Autori contemporanei
affermati, emergenti ed esordienti

Elena Stipetic
Con questo racconto ha vintol'undicesimo premio al concorso
Marguerite Yourcenar 2004, sezione narrativa

PENSIERI SENZA PRETESE
 
 
Inzuppava con cura quel biscotto nel caffé. Pochi secondi nel caffé ancora caldo, uno sguardo accurato per decidere la dimensione del morso e poi… una delizia per il palato. Quella sostanza granulosa sulla lingua, il gusto dolce e vanigliato da giungere sino al naso. Fissava di volta in volta la tazzina e poi il biscotto successivo mentre andava assottigliandosi il tempo ancora disponibile per far vagare i pensieri in questo torpore dei sensi.
Fuori pioveva. Una pioggia fitta e sottile che accumulandosi nella grondaia faceva sentire il suo cadere rumoroso. E poi il calare della sera accompagnato dal canto degli uccelli. Eppure, pensava, siamo a gennaio, che strano. Il canto degli uccelli le ricordava l'irrefrenabile desiderio di primavera. Il sole tiepido sulle guance, i profumi nuovi, le rinate energie. Invece, non c'era altro che questo inverno di alberi spogli, sciarpe, freddo… ma anche di tramonti stupendi. Ora ricordava l'ultimo. Il sole rosso come il fuoco che irradiava il cielo spicchiettato dalle case o campanili di chiese. La sua rotondità perfetta che gradatamente spariva sulla linea dell'orizzonte, e quel senso di unicità che riempiva la sua mente. Non si stancava mai di guardare i tramonti, forse perché il senso di bellezza perfetta e intensa che malinconicamente segnava la fine di un giorno aveva in sé anche i germi di speranza per il giorno dopo. Non era possibile soccombere al pensiero che la vita fosse un inferno, con quella immensità che attraverso gli occhi colmava il cuore. La vita, pensava, doveva pur riservarle del bello, qualcosa di unico. Si sentiva in quei momenti anche lei unica, degna di essere felice e realizzata.
Faceva un respiro profondo e continuava a correre tra autobus, macchine, strade, gente, libri, discorsi con la paura che la corsa iniziata non avrebbe mai toccato la fine ma si sarebbe trasformata in un sopravvivere ancorato con una zavorra alla difficoltà di vivere.
Come un'improvvisa realizzazione aveva pensato a tutto questo mentre con la schiena appoggiata fissava l'armadio aperto della stanza. Numero 36, primo piano, quattro metri per due all'incirca. Una porta bianca e a destra un lavandino con uno specchio. Pietoso come specchio. Pensò infatti che lo specchio non era affatto un oggetto da trascurare. Non era sufficiente che riflettesse l'immagine, doveva anche incorniciarla con cura come fosse un quadro. Lo specchio era un io che guardava se stesso e si dava un giudizio. Un io soggettivo che si faceva condizionare dalla luce, dall'ambiente circostante, dalla posizione. In un attimo poteva creare un dio, un miserabile, uno qualunque o nessuno. Il peso del corpo le ricordava ogni giorno che era lì e che, consapevole o meno, doveva andare avanti, ma guardandosi allo specchio il peso spariva. Per un attimo poteva concepirsi come un'immagine. I capelli con quei ciuffi ribelli. Aveva scelto di tagliarli corti perché le davano più personalità e invece questo ciuffo sul lato sinistro smontava l'immagine di ordine e compostezza che voleva dare. Una vera tortura dover combattere contro la piega naturale del capello. Ogni shampoo era la speranza che i nuovi capelli sarebbero stati perfetti. Si capisce che di tanto in tanto capitava anche ma il tempo segnava inesorabilmente l'arrivo di un nuovo shampoo. Tuttavia, gradiva il colore castano dai riflessi rossi. Poteva considerarsi soddisfatta in fondo. Gli occhi grandi e chiari. Chiari! Ci teneva a dirlo che nei giorni di pioggia, come oggi, erano verdi mentre nei giorni di sole erano di un azzurro che gradiva particolarmente. Era forse la cosa più bella che aveva. Di tanto in tanto studiava anche le espressioni. Il potere di uno sguardo era la chiave del successo, pensava. Colui che aveva personalità con lo sguardo poteva incutere timore e rispetto. Avrebbe voluto essere capace di farsi rispettare con il solo sguardo e di comunicare l'idea di serietà, rettitudine ed autorità. Ma al tempo stesso voleva conservare la capacità di comunicare dolcezza ed arrendevolezza con le persone che amava. A pensarci bene il plurale in questione era eccessivo. Conosceva solo un amore, ancora fragile ed impaurito la cui dimensione le faceva paura. Un amore per cui riservava tutti i suoi sguardi teneri e un po' sciocchi come quelli dei bambini che vedono le cose per la prima volta. Il plurale era quindi eccessivo perché per tutti gli altri riservava solo dell'affetto contenuto perché aveva sofferto e continuava a soffrire e tuttavia non riusciva ad essere dura con chi le stava accanto.
