Autori contemporanei
affermati, emergenti ed esordienti

Emanuela Vacca
Con questo racconto ha vinto il terzo premio al concorso
Marguerite Yourcenar 2005, sezione narrativa

«La tana»


Era lì. Immobile. La testa orrendamente lucida e pelosa appena fuori dal buco. Sembrava osservarmi con attenzione, senza fretta. Attendeva. Lei, aveva tutto il tempo. Ripuliva, lentamente e con metodo, le lunghe zampe pelose contro la testa scarlatta. In religioso raccoglimento. Un filo biancastro e molle le usciva dalla spaccatura nera che aveva nel cranio. Un filo denso e appiccicoso. Mentre tesseva il suo muco, cullava il corpo tozzo, a destra e a sinistra. Un soffice dondolio sulle zampe arcuate. Pareva una danza rituale di estrema concentrazione su un qualcosa. Forse me. Allungai i piedi fino a sfiorarla. Di colpo si ritrasse sparendo nell'anfratto nero che, nella calda penombra tropicale, pareva immenso e grottesco. Un occhio vuoto che invadeva un altro occhio, sostituendosi al mormorio dei miei pensieri. La pioggia scendeva assordante sopra la mia testa. Uno scrosciare intenso e ipnotico al quale mi sarei volentieri arreso. Non potevo. Una goccia d'acqua cadeva, con ritmo esasperato, tormentandomi il collo, scavando nelle ecchimosi doloranti. Ero immobilizzato. Le strette corde avviluppavano i miei polsi arrivando fino ai piedi. Ad ogni movimento convulso si avvinghiavano sempre di più, acuendo il dolore ormai incessante. Uscì di nuovo, forse spinta dalla curiosità. Forse dalla fame. I miei piedi erano lì, immobili, a distanza di sicurezza. La fissavo, in trance. Gli occhi accecati dalla stanchezza. La testa mi ronzava invasa da milioni di api. La nera sporgenza avanzò lentamente prendendo coraggio. Forse sentiva la mia impotenza. Ci voleva poco a farmi fuori in quelle condizioni. Anche un maledetto ragno poteva avere la meglio su di me. Colpii con rabbia il muro staccando un pezzo dell'intonaco marcio. La cosa nera sparì spaventata. La sedia ebbe un sussulto e cadde in avanti. Vidi il muro precipitare su di me. Poi il buio. Mi risvegliai sdraiato per terra, su un fianco.
La testa, schiacciata dalla parete, pulsava dolorosamente. Il respiro era affannoso, quasi un rantolo. Sentivo l'odore acre del mio corpo, della muffa intorno a me, del marcio, l'odore del mio sangue. La goccia ora cadeva sul pavimento, nella pozza di luce dove prima c'era la mia testa. Una, due, tre...schizzavano, lente e rumorose, rompendo il silenzio. Continuava a piovere a dirotto. Di tanto in tanto, violenti tuoni squarciavano l'apparente quiete, creando bagliori simili ad allucinazioni. Fissai il buco nero che ora invadeva tutto il campo visivo. Ne vedevo i bordi sfrangiati aprirsi nel buio. Ed ecco, il grosso insetto ritrovava coraggio e tornava allo scoperto. Stavolta a pochi centimetri dalla mia faccia. Ero sicuro che fosse femmina. Era sinuosa, lenta. Un'esperta seduttrice, come lei, la donna sbagliata, l'ultima donna. E adesso ero lì, legato come un abbacchio, per aver ceduto al suo richiamo, al suo odore, al colore denso della sua pelle. Tornai a guardare la mia compagna involontaria di prigionia. La posizione mi concedeva uno spettacolo in prima fila.
Vedevo i suoi occhi attenti che mi scrutavano. Mille puntini sfaccettati che brillavano nella penombra. Ci studiammo a lungo e lei decise che era in vantaggio su di me. Un brivido lungo la spina dorsale mi fece capire che aveva ragione. Si mosse lentamente, ormai senza più timore. Percepiva il mio sfinimento, la mia paura. Ora il filo bianco era più lungo. Appeso al suo addome. Se lo trascinava goffamente ballandoci intorno. Come un lungo stelo di seta che l'abbelliva. Ne era fiera. Vedevo la sua peluria, nera e soffice, brillare come seta nel riverbero crepuscolare. La sentii su di me e mi parve calda e avvolgente come i velli neri di ricche vegetazioni femminili. Sfide inesplorate e imploranti. Esplosi in una risata stridula. Quel lurido insetto riusciva ad evocare fantasmi che credevo morti. Lei non aveva previsto il suono. In fondo era solo un insetto. Scappò di nuovo nel suo rifugio ed io tornai a respirare. Lo schianto della porta contro la parete mi fece trasalire. Un muso giallo fece irruzione imprecando. Indossava una tuta mimetica. Un mitra tra le mani. La faccia sporca. Gli occhi marroni come le acque dello Yang-tze. Aprì la bocca sdentata urlando in cinese. Sentivo il suo alito fetido di alcool. Non capivo una parola di quello che diceva. Dietro di lui comparvero altri due uomini. Altri musi gialli. Mi rimisero seduto senza mai smettere di urlare. Controllarono le corde. Tutto tornò a posto. Anche la goccia di pioggia riprese a cadere inesorabile nel mio collo. Mi fissarono rabbiosi.
Questi qui la rabbia ce l'hanno nel DNA, pensai. L'istinto alla guerra non li abbandona mai. Nemmeno quando si divertono. Uno di loro avanzò e mi si parò davanti. L'occhio destro inesistente, il cranio tatuato, al posto della bocca un taglio. «Stasera morirai ingles!» La sua risata sguaiata puzzava.
