Autori contemporanei
affermati, emergenti ed esordienti

Domenico Casa
Con questo racconto ha vinto il primo premio del concorso Fonòpoli - Parole in movimento 2001-2002, sezione narrativa
Invenzioni

E' vero. Abitavo da quelle parti e vi abito ancora. Non a caso passate e ripassate sotto i miei scogli. Voglio raccontarvi la mia storia, una volta tanto dal mio punto di vista. Hanno parlato tanto di me, loro. Ma nessuno mi ha mai interrogata, intervistata, chiesto un incontro chiarificatore. Ho taciuto per secoli. Ora basta con le invenzioni. Basta con la favola della donna bellissima con il corpo e le piume di uccello. Guardatemi, osservate i miei fianchi. Sembrano quelli di un volatile? Davvero bizzarri i loro occhi. Che dire poi delle insinuazioni? Non mi sono mai nutrita della loro carne.

Se si fosse trattato solo di fantasie, avrei lasciato correre. Invece per loro sono proprio così, con gli artigli di uccello.
Hanno detto che il nostro compito era allietare la vita degli uomini, accompagnarli nelle prove, mitigare l'amarezza della morte e rendere meno doloroso il trapasso. Fin qui c'è qualcosa di vero. Poi hanno cominciato a inventare nomi: Imeropa, Aglaope, Peisinoe. E ancora: Partenope, Leucosia, Ligea. Per madre ci hanno dato una musa, per padre Acheloo.
Ma noi siamo da sempre. Da sempre cantiamo.
Ero ancora bambina. Mi piaceva ascoltare la mia voce e diffondere le mie melodie dintorno. Spesso i vicini mi chiamavano per riascoltarmi. "Canta ancora il motivo di ieri".
Non mi lasciavo pregare. Il canto era la mia vita. Gioivo nel vedere i volti rilassarsi e descrivere stadi successivi di gioia. Avevano a tal punto imparato i miei motivi che spesso mi accompagnavano in falsetto o in sordina. Ero sempre con loro, durante il lavoro, nelle pause, nelle feste, nei momenti difficili, pronta a soddisfare ogni richiesta. Perché io ero e sono il canto, spesso dimenticato. Chi lo dimentica o lo disprezza è perduto. Anche le pietre lo ascoltano e lo ripetono negli echi. E tutto è canto, il vento garrulo, la pioggia ciarliera, le onde del mare. Chi sa ascoltare, sente la musica del sole che ruota e si tuffa nel mare, i concerti della notte, la danza delle stagioni.
Io sono là dove è il canto e il canto è la vita.
Mi fermo solo alle soglie della morte dove non posso accompagnare. Non tollererebbero il dio e la dea l'interruzione del loro silenzio. Invitavo a cantare finché dura la vita. Si sa bene che dopo, nessuna lira commuove gli dei senza volto. Passavano giovani e vecchi, fanciulli che ostentavano l'iniziale penuria e uomini maturi, poveri, ricchi, operai, borghesi, nobili. Tutti venivano ad ascoltarmi. Ricordo ancora i loro visi inteneriti e le carezze.
Un pomeriggio di mare quieto me ne stavo seduta su uno dei miei scogli. Il canto era più dolce del solito per la luna che saliva dal mare. Non so fin dove giungesse la mia voce, ma sentivo che andava lontano e toccava i cuori di molti. Forse tutti, tranne uno.
Lo vidi arrivare in tutta fretta. Il suo viso era cattivo e perverso. Gli occhi parevano volermi trafiggere. Non capii lì per lì le sue intenzioni. Non ne ebbi paura. D'altronde, anche se avessi intuito il suo pensiero nascosto, non sarebbe cambiato niente. In un batter d'occhi mi fu addosso. Il mio canto si trasformò in lamento e gemito. Prima non avevo conosciuto il dolore.
Allargò le mie gambe. No, non erano di uccello e la mia pelle è stata sempre vellutata. Credete che si sarebbe avvicinato se fossi stata mostruosa e ripugnante? Non avevo artigli, altrimenti mi sarei difesa. Sembrava volesse entrare tutto in me, dividermi in due. Fu brutale. Mi scaricò addosso e dentro la sua rabbia accumulata nel tempo.
