Autori contemporanei
affermati, emergenti ed esordienti

Domenica Colaianni
Con questo racconto ha vinto il decimo premio ex-aequo al concorso
Marguerite Yourcenar 2006, sezione narrativa

«Gli alieni»


Il nuovo quartiere era circondato dalla campagna e, visto da fuori, faceva l'effetto di un fiore stonato.
Ci trasferimmo là quando ero ancora molto piccolo e perciò dei primi tempi ricordo poco, a parte le lacrime di mia madre. Il giorno del trasloco ad esempio lo ricordo benissimo, perché mia madre pianse tutto il tempo: pianse mentre si chiudeva alle spalle la porta della vecchia casa, pianse lungo le scale e pianse copiosamente durante il tragitto in macchina, mentre si girava a guardare la città che si allontanava sempre di più ed era come se gliel'avessero strappata dalle viscere.
Ma si trattava di un'illusione ottica, perché la città non era poi così lontana. In realtà stava solo al di là di un viottolo di campagna, solo che era piuttosto lungo e soprattutto impervio. In inverno era il più delle volte impraticabile, ne sapevano qualcosa i ragazzi che frequentavano le scuole medie e il liceo, perché lo percorrevano fisso due volte al giorno, ma anche di più se avevano, come mio fratello Sergio, tutti gli amici in città.
Invece noi bambini eravamo più fortunati, perché non dovevamo scarpinare in mezzo al fango. Il comune infatti, dopo le proteste dei genitori, aveva requisito dei locali che stavano nel quartiere e vi aveva distaccato alcune sezioni dalla scuola elementare più vicina. Le aule della scuola per quanto spaziose, non erano però un granché e a tutti sembravano più adatte per farci un deposito, un garage, al massimo un emporio. Quando faceva freddo non bastavano i termosifoni a riscaldarci e non riuscivamo nemmeno a stringere la penna per il gelo, ma era anche peggio quando cominciava a far caldo, perché le aule si trasformavano di colpo in forni crematori.
Nel quartiere c'erano ancora pochi negozi e il mercato lo improvvisavano ogni giorno i contadini, che venivano con i carretti trainati dai muli a portarci le mele con i bachi vivi e vegeti, la verdura con il terreno e i lombrichi attaccati saldamente alle radici e le uova appena covate, sporche di sterco da fare schifo. Mancava solo il baratto, ironizzava mia madre, che storceva il naso e, con alterigia, non toccava mai niente senza guanti.
Quando arrivava la bella stagione, tirava un sospiro di sollievo, perché finalmente poteva prendere il carrello e andare in città a fare la spesa. Però non voleva andarci da sola e quando finiva la scuola mi costringeva ad accompagnarla. Io protestavo, spesso piangevo, ma il più delle volte andavo.
La stradella che portava in città correva proprio alle spalle della nostra casa, oltre i campi che in primavera erano un tripudio di margherite. Dalle altre parti le margherite erano bianche e gialle, confuse con i fiori di camomilla e interrotte dal rosso dei papaveri, ma lì chissà perché erano solo bianche, un bianco che feriva gli occhi. A una certa ora del mattino su quel viottolo passava un gregge di pecore, sempre lo stesso, con un pastorello vestito di stracci davanti e una cane nero che abbaiava dietro. Io aspettavo in vedetta sul balcone che scomparisse quel fiume di lana e poi uscivo con mia madre, agghindata a festa. Era una bella donna, una bionda mozzafiato dispotica e appassionata e tutti gli uomini si giravano a guardarla.
Io l'avrei preferita meno vistosa, magari grassa e semplice come certe donne del quartiere che andavano in grembiule a raccogliere nei campi le cicorie selvatiche e non si vergognavano di niente, nemmeno di mostrarsi in bigodini sul balcone. Mia madre invece, se qualcuno suonava alla porta, il grembiule se lo toglieva immediatamente e controllava davanti allo specchio strategico dell'ingresso la tenuta del rossetto. La sua civetteria però non era fatta apposta, le veniva naturale e in fondo che colpa ne aveva se era così bella e raffinata, se, vista da fuori, in quel quartiere, faceva anche lei l'effetto di un fiore stonato.
