Autori contemporanei
affermati, emergenti ed esordienti

Emilio LaBianca
Con questo racconto ha vinto il settimo premio all'edizione 2007 del Premio Marguerite Yourcenar.



Un mucchio di giornali


Da questa finestra si gode una vista unica, irripetibile: una grande strada delimitata da edifici d'epoca, a sinistra il robusto e fiero volume di Castel Sant'Angelo che sembra gettare la vista ed immergersi in un placido e biondo fiume; sulla destra, stagliata in un cielo più terso del solito, la imponente e slanciata sagoma di quella cupola simbolo di un qualcosa che solo la più profonda fede ha potuto concretizzare con un segno terreno. Due braccia di interminabili colonne abbracciano uno spazio che una volta si gremiva di fedeli e che oggi, causa tragici episodi, langue in un deserto di lignee barriere che comprimono ed incanalano lunghe e pazienti file che si snodano lungo un percorso prestabilito sciamando come laboriose ma distratte formiche. Nel mezzo un obelisco che, come Giano bifronte, con una parte sembra scrutare chiunque si approssima attraverso il largo viale, con l'altra, guardando l'immensa facciata, sembra trasferire a qualcuno che dietro di essa si cela, il conto esatto di quanti entreranno nel suo sacro ventre.
E proprio ai piedi di questo è stata allestita da qualche giorno una sorta di sala parto dotata di tutti i comfort, camuffata all'esterno come una capanna con il suo centro fiocamente illuminato come una mangiatoia e con due imperterriti guardiani uno da un lato, uno dall'altro.
Quel lungo, largo ed anche un po' anonimo viale sembra aver sostituito quella miriade di viottoli, sentieri, camminamenti lungo i quali chiunque, in un tempo molto lontano, poteva incamminarsi spontaneamente per raggiungere la meta tanto desiderata, celando nel profondo di se stesso questo profondo desiderio.
Un fascio luminoso prodotto da un potente riflettore simile a quelli che si usano per illuminare la scena di un qualsiasi film è stato posto in un lato, neanche troppo nascosto, per indicare, arrivando a quella minima infinità del cielo che la sua inane forza può squarciare, la direzione da seguire a chi ancora non conosce la strada,.
Di fronte a tutto ciò, in alto, alle spalle di questa finestra, mille occhi artificiali ed artificiosi sono puntati verso quella che vogliono mistificare nella loro ipocrita falsa religiosità come divina culla. Questi occhi coperti da tende poste l'una accanto l'altra e di forma tale da apparire come un bivacco dal quale partirà l'assalto mediatico, scrutano, spiano, inquadrano, zumano tutto ciò che cade sotto il loro obiettivo: una madre che trascina un recalcitrante pargolo come un pastore può fare con una restia pecora o un contadino con un testardo mulo; un frettoloso passante che con insolita energia schiva uno, due, tre automezzi che sembrano ignorarlo come farebbe un mandriano nel mezzo di un branco impazzito; un capannello di ciarliere persone che sovrappongono le loro voci l'una all'altra e che con movimenti e mosse che accompagnano le voci, sembrano imitare uno starnazzante gruppo di galline od oche.
Tutto ciò ai margini di quel lungo oceanico ed ossessionante fiume in piena che si accalca già da diversi giorni.
Mancava ancora diverso tempo, parecchi giorni a quel rituale evento e già, in un angolo ben curato ed in vista della cucina, si cominciava ad ammucchiare un discreto numero di quotidiani ripiegati con cura come se fossero stati acquistati in quel momento o che non fossero mai stati aperti e letti. Più il tempo passava, più questa pila cresceva.
Che strano, ogni giornale aveva sempre rappresentato un eterno dissidio fra la nonna ed il nonno: lui ogni mattina lo leggeva con una sacralità che si riserva di solito ad un testo sacro, lo trattava con delicatezza e metodicità di gesti fino all'ultima pagina per poi abbandonarlo in maniera distratta ovunque capitasse. Raramente lo ricomponeva e lo ripiegava, ma lo abbandonava su un tavolo, su una sedia, qualche volta sul letto, era come se tutto ciò che in esso era scritto fosse stato travasato nella sua mente e quelle pagine fossero diventate degli anonimi fogli, senza scritte, senza immagini, senza interesse, senza nulla. Eppure quelle volte che noi nipoti ricevevamo il prezioso incarico di andarlo a comprare, dovevamo trattarlo con ogni cura, non dovevamo minimamente sfogliarlo, dovevamo recapitarglielo come se fosse uscito lì per lì dalla tipografia. Riuscivamo a mala pena a sbirciare le notizie in prima pagina che a quell'età, per noi, erano le più noiose le meno interessanti. Quella maniera sciatta di abbandonarlo ovunque capitasse irritava soprattutto la nonna che, dopo aver urlato i soliti rimbrotti, le solite lamentele verso il nonno, lo prendeva, lo trattava come carta straccia e lo gettava nel contenitore della spazzatura, solo qualche volta lo conservava per avvolgere qualcosa, ma mai un indumento, un cibo o qualcosa che potesse venire a contatto con il corpo. Diceva che quelle scritte erano fatte con il piombo o qualche altro materiale intensamente nocivo. Spesso nei posti usati come ripostiglio trovavamo piccoli involti di giornale contenenti chiodi, viti, qualche piccolo utensile, ma la cosa più strana erano quegli appallottolamenti che venivano infilati dentro le scarpe per tenerle in forma. Nei momenti in cui riuscivamo a dialogare facevamo presente alla nonna che così facendo i piedi, una volta calzate le scarpe, venivano a contatto con la parte in cui il giornale poteva aver lasciato dei residui nocivi e lei di tutta risposta, con la sua logica, ci diceva che per questo motivo era necessario indossare delle calze o dei calzini.