Alla bocca e alla carnagione non aveva mai dato peso. Tuttavia forse un po' pallida e la bocca un po' piccola, tanto da sembrare insignificante. Anzi, a pensarci bene, gli angoli della bocca avevano una impercettibile pendenza che le dava a volte un'aria seria e cupa. Infatti, risultava di gran lunga più piacevole il suo volto quando sorrideva. C'erano invece labbra che davano personalità, come quelle di lui. Si sorprese a sorridere. Possibile che i suoi pensieri fossero ormai occupati dalla sua immagine così nitida e viva. Le sue labbra erano sottili e lunghe. Perfette sia nei suoi momenti di serietà sia durante la risata. Sottili e chiare da sembrare quelle di un bambino, specialmente quando lo guardava dormire.
Lo specchio, insomma. Uno specchio che si ferma alle spalle. Un'immagine tagliata, parziale di se stessi. Apprezzò per un attimo quando disponeva di uno specchio in cui si rifletteva tutta la sua figura. Era come avere l'impressione di possedersi.
Di fronte un appendino a muro, le scarpe sotto, proseguendo l'armadio e degli scaffali in legno. Oltre ai libri vi erano appoggiati anche degli scacchi. Non era affatto brava, ma avrebbe voluto. Un gioco di testa, di strategia ed ottimizzazione delle mosse. Erano un allenamento alla vita, evitare di trovarsi in una situazione di scacco al re o quel che è peggio di scacco matto. Non ci era riuscita. Poca lungimiranza ed attenzione verso le mosse dell'avversario.
Un tavolo con di fronte la finestra completava il suo mondo. Ma che fosse quello il suo mondo non ne era affatto certa.
 
La sveglia suonava quasi sempre alle sette. A volte aveva l'idea coraggiosa di puntarla alle sei per studiare. Era solo un'idea poiché regolarmente il calore delle coperte e quella morbidezza e profumo che le lenzuola acquisiscono dopo qualche notte avevano la meglio. Com'era confortante crogiolarsi nel tepore. Era come tornare bambini e sentirsi in un certo senso coccolare. La penombra escludeva il mondo con le sue battaglie e proponeva un ritmo più lento, un vivere più quieto e sognante. In questa penombra si sorprendeva a sognare ad occhi aperti. Era lei il centro dei sogni. La realtà, invece, era molto diversa da questi. La bellezza era solo accennata e il coraggio lasciava spesso il posto alla disperazione. I casi estremi c'erano, ma molto meno facili ed eroiche erano le soluzioni. La forza auspicata era sostituita dalla fragilità. Si sentiva come un fiore che aspetta inesorabile l'ora d'essere calpestato o colto. Sentiva di poter essere spezzata e di non avere la forza di ricostruirsi. Ogni giorno correva il rischio di perdere un frammento di se stessa, mentre avrebbe voluto serbarsi intatta fino alla vecchiaia.