Quando finivamo di attraversare il viottolo avveniva una specie di miracolo, mia madre si trasformava: raddrizzava la schiena, spalancava gli occhi, spianava il sorriso ed era bellissima, splendente più della giornata di sole. In fondo bastava un giro in città per farla contenta e a me faceva piacere vederla così, perché non capitava tanto spesso da quando abitavamo lì. Il suo buon umore però durava poco, perché il ritorno a casa su quella stradella infuocata era tragico. Arrancavamo come bestie, trascinando il carrello carico che s'inceppava sulle pietre e minacciava di rovesciarsi. Ogni tanto ci fermavamo, storditi dal sole, in cerca di un riparo sotto un albero, del riposo su un sasso, ma in quel punto non c'era proprio nulla, era un deserto senza miraggi.
Il sudore decomponeva la bellezza prorompente di mia madre e gli ultimi brandelli di allegria le si spegnevano in un sospiro eloquente. Io invece, con la scusa di asciugarmi il sudore, mi coprivo gli occhi per non vederla e allungavo il passo, ammiccando verso il fondo, perché già vedevo il verde brillante dei prati e più giù il cemento grigio della mia amatissima casa.
Le opinioni sono diverse come gli occhi che guardano e i nostri lo sono sempre stati in tutto e per tutto.
Sul fatto della casa i miei genitori litigavano spesso. Mia madre teneva sempre una valigia sotto il letto e quando la lite arrivava al culmine, faceva come nei film: gridava, piangeva e cacciava i suoi vestiti alla rinfusa nella valigia, minacciando di andarsene da sua madre, un classico. Quei film li vedevo anch'io, ma non mi piacevano, mia madre invece se li beveva come l'acqua, solo che lei, a differenza delle attrici non arrivava mai vicino alla porta, perché mio padre trovava sempre la maniera di farla tornare indietro. Una di queste ad esempio era quella di distrarla un po', portandola al cinema a vedere un film d'amore. Chi di spada ferisce di spada perisce. Io pensavo che mio padre era un pazzo a farglieli vedere, perché lei prendeva spunto e spingeva di più sul pedale del ricatto sentimentale. Secondo me lei periva meglio a teatro, quando vedeva le opere liriche, perché piangeva tutto il tempo, ma era un pianto liberatorio con cui sfogava tutta la sua amarezza e stava zitta per qualche mese.
In fondo mio padre lo capivo se ne era perdutamente innamorato, lo ero stato anch'io, quando non la conoscevo bene, ma poi per fortuna la cotta era passata, invece a lui no e perciò la mia paura più grande era che alla fine cedesse al ricatto e quella sì, sarebbe stata proprio un'immane tragedia, perché io invece amavo quel quartiere, per me era un luogo magico, ma ero troppo piccolo per spiegarlo a mia madre.
Una volta però ci provai, la presi per mano e le chiesi di portarmi in campagna, lei dapprima disse di no, ma poi cambiò idea. Portai con me il pallone che mi aveva regalato mio padre per il compleanno, era nerazzurro come la maglia dell'Inter, la nostra squadra del cuore. La guidai verso un bel pezzo di prato proprio alle spalle della nostra casa dove l'erba era piuttosto corta, le lasciai la mano e corsi verso una specie di porta che mio padre aveva costruito, piantando dei paletti di legno nel terreno.
Di fronte ce n'era un'altra uguale e identica e io dissi a mia madre di mettersi lì e di parare il mio tiro. Lei non ne voleva sapere, ma i miei strilli alla fine la convinsero. Presi il pallone e lo sistemai sul prato davanti a me, arretrai di qualche passo e tirai in porta, un destro teso e imprendibile, che la colpì in pieno viso, rimbalzò e rotolò fortunosamente in porta, facendo proprio l'effetto che volevo, il danno unito alla beffa.