E' per questo che quando vedevamo la nonna cominciare ad aver cura di tutti quei fogli, raccoglierli, riunirli, ripiegarli, riporli sapevamo che si stava avvicinando quel rituale che si ripeteva ogni anno.
Quel mucchio che ogni giorno cresceva sempre di più rappresentava per noi una ambita preda. Sapevamo che ad un giorno prestabilito, ad una data prefissata il nonno ci avrebbe invitato a prendere ogni foglio di ciascun giornale e procedere ad una operazione ben precisa. Finalmente potevamo dar sfogo alla nostra vendetta, ogni foglio veniva ben disteso fra le due mani e poi con puerile sadismo spiegazzato e appallottolato con le stesse. Più il foglio si impiccoliva si contorceva in mille pieghe, più l'operazione raggiungeva il suo scopo. Questi fogli così trasformati venivano dal nonno accuratamente scelti e selezionati, qualcuno veniva ancor più ristretto, qualcuno allungato od allargato, tutti messi in un determinato posto per essere trattati con una strana sostanza densa e trasparente che man mano li irrigidiva e li rendeva più resistenti e compatti. Alle nostre richieste di sapere di cosa si trattasse lui ci rispondeva che era un segreto, un miscuglio che aveva inventato lui. Che strano ogni volta che in quel periodo andavamo in casa di un amico vedevamo una bacinella, un barattolo o qualche altro contenitore pieno di quella sostanza. Forse il nonno, pensavamo, la avrà venduta ai vicini, ai conoscenti senza svelarne la formula! Quando tutti quei fogli avevano assunto la consistenza desiderata, il nonno iniziava la sua composizione: in un angolo ben visibile del salotto e qualche volta anche dello spazioso ingresso in modo che fosse visibile a chiunque si fosse affacciato alla nostra porta, poneva un solido basamento più o meno alto secondo quello che gli passava per la mente, attaccava questi informi agglomerati di quello che all'origine era stato un banale giornale e dalle sue sapienti mani, aiutandosi con chiodini e martello, cominciava a prender forma un insieme di scoscese montagne ora più corrugate ora più lisce ma tutte perfettamente continue come se il foglio originario fosse stato unico e completo.
E' sempre presente il ricordo della prima volta che vedendo quell'ammasso di rughe, di canaloni e di dolci declivi, quasi disilluso e piangente, dissi al nonno che le montagne non potevano essere di quel colore, imbrattate di residui di scritte, di lettere e spezzoni di immagini, e lui con un sorrisetto ironico mi disse di aver pazienza, ogni cosa al momento giusto.
Sapevamo quindi che dopo aver sistemato tutto quello che rappresentava lo scheletro di quella imponente catena montuosa lui sarebbe passato all'operazione più artistica e delicata. Mescolando una serie di colori che corrispondessero il più possibile a quelli delle montagne, cominciava ad investire quell'ammasso con spruzzi lanciati dalle setole di un ben robusto ed elastico pennello. Sotto i nostri occhi pieni di meraviglia ed incanto quelle montagne pian piano indossavano l'abito voluto, qualcuna molto arida e spoglia, un'altra con tracce di verde, un'altra ancora con un effetto di chiaroscuro che l'avvicinava ad un canalone o ad un dirupo e nei punti dove l'operazione non aveva completamente raggiunto il suo scopo, il nonno, con sapienti tocchi di pennello, riportava tutto a quello che aveva in mente. Il nostro compito in quel momento era solo quello di esprimere i nostri desideri: chi voleva quel punto più scuro, chi più verde, chi non ci voleva alcun colore. Sembrava che il nonno ascoltasse tutti i nostri consigli, i nostri suggerimenti, che esaudisse ogni nostra richiesta, in realtà lui faceva finta, sapeva che alla fine l'opera la avrebbe realizzata come la vedeva lui, era così facile farci creder che quell'angolo, quel pezzo di tenera e finta pietra era come ognuno di noi lo aveva voluto.
Tutto veniva fatto decantare per qualche giorno, nel frattempo ognuno si dedicava a raccogliere qualsiasi materiale fosse adatto allo scopo: si andava nel piccolo giardino vicino casa o più o meno lontano, si sceglieva un determinato quantitativo di brecciolino di adatto diametro, quindi si prendevano alcuni piccoli ramoscelli di pianticine e poi con molta cura e religiosità si sceglieva un piccolo quantitativo di paglia.
