Autori contemporanei
affermati, emergenti ed esordienti

Elisabetta Campus

Con questo racconto ha vinto il secondo premio del concorso Club Poeti 1999, sezione narrativa

 
 
Paolo
 
L'estate aveva appena lasciato il suo sapore aspro e caldo nell'aria e settembre aveva deciso di entrare piano, di farsi desiderare, i fiori nei campi non avevano ancora iniziato la loro ultima fioritura. Paolo aveva deciso di correre ancora un po' in bicicletta.
Una bici rossa senza il cambio, con le ruote grosse, con il parafango, senza fanalino così ci potevi andare solo di giorno e soprattutto da femmina senza canna, questo Paolo proprio non lo sopportava. La bici andava veloce sulle strade, concedeva l'ebbrezza della velocità, delle curve in discesa e questo a Paolo piaceva troppo. Era nato per la corsa e il vento, lui e non cambiava la sua bici proprio per questo correre da matti.
Paolo non andava in gruppo a fare le sue escursioni. Non gli piaceva la gente che la domenica mattina si riunisce e si tuffa nel percorso a far vedere che c'è. Lui si sceglieva con cura il suo percorso, rigorosamente solitario e in sella alla 'rossa'. A sua madre, come a tutte le madri, questa sua solitaria passeggiata piaceva poco, anzi quando poteva e quando il tempo le dava un mano con la pioggia ne vietava le uscite.
Ma quell'estate aveva dovuto capitolare, il tempo era stato bellissimo, qualche brevissima pioggerellina per rinfrescare e Paolo aveva vinto la sua battaglia, usciva tutti i giorni due tre ore in bici.
Il paesaggio scorreva veloce, a Paolo piaceva il sentiero che correva parallelo alla strada provinciale al di là del guard-rail. In gara con le macchine si sfiniva sui pedali sino a sfiatare. Gli piaceva il fiato grosso e il cuore in gola, l'effetto di quella corsa sfrenata, il conta giri, chissà come finito su una bici da ragazza (che cavolo se ne fa una ragazza di un contagiri! pensava Paolo) che segnava 25 chilometri l'ora. Accidenti! che gambe per un ragazzo, se avesse avuto una bici da uomo avrebbe fatto di sicuro 35 chilometri l'ora con quelle gambe.
Pedalava così veloce che stava al passo con una seconda marcia sul cambio delle macchine che gli scorrevano accanto sulla strada asfaltata, senza una buca e che lo ignoravano, eppure stavano lì solo per lui.
In gara con le macchine o a fare cross, con una bici che non può fare cross. Il suo percorso, sempre quello il preferito, era fatto di fossi e steccati bassi per non volare di sotto, ostacoli a sorpresa, qualche gallina, pollame vario che Paolo non riusciva a identificare, l'unica cosa che sentiva era lo schiamazzo delle bestiole e lo svolazzare delle piume. Qualche rospo lo aveva preso in pieno e doveva stare più attento per non uscire fuori dal percorso, sennò addio al campionato.
Questo alla mamma non l'aveva detto, ma lui correva e correva sulla sua 'rossa' solo per partecipare al campionato di bici (minor tempo, minor numero di errori). Non bastava iscriversi al campionato, bisognava fare un punteggio minimo nelle preselezioni per entrare nella gara vera, quella dei ragazzi più grandi e più bravi. Ma a quest'ultima cosa Paolo non ci credeva affatto, era lui il più bravo, se solo avesse superato il punteggio minimo. Cavolo che fatica! E che paesaggio! Colori e suoni che bastavano per credere di essere un campione.
Aveva letto e riletto il regolamento del concorso. Aveva superato da cinque mesi l'età minima per partecipare e aveva calcolato il tempo massimo per allenarsi: due mesi, tutti i giorni, due o tre ore. Aveva impostato tutto ed era partito giusto due mesi prima. Sapeva che poteva farcela. Gli altri, i grandi, li vedeva al bar seduti sugli sgabelli accanto a lui, chiacchierare di curve, di strade, di cambi, di difficoltà, di ostacoli improvvisi. Dietro una coca cola versata in un grande bicchiere di carta, Paolo scriveva sul tovagliolo le sue note, così sì, così no! qui rallentare, qui spingi di più sui pedali. Accidenti! era una gara di bici o un gran premio di rally con il tuo secondo pilota e la mappa? Più o meno era un rally, perché tutti si preparavano con cura. Paolo doveva diventare un professionista e come un vero professionista curava i particolari sul bloc-notes. Per la prossima volta.
Paolo non ti perdere appresso ai pensieri, pensa alla tua bici da ragazza, spingi sui pedali, corri e non cadere. Il cross è uno sport da duri e il sellino è una vera schifezza, quando scendi non cammini per un minuto tanto ti fa male il sedere. Certo una ragazza con quella bici se ne sarebbe andata sulle 'stradine di campagna', tutta fiocchi e cappellino di paglia. Lui puzzava di sudore, la maglietta fradicia e i capelli bagnati attaccati alla testa ma si sentiva un vero 'macho'. In questo paesaggio non ci sono mai femmine? Mai nessuna che ti saluti con la mano o ti fermi. Paolo per una bella ragazza si sarebbe fatto fermare, al diavolo la statistica e i tempi. Non c'era nessuno, solo lui e la bici rossa.
