Autori contemporanei
affermati, emergenti ed esordienti

Elena Marchetti
Con questo racconto ha vinto il quarto premio del concorso Città di Melegnano 2002, sezione narrativa

...Hai sentito?
La palpebra si aprì, si chiuse. Poi di nuovo fu aperta... poi chiusa.
Ma era davvero quella una parola dal suono dolce e ridondante in quella bolla in cui i rumori rimbalzavano e nessuno a parte lui li sentiva? Nessuno li ascoltava.
Per nessuno esistevano.
Più volte si era chiesto se aveva senso continuare a produrre quel rumore, più volte si era trovato incompreso da chi comprende e solo fra tanti, ma mai come quando emetteva quel suono.
Felicità intorno a sé. La vita porta felicità, nel momento in cui diviene vita, nel momento in cui non lo è ancora, nel momento in cui la si attende: la vita porta felicità.
Così, quel giorno, dopo nove mesi, la vita riserbava un pizzico di felicità piccolo quanto un bambino appena nato, grande quanto un bambino la cui vita è appena scaturita dall'immenso vuoto.
Riaprì la palpebra, la richiuse.
Ancora. Poi smise. O almeno credo che smise, perché non lo sentii più, per molto tempo, quel rumore, quel suono, quello spostamento d'aria che causava un rimbalzo di tutti i fruscii, un ribaltamento di chi ascoltava e di nuovo un rimbalzo per trovarsi nel centro di qualcosa che non sentiva, che non si sentiva.
Forse non lo sentii...
O non ascoltai.
Di certo per il mondo la differenza era poca, se nessuno sente, niente esiste. Eppure a volte qualcosa continua a esistere, solo per qualcuno. Per lui.
Vide il buio, o forse non lo vide, non vide niente, visto che quando si vede il buio non si vede niente e quando non si vede niente è come se niente esistesse. Non vide dunque.
Ma la palpebra si era aperta, e poi chiusa.
Ecco, aveva avuto paura di non poter notare la differenza dalla chiusura all'apertura e infatti non c'era!
Forse smise di farlo perché la differenza non c'era, perché nessuno sentiva, e allora non esisteva, il suo rumore; non esisteva, niente.
E intanto fuori c'era la luce, c'erano i colori, c'era il sole e il fuoco, c'era la luna e la notte non c'era, perché tutti dormivano quando c'era la notte, e dunque per nessuno esisteva. Tuttavia qualcuno capiva e pensava ogni tanto a come fosse assurdo dover dimenticare qualcosa solo perché non la si vede o non la si percepisce, o, nel modo peggiore, non la si capisce. Tra tanti c'ero io, io che mi domandavo, che mi rispondevo e che mi ponevo altre domande, e ci sono ancora, sempre lì, tra tanti; uno, io, in braccio a qualcuno, impaurito da troppi sguardi impertinenti.
Certo, allora non conoscevo la verità, piangevo, ridevo, ma non soffrivo, perché non la conoscevo ancora, la verità, e non ci credevo che esistesse veramente questo mostro tanto potente e superiore a qualunque cosa che fosse incapace di non esistere, non ci credevo che tra tante cose ci fosse, non ce la facevo a credere in un mondo che non c'è solo perché non si vede, non ci credevo ancora che tra tanti, c'era la verità. Molti me l'avevano descritta come una candela, come un fuoco, come una luce, ma io avevo sempre rifiutato queste teorie, perché sapevo che la candela brucia, illumina, scalda e si consuma, e finisce, lascia niente; sapevo che il fuoco arde, che dona calore, sapevo che il fuoco illumina, ma illumina il buio, sapevo che dopo la luce c'è il buio e che dopo il buio non c'è la luce, ma ancora il buio.
E ancora per me il buio era niente, non lo capivo, il silenzio era tacere, non lo sentivo, il niente era niente, non lo percepivo, non l'ascoltavo, non lo vedevo...
Forse per questo vivevo, perché non guardavo, non ascoltavo, non capivo, perché ero immersa in una luce di "niente", abbagliata da un calore inconsistente, accecata da un rumore inesistente, stordita da un urlo anelante, eppure tanto inutile. Ancora nessuno aveva trovato risposta al perché "L'urlo" di Munch fosse così assordante eppure muto, al perché "la siepe" del Leopardi fosse così ostacolante e massiccia eppure invisibile, al perché qualcuno camminasse eppure nessuno avvertisse il suo avvicinarsi, al perché qualcuno guardasse, se nessuno illuminasse: per questo la prima volta che Lo vidi, ne rimasi stordita, accecata, abbagliata.
Era lì, si apriva, si chiudeva, non faceva rumore, non vedeva, non camminava, non.
Era niente, nessuno lo percepiva, lo avvertiva, lo sentiva, lo guardava o lo capiva, eppure mi accorsi che c'era.
Presi un pennello, lo dipinsi, volevo che ci fosse, così lo colorai, non ne disegnai i tratti, i lineamenti i contorni, né presi una tela, ma dipinsi il mare, perché sapevo che il mare era infinito, e non volevo dare limiti al mio niente: volevo che diventasse tutto, che gli altri potessero guardarlo e non stare senza parlare, che gli altri potessero gridarlo e non stare a bocca chiusa, che gli altri potessero dipingerlo e non stare senza pennello, né tela, volevo che gli altri lo colorassero; e che fosse rosso. In quel mare colorai i monti, le pianure, colorai i sorrisi e i pianti delle persone, colorai il mare, con l'acqua lo colorai e colorai persino me stessa, non volevo lasciarmi senza colore, non volevo essere disegnata, mi colorai.
Potei guardare dentro a quel colore e ci vidi... Non ci vidi la luce, non il fuoco, né una candela, non ci vidi l'alfabeto, né le note musicali, non ci vidi i colori, non il buio, non ci vidi, che il niente.
Allora sorrisi, l'avevo visto.
Ma ero sola, desideravo, sognavo, nuotavo e speravo, e capivo che tutto quello che facevo era niente e lo stavo facendo nel nulla, forse per nulla, per nessuno, forse nemmeno per la vita stessa. Fu bello, in quel nulla non essere delusa, che da niente, non piangere, che per niente, non conoscere il niente, non soffrire che per niente, non amare nulla, non essere privata che di nulla.
Ma non capii che anche il mio sorridere, era per nessuno, anche l'essere felice, era nulla, là c'era solo il niente. Solo. Non penso che fosse poco, ma era da solo, con nessuno, a parte il niente, e con me.
E io navigavo nel mio niente, l'avevo colorato, ne ero fiera, l'avevo dipinto senza limiti, senza sentimenti, senza tristezza, l'avevo dipinto di niente sentendoci tutto, l'avevo dipinto di tutto, non creando, che il niente. Là io potevo urlare, potevo cantare, potevo ridere, potevo soffrire, nessuno mi avrebbe sentito, perché nessuno mi avrebbe ascoltato, visto, come io prima facevo, fra tutti. Molto spesso mi avevano chiesto chi ero e io mi ero presentata dicendo il mio nome, molto spesso mi avevano chiesto di cantare e io avevo cantato una canzone, molto spesso mi avevano domandato di gridare e io avevo detto qualcosa ad alta voce, ma mai ero riuscita a capire cosa significasse gridare spaccando qualsiasi limite di spazio e di tempo, varcando l'oceano, il cielo, l'infinito, superando il sole, il tramonto, l'alba, le stagioni, strappando le nuvole e dividendole in figure da scegliere; mai avevo capito cosa significasse poter gridare e sentire che nessuno ti invita a non gridare la verità, o il falso, a tacerlo o a dirlo sottovoce, non capivo cosa significasse arrivare ai piedi di una montagna, guardarla, toccarla e poter dire di aver portato l'infinito in quel monte.
Mai, prima di averlo visto quell'infinito. Di certo però non mi immaginavo che il mio infinito, o meglio, l'infinito comune, fosse come l'insieme dei numeri, aperto quindi, ma ugualmente divisibile in due metà simmetriche, da una parte i numeri con valore maggiore a 0 e dall'altra quelli minori di 0; né mai mi ero immaginata come fosse realmente quello 0, in fondo era il niente, non aveva nessun valore, perché domandarsi che valore avesse il niente? Mai avevo pensato che l'infinito, il mio infinito, l'infinito comune, era il tutto, il niente.
Anzi, a volte avevo pensato che il tutto e il niente fossero la stessa cosa. Ma di certo ancora non avevo mai colorato. Il niente, perché il tutto è già stato dipinto. Molto tempo fa.
Quella volta ci provai, a colorare il mio niente, il niente comune, e quel niente divenne solo mio, come quando ne "Il piccolo principe", il bambino addomestica la volpe e la fa sua in modo che ogni volta questa sia capace di vedere nei girasoli l'oro dei capelli di lui; peccato che nel niente non ci fossero girasoli, peccato che i miei capelli non fossero color dell'oro, peccato che il niente fosse così... vuoto.
Allora gridai.
 