Si passava così alla fase successiva, le montagne cominciavano a rivestirsi di alberi ed erba nei punti più opportuni, si formavano finti ruscelli con fili di erba artificiale color argento, si disegnavano sentieri e camminamenti lasciando adeguati spazi fra le piccole pietre raccolte nei giardini, comparivano pozze d'acqua e piccoli laghetti prendendo a prestito specchi da tutti i componenti femminili della famiglia.
Il paesaggio era completo ora aveva bisogno di anima, di qualcosa che desse l'illusione che esso viveva, che pulsava, che in esso si svolgeva la vita di tutti i giorni anche se ogni personaggio, in cuor suo, sapeva che si avvicinava un evento particolare. Lo si capiva dall'andamento e dall'espressione dell'immancabile pastorello, dal gesto di un boscaiolo, dal maglio sollevato di un modesto fabbro, dalla direzione dello sguardo di una donna di ritorno da una fontana con la spalla carica di una colma anfora , da un cane che sembrava aver interrotto il suo latrare perché attratto da qualcosa che sfuggiva al suo istinto. Solo un ingobbito asino continuava nel suo lento procedere per nulla distratto da ciò che lo circondava. Chi voleva posizionare quel personaggio in un determinato luogo, chi lo voleva riparato in un piccolo anfratto, chi desiderava la pecorella nell'atto di abbeverarsi al lato di un ruscello, chi in riva al laghetto. Tutti sapevamo che alla fine sarebbe stato il nonno a trovare ad ognuno la posizione più consona.
Ognuno sapeva che l'atto conclusivo di quel rito avveniva nel pieno della notte, in un atmosfera nella quale ogni luogo, ogni personaggio assumeva un aspetto particolare e per questo con una certa trepidazione si attendeva l'atto finale, il posizionamento di una interminabile catena di piccole luci, delle forme più varie, quella che ricoperta da un concavo piatto tentava di assumere la forma di un piccolo lampione, l'altra che nascosta in un angolo di roccia illuminava una grotta che sembrava non avere fine, quella lunga serie di minuscole lanterne che appese alle casette di sughero indicavano il percorso di una ipotetica via. Una luce in quel punto che sembrava troppo oscuro, un'altra in quel punto senza un perché, anzi perché ci stava bene.
Alla fine un lungo velo color blu con tante piccole forme argentee veniva steso al disopra di tutto ed in un punto ben preciso, a perpendicolo su una piccola costruzione senza muri e senza porta, risplendeva una luce più intensa di tutte con la sua argentea coda.
Si chiudevano tutte le imposte, la stanza, quell'angolo erano completamente al buio e ad un cenno di assenso da parte di tutti il nonno manipolava un piccolo interruttore. L'emozione che attanagliava ognuno nascondeva tutti quei piccoli difetti che nei giorni successivi sarebbero stati eliminati per rendere la scena più perfetta possibile con l'aggiunta dell'immancabile neve fatta di soffice farina o di profumato talco. Qualcuno di noi avrebbe voluto dello zucchero a velo, ma la nonna lo ha sempre severamente proibito!
Dopo alcuni anni il rituale si ripete, le mani che così abilmente conformano lo stesso paesaggio anche se con alcune varianti e con materiali differenti non sono più quelle del nonno, le riconosco sono quelle di mio padre, le stelle in cielo non sono più un disegno sono tante piccole luci incastonate in un telo di plastica che contiene al suo interno un intricato intreccio di fili.
Passano altri anni il rituale si ripete, le mani che così abilmente conformano lo stesso paesaggio anche se con altre varianti e con materiali sempre più artificiosi e tecnicamente raffinati non sono più quelle né del nonno né di mio padre, non ho bisogno di riconoscerle sono le mie, le stelle in cielo non sono più né un disegno né tante piccole luci incastonate in un telo di plastica che contiene al suo interno un intricato intreccio di fili, ma fanno parte di un intero meccanismo capace di mettersi in funzione con la sola pressione di un pulsante su un minuscolo telecomando.
Ho un sussulto, non è possibile che tutto ciò che ho visto da quella finestra abbia così imbarbarito l'oggetto dei miei ricordi, che quei personaggi, quegli animali che ho sempre amato si siano trasformati in un orda famelica bisognosa solo di farsi vedere, desiderosa solo di "esserci". Un freddo e livido brivido mi scorre lungo la schiena, mi alzo spalanco le imposte e lì nel mezzo di quella piazza attraversata da lignee barriere, ai piedi di quell'obelisco dal gianesco sguardo intravedo, ancora non completata, la sagoma di una capanna dalle antiche forme che vista da quassù, ancorché dilatata nelle dimensioni, sembra quella che mio nonno, mio padre ed io stesso abbiamo sempre posto ogni anno nel mezzo della nostra rappresentazione.
Ormai è mattino e gli operai che per tutta la notte hanno scaricato, innalzato, incastonato materiali su materiali alla luce di improvvisati riflettori ed al suono di gracchianti radioline, stereo ed altro, lanciandosi urla e disposizioni senza nulla di umano, ritorneranno solamente all'inizio della serata per completare la loro opera.


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 Ins. 30-11-2007