Attento, i rospi, che schifo! sempre sulla strada e mai negli stagni. Hanno forse una passione per i ciclisti? E se fosse una principessa? No! Non mi fermo a baciarne uno, mi fa troppo schifo, metti che diventa un principe che faccio?
Paolo, pedala che mamma ti aspetta!
I covoni di fieno, gli steccati bassi, le curve a gomito, si sale, Paolo. La collina è nel percorso del campionato, tanto vale provare. In piedi sui pedali, il sedere che dondola a destra e sinistra e si sale. Niente rospi, qualche scoiattolo che si piazza sulla strada come i rospi. Saranno parenti? O tifano per Paolo?
Le ragazze non ci abitano in collina e non vengono neanche a farci una passeggiata. Paolo ancora poco, poi scendi e vai dalla mamma. Sì, ancora un po', mi sto divertendo, chissà se incontro una ragazza. Il paesaggio al tornante è bello, fa ancora caldo questo pomeriggio, ci sarà ancora un'ora di luce fino a sera, arrivo giù per cena.
Il sudore scendeva sulla schiena e i pantaloncini stretti si erano fatti un tutt'uno con le cosce magre velate da una prima peluria. Ma lui continuava a sognare e a salire, lento. Ripensava alla nonna Anna, che gli strillava dietro ogni volta che lo vedeva sulla bici. Gli spaventava le bestie, diceva! Rideva Paolo al ricordo di quelle urla, ancora vive nella sua memoria. La nonna che faceva finta di prendere la corsa per acchiapparlo e si fermava al primo fiato grosso, ai maiali della nonna, quelli sì come i cavalli che avevano paura del campanello della bicicletta e Paolo quel campanello lo faceva suonare, una, due, dieci volte fino a far spaventare le bestie per il gran chiasso che faceva. Le donne della sua infanzia da poco finita.
Gli uomini della sua famiglia erano nei campi dalle prime ore del giorno, quando era ancora buio e freddo. Rumori di scarpe pesanti, odori forti e voci sommesse, quasi un pigolare in quelle prime ore.
Paolo di questo mondo della sua casa conosceva poco. Raramente si svegliava così presto. Se accadeva, doveva aver fatto di certo un brutto sogno e presto con le coccole della mamma sarebbe rientrato nel sonno.
Gli uomini era figure grandi e scure che riempivano la stanza con i tratti sfumati da occhi assonnati, le loro voci ovattate chiuse in monosillabi, i discorsi dei grandi che non capiva mai. Spesso si riaddormentava in braccio alla mamma. Eppure ricordava, aveva sempre aspettato paziente il loro ritorno, del padre, degli zii e dei fratelli. Ricordi della terra e del fango sulla pelle e sulle scarpe. Odori che scandivano le sue giornate e che lo avrebbero accompagnato per l'infanzia.
Giusto un anno prima gli uomini avevano cominciato ad andare via dalla casa. Lontano, diceva la mamma. Sarebbero tornati presto. Non sarebbero tornati affatto, pensava Paolo. Qualcuno in paese aveva parlato di guerra. Di guerra non si era mai parlato. Forse quando era bambino il papà di Paolo e i suoi fratelli erano ancora piccoli. Lui, il nonno non l'aveva conosciuto. No, non se l'era portato via la guerra, era morto a casa come è giusto che facciano i vecchi. Della guerra parlavano i bambini come di una favola di un paese lontano. Per la prima volta aveva visto nella sua casa uscire dal granaio i fucili, le canne più corte di quelle da caccia, più pesanti diceva il padre! ma più precisi per sparare da vicino. Perché da vicino, così gli animali ti vedono, si spaventano e scappano. Dobbiamo sparare ai nostri nemici, fu la secca risposta.
Paolo non fece più alcuna domanda a suo padre sulla guerra. Più tardi avrebbe capito che non lo avrebbe più rivisto, ora pensava solo che per le spiegazioni si poteva aspettare il tempo del ritorno dalla caccia ai nemici.
Qualche settimana più tardi partirono gli zii e i campi furono abbandonati a se stessi. Le donne avevano la sola forza di coltivare l'orto e di accudire le bestie, questo poteva bastare per la piccola famiglia. I fratelli adolescenti partirono qualche mese dopo. Così come erano, vestiti da paese con le loro gambe secche, i toraci ancora stretti, le pance vuote. Per loro non c'era fucili da caccia e Paolo non capì mai per quale ragione dovessero partire per una caccia senza armi.
Raggiungeranno papà e gli zii, disse la nonna, poi la casa tutta si chiuse nel silenzio. Passarono due lunghi anni. Paolo aveva dieci anni, quando una bambina del paese, dovendo andare via, gli lasciò la sua bicicletta rossa. Almeno così, credeva Paolo.
Paolo! Paolo! Dai! Paolo lascia il casco, togliti i guanti, posa gli occhiali. È solo un 'virtual' game. Ma tu sei lo stesso splendido, Paolo, che vieni da Sarajevo, lì c'è ancora la tua gamba maciullata su una mina. E continua a correre, Paolo, vincerai il campionato tu e la tua 'rossa'!
Qui nel mio bar. Tua Elisa.
 
dicembre 1998

 

Classifica Concorso Club poeti 1999 sezione narrativa
 
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inseritoil 28 magio 1999