Ma perché contro di me? Cosa gli avevo fatto? Era forse infastidito dal mio canto?
Se almeno mi avesse detto una parola, dato una carezza! Forse il dolore si sarebbe attenuato e non avrei potuto negargli il perdono. Più mi lamentavo e piangevo, più infieriva procurandomi altro dolore. Mi voltò, mi rivoltò, mi soffocò. Cercai un riparo alle sofferenze mordendomi le mani. Esausta, smisi di lamentarmi. Fu questo, forse, che lo indusse a portare a termine il suo misfatto.
Non riuscivo a credere di essere ancora viva quando si rialzò. Continuò a guardarmi con gli occhi pieni di odio come se io gli avessi procurato del male.
Appena si scostò, in un modo che sembrava
naturale, mi alzai curvandomi sulle ginocchia. Lui si allontanò senza crucci e io diedi sfogo al pianto. Non avrei voluto più smettere. Allora mi accorsi del sangue e del liquido bianco dall'odore acre e nauseante. Seppi dopo cos'era. Non avevo la forza per rialzarmi. Avrei voluto diventare scoglio e non conservare il ricordo di quel giorno e dei suoi occhi.
Per la prima volta sentii di essere sola. Non parlai con nessuno di quello che mi era accaduto.
In passato avevo cantato fino a notte inoltrata.
Quella sera non ne avevo voglia e il groppo alla gola me lo avrebbe impedito. Non aveva senso cantare. Sarebbe stata un'altra violenza. Pensai che non ne avrei avuto più la voglia né la forza.
In poco tempo era cambiato tutto dentro e fuori di me.
Non dormii. Sentivo ancora il suo respiro, il dolore per tutto il corpo, maggiore dove più mi aveva oltraggiata. Vedevo i suoi occhi colmi di odio, il sangue, lo sperma. Così fu anche durante le notti successive. Non sentivo più nemmeno le mie due amiche. Spesso il canto di una sollecitava le altre. A volte facevamo a gara. Non di rado improvvisavamo dei cori. Riuscivano sempre bene.
Una mattina ne incontrai una. Ci guardammo. Mi comunicò una tristezza pari alla mia. Anch'io comunicai la mia. Il giorno successivo incontrai l'altra. Capitò la stessa cosa. Il terzo giorno c'incontrammo tutt'e tre. Ci guardammo negli occhi. Nello stesso istante uscì dalle nostre gole una melopea dolorosa e triste.
Da allora è il nostro canto.
Sono molto cambiata. La gioia di un tempo non è più tornata. Lui disse in giro che ero stata io ad attirarlo col canto e a tentarlo. Una volta avvicinatosi, lo avevo terrorizzato con i miei strilli. L'abuso e la violenza erano stati una difesa. E poi di un uccellaccio non c'era da avere pietà. Le ossa lungo gli scogli? Sono di quelle che non hanno resistito. Lui è stato divorato e le ferite che ostenta se le è procurate da solo. Il mio canto è ancora ascoltato. Vengono come sempre. Ma anche loro avvertono che qualcosa è mutato nella mia voce. Mi manca la spontaneità e spesso ho paura. Anch'essi ne hanno. Siamo divisi. Stanno alla larga, temono tranelli, immaginano dietro o dentro il mio corpo animali onnivori e assassini. Hanno creduto a lui e, quando si avvicinano, si comportano allo stesso modo.
Uno solo riuscì a capire il nostro canto. Quel giorno in coro abbandonammo l'antica tristezza. Lo invitammo ad avvicinarsi. Voleva avvicinarsi, ma era legato all'albero della nave. Cercò di svincolarsi e di far cambiare la rotta ai compagni. Troppo tardi. I compagni diedero nuovo vigore alle braccia accelerarono il ritmo dei remi. Lui avrebbe visto e modificato il nostro destino e la storia. Poté solo ascoltare da lontano senza la testimonianza degli occhi. E io sono un orrore con il volto di fanciulla dalla dolce melodia su un corpo di uccello rapace.

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Agg. 04-04-2003