Voltai la faccia. «L'hai vista la buca là fuori?» urlò «Dimmi! L'hai vista?» Lo ignorai. Mi arrivò il calcio del fucile sulla tempia. «Fai il gradasso eh? Voglio vedere quando sarai laggiù e le tue luride ossa marciranno nel buio, mangiate dai topi! Voglio sentirti gridare!
Hai capito ingles?» Scoppiò di nuovo a ridere alitandomi in faccia. Fissai la tana della vedova con nostalgia. «Ci vediamo al tramonto ingles!» urlò la grande bestia. Non mi voltai. Ma ormai erano usciti. Ero di nuovo solo. Sentii il caldo del sangue colare dalla tempia. I topi. Li odiavo. Ce n'erano tanti laggiù, sulle dolci colline coperte di erica, sui pendii che correvano verso il mare. Si rincorrevano, scuri, veloci, lanciandosi richiami.
Echi striduli nel fragore delle onde. La grande casa sul mare. Il dolce cullarsi della risacca nelle sere d'inverno. La neve che si dissolveva sfiorando leggera l'oceano. Il calore del fuoco nel camino. Gli odori antichi e rassicuranti. E lei, mite e calda. Lacrime dense scesero a dissetare i miei occhi bruciati. Con fatica cacciai via il ricordo. Lo sguardo tornò al buco nell'ombra, alla tana. Se n'era andata. Lei, con la sua dignità ferita. Le femmine. Ridono, se la spassano, ti usano. Gentili, sguaiate, trattenute, pericolose. Come te, stupida bestia, te che scappi al rumore della mia risata. Mi sentii solo. Mi schifavano anche i ragni. Cominciai a chiamarla, dolcemente. Dalla mia gola uscì un suono che pareva un lamento. Aspettavo. Ansioso come ad un appuntamento. Nulla. La pioggia là fuori era aumentata. Tutto era immerso nella fioca luce del crepuscolo. Al tramonto sarebbero venuti. Non ero pronto. Non si è mai pronti. I topi. Cominciai a tremare. Ero solo. Solo con la mia morte. Non pensare Peter. Non pensare. In India hai imparato a non pensare. Fallo ora. Svuota la mente. Concentrati su qualcosa. La pioggia, si, la pioggia. Il dolce ticchettio rilassante. Lentamente scivolai in un sonno agitato. Sognai fiumi di acqua e fango. La gente imprigionata nelle baracche. Urlavano, chiamando aiuto.
Non c'è più posto! Urtai con un remo un corpo. Rema, rema. Volevo salvarmi. Salvai me e, per caso, anche loro. Ero un eroe. Inviato di guerra salva cinque donne. E poi lei. Si era donata a me, grata, per un pugno di riso. Non l'avevo risparmiata. Nemmeno lei. Ero troppo affamato, e lei era così dolce. Era diventata un sogno. Un passato remoto. Mi svegliai di colpo, guardai la penombra della baracca. Ero ancora lì, niente fughe, niente di niente. Tra poco, tra pochissimo sarebbero venuti. Mi avrebbero trascinato là fuori, sotto il diluvio. Avrebbero aperto la botola. Io avrei recalcitrato urlando. Si, avrei urlato, lo sentivo. Non ero così forte per morire in quel modo. Guardai la tana nera e lei lì, tranquilla. Era tornata e mi aspettava. Forse possiamo sfuggire a quei maledetti topi, che ne dici sorellina? Cominciai a dondolarmi in avanti. Sempre più forte. Finalmente la sedia cedette.
Caddi rovinosamente, la faccia per terra. L'impatto fu tremendo.
Trattenni il respiro dalla paura. Adesso torneranno. Attesi. Silenzio. Tutto era tranquillo là fuori. Solo il rumore del vento. Sorrisi compiaciuto. Stavolta avevo fatto un buon lavoro e lei era ancora lì. Non si era sottratta al fracasso della mia caduta. Eravamo vicinissimi. Lentamente mosse alcuni passi leggeri. Avanzava piano, pareva non volermi spaventare. Sembrava aver capito, la mia complice. La guardai un'ultima volta, poi chiusi gli occhi e attesi. Sentii le sue zampette lievi e delicate avventurarsi caute sulla mia spalla, sul mio collo, sul mio volto. Ogni tanto si fermava e si sfregava su di me, come a volermi accarezzare. Non avevo più paura. Il suo aculeo penetrò improvviso e inesorabile. Un dolore lancinante mi perforò la tempia. Dopo qualche attimo uno strano distacco s'impossessò di me. Ero spettatore del mio dolore, della mia agonia. La morte in diretta. Quante volte l'avevo filmata. Il mio corpo cominciò a irrigidirsi. Le palpebre divennero pesanti. Le gambe erano già morte. Adesso sentivo la sua carezza sui capelli. La sua danza magica e mortale. Il cuore batteva veloce, ormai impazzito. Un liquido dolciastro mi invase la bocca. Tra poco. Tra poco sarò fuori di qui! Un lungo respiro uscì lento dalle mie labbra. I colpi alla porta divennero rabbiosi. Voci concitate si accavallavano. Camici bianchi irruppero nella stanza. Videro l'uomo. Giaceva per terra, la stretta camicia attorcigliata intorno al collo. La testa riversa contro la parete. Uno squarcio rosso l'attraversava. «Dannazione dottore, siamo arrivati tardi!» Rimasero lì, sulla soglia a fissare impotenti la morte. Nei lunghi e desolati corridoi le porte si aprivano. Era l'ora di cena. I malati uscivano in silenzio dalle celle. Si allineavano lenti, gli sguardi persi, lacunosi. Fuori il buio era calato. La pioggia aveva smesso di cadere. Lontano il rumore del vento si mischiava a sussurri strozzati. Nella cella, una vedova sedeva immota sul cadavere del suo compagno.

Emanuela Vacca


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