Faceva fluire così le sue idee finché l'inesorabile scorrere delle cose non la richiamava alla realtà. Insopportabile se il richiamo giungeva in ritardo. Incominciando di fretta la giornata rischiava di dimenticarsi da qualche parte. Il corpo non sembrava riuscire a riallacciare la comunicazione con tutte le sue parti, la mente si dissociava dall'essere e veniva subito proiettata nelle cose.
Cose, già la vita ne era piena. La cosa era quello che mangiava, quello che vestiva, quello che leggeva, quello che insegnava, vedeva, comprava. Ma la cosa non le bastava. Lei vi cercava l'essenza. Il cibo era profumo, armonia di gusti. Il vestito era personalità e umore. Un libro era un'anima, una vita, una ricerca. Ciò che insegnava era esperienza, passione e sentimento. Ciò che vedeva era un'idea, una concezione. Ciò che comprava era un piacere, una scelta, una soddisfazione. Alla fine, pensò però che né quel libro appoggiato sul tavolo in attesa di essere letto mentre il tempo vi si accumulava con strato uniforme, né quella maglietta nera così seducentemente scollata, che se avesse avuto un po' di seno avrebbe reso irresistibile anche lei, né quei biscotti alla panna che voracemente divorava nei momenti di sconforto o di nervosismo, né il malinconico e sognante Leopardi o il simbolico e magnetico West avevano senso al di fuori dell'essere umano. Rimanevano tutte delle cose fatte di molecole e legami chimici. Cose che potevano essere definite perché esistenti, ma che acquisivano vita solo nel momento in cui venivano usate, consumate e riadattate alla vita di chi le stava maneggiando. Un libro su uno scaffale era semplicemente un mucchio di pagine più o meno bene rilegate. Utile, nel migliore dei casi, a rendere piacevole la libreria al visitatore occasionale, oppure come segno di una falsa conoscenza. Invece, un libro gelosamente curato e custodito, trasportato da una borsa all'altra, da un treno all'altro come fosse un figlio, oppure sfogliato e sottolineato mentre le pagine s'impregnano di profumi come quello sfaccettato, dolce e pungente, armonioso ma non uniforme o arrendevole della giovane donna che vi cerca la strada della sua vita; di odori, come quello appiccicaticcio e umido della nebbia di Milano, un odore così malinconico che porta con sé i frammenti anneriti di palazzi storici, strade pullulanti di gente in azione o di trascinati dalla folla, vie larghe e spaziose dove è possibile perdersi; di tocchi, come quello energico di un uomo che durante la giornata trasporta, riordina, sorregge e che alla sera dolcemente accarezza le sue pagine; di respiri come quelli che sanno di dentifricio alla menta, di vino rosso, corposo e seducente, di una pizza e birra consumate in compagnia; di sogni come quelli candidi di un bambino o quelli simili ad illusioni di una donna che vede svanire la propria bellezza consumata per un uomo che ormai non la guarda più perché tutto ciò che di lei aveva apprezzato erano solo le caratteristiche fisiche; di lacrime per un viaggio senza ritorno come ogni scelta prevede. Un libro così, è vita. Vita donata da chi legge. Senza l'uomo, pensava, niente in fondo aveva senso.