Così gridai, avete sentito?
Allora avete sentito?
No?
No, il mio grido era niente, in quel mare di vuoto assoluto in cui si sperdono i personaggi dell'epica, del mito, in quel tempo assoluto per cui la donna dell'"Urlo" di Munch continua a gridare. Gridai.
Ma nessuno udì.
In fondo solo dopo mi ricordai che un giorno qualcuno mi aveva chiesto se avesse senso non produrre rumore, che per il niente, per nessuno.
Vidi il mio pennello e compresi che quello che avevo dipinto era solo un'utopia, un brano di silenzio gridato al vento e che si sperde nell'immensità di una soffice nuvola densa e gonfia. Presi il mio pennello, gettai il colore su di me, mi abbassai, sedetti nel mare e andai a fondo, così non feci che rovesciarmi e ridere girando nel fondo del mare, rotolando sulla sabbia e spargendo il colore su di essa, fino a quando non caddi in preda ad un sorriso che rianimò le mie guance pallide di un timido rossore.
Riemersi e vidi il rosso del mio colore sparso nella sabbia e sopra il mare.
Domandai.
Aprii una palpebra, la chiusi, la riaprii e compresi.
Compresi che tra una montagna e l'altra che avevo dipinto d'infinito c'era gente che gridava...
 
Così! L'avete sentito?
Sì?
Grazie di avermelo detto, così potrò continuare a vedere il riflesso dell'infinito su tutto il mondo, soprattutto su tutte le persone che ne fanno parte e che gridano di aver toccato un monte e di aver visto subito dopo la propria mano dipinta di rosso.
Grazie, per gli sguardi impertinenti che insinuate tra le mie lenzuola.
Grazie per il petto che troppo forte mi stringe a sé.
Grazie per la vita.
Grazie.
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 Ins. 10-01-2003