambiarono amicizie e compagnie, ma lui rimase sempre in contatto con i suoi clienti, anche se un dubbio lo aveva sempre accompagnato.
Non era andato forse oltre le intenzioni, non aveva lasciato troppo spazio alla fantasia di ognuno con il risultato che con il tempo l'essenza primaria del sogno si sarebbe persa lasciando al libero arbitrio di ognuno di conformare i propri sogni, facendo perdere agli stessi quel mistero che rappresentava il loro fascino e la loro impenetrabilità? Gli studi che aveva intrapreso ben presto assorbirono quasi tutto il suo tempo a disposizione, si era gettato anima e corpo sull'informatica ed in breve tempo riuscì a penetrare tutti i segreti di questa materia in continua evoluzione, scoprendo la possibilità di riprodurre in termini astratti di luce ed immagini qualsiasi forma e movimento, divenne alla fine un esperto in ologrammi. Aveva quasi dimenticato quella sua mania, ma in alcuni particolari momenti gli ritornava a galla quel dubbio, aveva nostalgia del nitore e della purezza dell'originalità del sogno, avrebbe voluto che lo stesso fosse rimasto intatto così come nato, esso non doveva aver bisogno né della fantasia né della ragione, doveva rimanere integro così come sorto dall'impenetrabile inconscio di ognuno. Ormai aveva in mano una sorta di pietra filosofale, quell'uovo di Colombo che per tutta la vita aveva ricercato; solamente con gli ologrammi avrebbe potuto realizzare la sua opera e finalmente raggiungere quel fine che si era prefisso fin dall'infanzia. Dopo tanto tempo riaprì il suo archivio, mise mano ad un sogno qualunque, fissò i limiti entro i quali doveva essere racchiuso e contenuto questo nuovo metodo rappresentativo, affinché nessuno avesse potuto alterare od espandere il programma, dopodichè, raggiunto il risultato, decise di convocare tutti i suoi clienti per dare loro una dimostrazione di ciò che aveva elaborato dopo tanto tempo. Come avviene in questi casi, alcuni accettarono con entusiasmo quest'iniziativa, considerandola quasi una rimpatriata fra compagni di scuola o d'infanzia, altri si dimostrarono indifferenti sottraendosi all'invito dimostrando con il loro atteggiamento di aver rinunciato ormai concretamente e spiritualmente ai loro sogni. La riunione ebbe un esito alquanto soddisfacente, quasi tutti diedero il loro consenso a che i loro sogni, quelli che lui e loro possedevano, fossero tradotti nella nuova rappresentazione. Il ragazzo dei sogni pose però una condizione: nel momento in cui lui consegnava ad ognuno il personale programma doveva essergli consegnata la soluzione che lui considerava, così affermò, obsoleta. Passarono alcuni mesi perché l'operazione fosse conclusa e nel giorno dell'incontro ognuno portò come una reliquia o un vecchio giocattolo d'infanzia il suo sogno nella versione palloncini e fumo. L'operazione di distruzione fu semplice ma messa in opera come in un rituale sacro. In una stanza immersa nella penombra i palloncini d'ogni sogno furono separati senza che il fumo che essi contenevano venisse per il momento disperso, dopodichè, spalancata la finestra, venne fatto uscire quel fumo ormai talmente maleodorante che più di uno dei presenti provvide a tapparsi il naso. Malgrado questo inconveniente la cerimonia continuò e ad ogni sogno che svaniva nell'aria fu dato il nome del suo sognatore imponendo che esso, man mano che si librava verso il cielo si trasformasse gradualmente da fumo in nuvola. «Ecco vedi» disse il mio interlocutore «quella nuvola che vaga da un certo tempo sulle nostre teste è il sogno di Paolo un mio caro amico d'infanzia e quell'altra così vezzosa e civettuola nella sua forma è il sogno di Sibilla che fu la mia prima infatuazione quando cominciai ad andare a scuola. Come vedi i sogni non svaniscono mai se uno vuole!».
Il mio periodo di lavoro in quella città era terminato, l'aereo che mi riportava a casa ormai aveva raggiunto la quota di crociera quando attraverso l'oblò notai un gruppo di nubi dalle quali se ne separò una che allungandosi fino a conformarsi gradualmente come un braccio, una mano, un dito, picchiò con la nocca contro il finestrino ed allora mi sembrò di udire una voce ovattata e profonda «Ehi tu! Guardami, mi riconosci sono Amelia».
Di Amelie nella mia vita non ne ho conosciute, l'unica che mi ricordo fu il mio primo adolescente amore. «Siamo in fase di discesa, allacciarsi le cinture!» a questa frase aprii gli occhi e mi destai dal dormiveglia che aveva accompagnato quasi tutto il mio viaggio.


Emilio Labianca


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 Ins. 19-09-2008