Ragionava così tra sé e sé mentre si accingeva a fare la doccia. Adorava l'acqua. Questa le dava un senso di libertà, rilassamento e purificazione. Nel periodo invernale, tuttavia, la cosa richiedeva una dose non indifferente di coraggio: esporre il corpo ancora caldo all'aria fredda. A volte il momento era di durata brevissima a volte invece, o perché il freddo era più intenso o perché si verificava un qualche imprevisto, l'asciugamano che dispettoso cadeva dalla sedia, il doccia schiuma che si attardava a scendere o qualche inaspettato getto d'acqua fredda, il brivido di freddo riusciva ad infiltrarsi fino all'interno del corpo lasciando una sensazione di disagio, inadeguatezza ed amarezza come quando la vita, così calda ed accogliente, viene improvvisamente sconvolta da un avvenimento inaspettato simile ad una folata d'aria che pare raggelare il cuore. Tuttavia, il benessere che ricavava dal sentire scendere l'acqua lungo il suo corpo valeva il rischio di sopportare qualche disagio momentaneo. Il getto d'acqua era simile ad un dolce abbraccio. Le gocce scendevano lungo la fronte, distesa e senza pensieri, e gli occhi serrati per poter ricreare uno spazio alternativo fatto di un niente sostanzioso, fino alle labbra semiaperte come quando aspettava con fremito le sue labbra vellutate. Dapprima solo un tocco leggero ma sufficiente per far risvegliare i sensi e poi una pressione sempre più incalzante e trasportante come di scambio di anime. Una mano poi nei capelli sempre più bagnati. Le piaceva essere accarezzata. Da un po' di tempo lui aveva preso ad accarezzarla con dolcezza e protezione come a ribadirle la sua presenza per sempre oppure come per ringraziarla. … Strofinava poi il doccia schiuma lungo la pelle fino a sentirla più morbida e rilassata. Uno strofinio dolce e costante. Era forse quello l'unico momento in cui involontariamente osservava il suo corpo. Non era solita guardarsi, forse perché le poche volte che l'aveva fatto si era vista con tutti i difetti: sedere troppo basso, gambe affatto affusolate, seno quasi inesistente, fianchi larghi, dita dei piedi quasi rattrappite con il mignolo raccolto e schiacciato quasi volesse non esserci. Eppure, a volte sotto la doccia riusciva anche a passarsi le mani sulle cosce e a vederle nonostante tutto ben formate, apprezzare la finezza dei suoi piedi, sentire sotto le sue mani la linea del collo che poi si snodava lungo la clavicola per scendere su un seno se non di dimensioni apprezzabili tuttavia ben formato, armonicamente integrato al suo corpo e vivo.
Un'asciugatura veloce per non guastare la sensazione di piacere con quel brivido a cui la vita pare ricorrere con piacere e poi il tuffo nello scorrere veloce e frenetico di volti stanchi o felici, addormentati o tormentati, di occhi valorizzati dal trucco oppure quasi nascosti dall'invasività dei colori, di labbra serrate ed inespressive o chiuse in una smorfia, o sempre in movimento quasi a voler divorare il mondo oppure a voler riempire l'aria di parole volteggianti perché vuote come palloncini che si perdono nell'aria, di borse essenziali con il telefonino dell'ultima generazione e la carta di credito, borse piene di fogli volanti contenenti frammenti di persone o di impegni, di un rossetto mezzo consumato, di un tappo di una penna inesistente, di un fazzoletto impregnato del suo profumo per sopportare meglio la sua assenza e trasformarla in un momento per rinforzarsi e donargli il meglio di sé al ritorno, perché egli ritornerà. Lei lo sapeva o almeno questo è quello in cui voleva credere perché sentiva che se l'avesse perso avrebbe perso se stessa.
Un tuffo in un ulteriore giorno della sua vita, pensava, ma "vita" è una parola troppo generica per voler significare sul serio qualcosa. Forse perché basta un niente per renderla trasparente un gesto, uno sguardo, un movimento della mano ma basta poi altrettanto una carezza, un soffio di alito per renderla eterna. Forse perché è tutto e proprio per questo niente. Forse perché invece di chiamarla vita bisognerebbe darle un nome per capire la sua importanza. Poterla scrivere con la lettera maiuscola per non dimenticarla. Perché la vita era il suo ciuffo ribelle, era quella stanza fatta di poche cose essenziali, era quel libro che avrebbe ancora letto o che avrebbe creato da sola.
Qualunque cosa fosse questa sua vita maltrattata e denigrata, resa protagonista contro la sua volontà, lei un solo nome sapeva darle. Un nome che sussurrava piano per non spaventare questi pensieri senza pretesa che le facevano compagnia in attesa che arrivi la primavera.

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 Ins. 13-12-2004