Autori contemporanei
affermati, emergenti ed esordienti

Emilio Biagini
Con questo racconto ha vinto il nono premio all'edizione 2008 del Premio Il Club dei Poeti.



«Il pianoforte»



Era difficile capire quanti anni avesse. Era pallida, snella, dai lineamenti fini e del tutto senza trucco. Se si fosse tinta i capelli, avrebbe potuto passare per una bellezza, ma evidentemente non se ne curava. E forse era meglio così: quei capelli candidissimi le conferivano un fascino particolare, che la faceva risaltare in mezzo al gruppo di amiche riunite per il tè.
La conversazione era caduta sull'astrologia, con la solita domanda «Tu di che segno sei?» e la grave questione se sia meglio essere «Ariete con ascendente Scorpione» o «Toro con ascendente Vergine», o se un «Pesci con ascendente Cancro» può sposare una «Capricorno con ascendente Acquario». Lei taceva e scuoteva leggermente la testa.
«Siete sempre andati d'accordo tu e tuo marito, come eravate messi con l'oroscopo?» volle sapere Carlotta, l'amica che l'aveva portata con sé nella speranza di distrarla. Rimasta vedova, la poveretta si era chiusa in casa, e da due anni non usciva che per le commissioni indispensabili. Non era un'osservazione opportuna, e l'amica se ne pentì subito, ma dallo sguardo di lei non apparve alcuna sofferenza, sembrava che i ricordi non le facessero più male, che avesse raggiunto la pace interiore.
«Non abbiamo mai fatto caso a queste cose» rispose a voce bassa e profonda, ben modulata. Una voce che ricordava una musica. Infatti la vedova era musicista, e suonava il pianoforte. Anche nella casa dove si trovava ospite in quel momento c'era uno strumento del genere, ma nessuno lo apriva mai: era solo un mobile di lusso, tenuto in bella mostra, per ostentazione.
La conversazione languì, e la padrona di casa propose a Sara di suonare qualcosa al piano, tanto per vedere se lo strumento, abbandonato a se stesso, non si fosse per caso scordato. No, non era affatto scordato, aveva anzi un bel suono, quando lei ne trasse dapprima l'Impromptu in do diesis minore di Chopin, poi, visto che le ascoltatrici sembravano gradire, il Valzer n. 15 op. 39 in la bemolle maggiore di Brahms e il "Frühlingslied" in la maggiore dai "Canti senza parole" di Mendelsshon.
Aveva un tocco delicato, adatto ai suoni malinconici di quelle musiche dell'epoca romantica, sospesa tra il senso d'impermanenza della vita terrena e l'ansia di infinito insopprimibile nel cuore umano. Le amiche, per quanto sembrassero conversatrici superficiali, non erano insensibili, e le fecero molti complimenti.
«Si vede che ti eserciti regolarmente» osservò una delle amiche.
«È la mia principale compagnia. Avevo studiato lo strumento prima di sposarmi.
I miei ne avevano uno molto bello.
Non ho impiegato molto a riprendere, perché ho una buona memoria per le note. A differenza dei nomi, che dimentico subito».
«Dovresti uscire di più».
«Sì, certo, lo farò; ma mentre sono a casa e suono, mi sembra di avere accanto mio marito. Non so come spiegare».
«Un momento. Quando eri insieme a lui non avevi niente del genere».
«Infatti l'ho comprato dopo che non ho più avuto lui».
«Non capisco. Come può ricordartelo?».
«Non ho detto che me lo ricorda. Ho detto che è come avere lui vicino, anzi, che lo sento vicino».
Tutta l'attenzione era concentrata su di lei, e per la prima volta si rese conto di dover dare qualche spiegazione. Non aveva mai raccontato a nessuno la sua stranissima storia, per timore che qualcuno non la prendesse sul serio. Ma tutto sommato, perché no? Che cosa le importava di quello che avrebbero detto?
«Volete che vi racconti la storia del mio pianoforte? Non so se può interessarvi».
«Ma certo, sentiamo» esclamarono due o tre delle amiche.
«Dopo aver perduto Giovanni ero caduta in una depressione profonda. Mi sembrava che non ci fosse più niente per me al mondo, e davvero non c'era più niente. Neppure denaro, perché le pratiche per la pensione andavano per le lunghe, e non era neppure una pensione particolarmente ricca. Un giorno, nella mia disperazione, ho pensato: "Se almeno avessi un pianoforte. Poter riprendere a suonare, tanto per far qualcosa, per tenere le mani e la mente occupata."
Non avrei potuto, allora, entrare in un negozio e comprare uno strumento nuovo. Quella stessa notte ho sognato Giovanni: sembrava felice e mi ha abbracciato e baciato. Nel sogno gridavo di gioia, perché era di nuovo con me. E poi mi ha detto: "Ho saputo del tuo desiderio. Telefona al numero che ti darò e troverai quello che cerchi, d'occasione".
Me ne disse anche il prezzo, che era bassissimo e alla mia portata.
Al risveglio ricordavo perfettamente il numero di telefono e la cifra, ma mi pareva incredibile che tutto fosse così semplice. All'apparecchio ha risposto una voce di donna e mi ha fissato un appuntamento per provare lo strumento.
E poi se n'è uscita con un: "Come ha fatto a saperlo già, signora? Mio figlio è appena andato a mettere l'inserzione sul giornale". "Ho un mio informatore", ho risposto. Il pianoforte era ottimo, con un suono perfetto. Non ho mai capito perché volessero disfarsene.
Il prezzo era quello che avevo saputo in sogno».
Tutte tacevano, intente, e qualcuna appariva incredula, qualcun'altra commossa.
Quasi si rendesse conto solo in quel momento della stranezza della sua storia, la vedova riprese:
«Vi assicuro che non crederei a una cosa del genere se non l'avessi vissuta di persona. Non ho mai pensato a fare dello spiritismo per mettermi in contatto con l'aldilà, come fanno tanti che hanno perduto una persona cara. Si aprono porte che è meglio lasciare chiuse. È un atto di superbia, questo voler forzare i limiti che ci sono assegnati. Il diavolo non domanda di meglio. Non gli occorre molto a fingersi lo spirito di un trapassato, e di solito si finisce per perdere la fede, perché regolarmente lo spirito col quale si comunica si sforza di persuadere che l'aldilà è più o meno come l'aldiquà, e quindi non si deve preoccuparsene. Lo spirito malvagio cerca di anestetizzare la coscienza, perché l'anima addormentata cada nelle sue grinfie. Ma se è lo stesso aldilà a venire a noi, è diverso. Io non avevo chiesto un'apparizione, non avevo chiesto di rivedere mio marito. Avevo solo tanto desiderio di un pianoforte per distrarmi.
Tutto il resto, tutta la felicità che ho provato a rivedere lui, mi è stato dato in sovrappiù».
Com'è difficile agli esseri umani credere all'invisibile, quando il visibile è davanti ai loro occhi, con le sue forme, i suoi colori e le sue tentazioni. La più vecchia del gruppo, che era un'acida professoressa di letteratura iperuranica postmoderna, nota per tutta una serie di "ismi" da salotto politicamente corretto che le ingombravano il cerebro, come laicismo, scetticismo, storicismo, deismo, agnosticismo, relativismo, e così via, lasciò udire una risatina che sembrava un raglio e domandò: «E come sarebbe, secondo lei, l'aldilà?».
Sara la guardò senza lasciar trasparire quel che pensava di lei. Poi rispose: «È l'aprirsi della porta sul mondo della vera vita, quello per cui siamo stati creati, e di cui portiamo un pallido ricordo: infatti chi o cosa possiamo aver mai visto al primo istante, quando la nostra anima ha cominciato ad esistere? Tutto il nostro essere tende a ritornare là dove ha avuto principio. Questo mondo è un'ombra. Tutto passa, e così dev'essere, perché è consolante pensare che, se passa il bene, passa anche il male, e quindi i conti, alla fine, si equilibrano.
Ora viviamo sospesi fra l'eternità e il tempo che passa, e che a poco a poco distrugge la nostra parte mortale. Dopo, ritroveremo tutti quelli che abbiamo amato, ritroveremo il Creatore. Lo so, perché ne ho avuto la prova. Ecco perché, quando suono il pianoforte, sento mio marito vicino, perché rivedo quel sogno che ho sempre nitido nella memoria, come se l'avessi appena vissuto.
Perché so che lui è con me. Riavremo la nostra vita insieme, e l'avremo con abbondanza, con una gioia che non finirà mai».
«È bello avere la fede» mormorò una del gruppo, cercando di rimandare indietro certe lacrimucce di commozione.
La vecchia professoressa si guardò le punte delle scarpe senza trovare una sola parola di risposta. Era più facile con gli studenti, quando parlava loro di scuole e di tendenze letterarie, e ciascuna scacciava la precedente e la sostituiva, così che non c'era mai un punto fermo. Dante chiudeva un'epoca, mentre il Petrarca l'apriva, dunque aveva qualcosa in più, era il progresso che superava, "dialetticamente", l'"oscuro" Medioevo, aprendo la via alle mirabolanti conquiste dell'età moderna, risplendenti alla "diuturna luce delle gazzette". Non ammetteva la vecchia, forse non sospettava neppure, che esistessero valori universali, che non passeranno mai, che Dio è Dio e l'uomo è l'uomo, in qualunque epoca, in qualunque cultura, e l'uomo davanti al mistero si interroga, e, se trova una risposta, questa non può essere che: «Benedetto sei Tu, Eterno, Creatore e Signore di tutto ciò che esiste». Non le avrebbero mai dato la cattedra se avesse pensato diversamente, e lei si era sempre preoccupata soprattutto di far avanzare la propria carriera e di sabotare quella altrui.
Guardò Sara, che sorrideva, quasi felice.
E d'un tratto tutto andò a posto, nel suo piccolo cervello fatto a minuti scompartimenti di legno tarlato. Aveva trovato l'etichetta "giusta", e, come nei corsi che teneva all'università, le etichette erano l'unica cosa che contasse, per lei.
«È un'esaltata», pensò, e chiuse per sempre il cassetto con dentro l'etichetta.
Questo racconto fa parte di una raccolta di 15 racconti dal titolo complessivo «L'uomo in ascolto».

Emilio Biagini


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 Ins. 17-09-2008