Col calcio ci sapevo fare, riuscivo a segnare anche quando sbagliavo, ma quella volta l'avevo fatto apposta. Quando il mio campo visivo si allungò, cominciai ad esplorare quel posto sul serio e la magia aumentò.
Dietro il campo di calcio infatti, dove terminava l'ordine, cominciava l'entropia, cioè la boscaglia fitta e selvatica. Io ne ero letteralmente soggiogato. Era una specie di magma, di fucina, era il luogo per eccellenza dove si potevano disegnare le geometrie di gioco più improbabili. Ogni giorno ne esploravo un pezzo, ogni giorno aprivo una porta ed entravo come Alice, nel paese delle meraviglie. Così, di volta in volta, se mettevo un coltello di plastica tra i denti e una fascia intorno alla testa, ero Sandokan nella giungla, tigre egli stesso e quindi impavido di fronte alla feroce tigre bianca del Bengala e se invece mi sporcavo il viso con la terra e avvolgevo la testa con un ramo di foglie, ero il marines che aguzzava la vista, fiutava il terreno, apriva le orecchie e strisciava sui gomiti lento, silenzioso, inesorabile, velenoso come un serpente, stretto al fucile, a caccia di segnali: una piccola impronta, un ramo spezzato, una lucertola senza coda, la carta di una Booklyn e, a una certa ora: un torsolo di mela, un pezzo di biscotto, una crosta di pane, perché il nemico, quando è nervoso, ha fame.
Un giorno trovai nella cassetta degli attrezzi di mio padre un coltello con la punta molto affilata e con quello mi avventurai nel bosco. Per non perdermi cominciai a numerare gli alberi, incidendoli con la punta. Ero convinto che il bosco fosse immenso, ma mi sbagliavo, non era così grande. Contai infatti solo cento alberi e subito dopo trovai la città.
La riconobbi dapprima dall'odore e quando la vidi mi apparve stranamente diversa da quella che conoscevo, era più nuova e bella, con le strade larghe e l'asfalto posato di fresco . Però quel giorno non ebbi nessuna voglia di esplorarla, tornai indietro che era già sera e il bosco troppo fitto. Cenai in fretta e dissi a tutti che avevo sonno per andarmene di filato in camera mia. Ero stanco, ma non avevo sonno, volevo solo riflettere su quanto avevo visto. La stanza aveva un balcone e un grosso albero lo accarezzava, disegnando sui muri, coi suoi rami frondosi, stravaganti ombre cinesi, giocavo con quelle prima di addormentarmi. Mi stesi sul letto e mi girai di spalle, per non vedere il balcone, per non guardare l'albero, e i rami, e le ombre cinesi. Presi il coltello e lo rigirai tra le mani, passando e ripassando il dito sulla punta, ormai convinto che non mi servisse più, che fosse giunto il tempo di rimetterlo nella cassetta degli attrezzi e la certezza la ebbi proprio poco dopo, quando le tende cominciarono a svolazzare nella brezza notturna e un po' di luce s'infilò in quel piccolo spazio, illuminando la lama. Fu quel breve bagliore a farmi intuire la verità: la città avanzava, allungava i tentacoli, apriva la bocca come il fantasma divoratore dei miei incubi notturni, era vicina e presto ci avrebbe presi.
Quella notte sognai gli alieni. Scendevano dal cielo con delle grosse sfere di acciaio cromato. Erano tante e in poco tempo occupavano tutto il bosco intorno a noi. Io guardavo quella scena spaventosa come lo spettatore di uno dei film di fantascienza che mi piacevano tanto e il cuore mi batteva come un martello pneumatico. Poi, precedute da un sibilo da lacerare i timpani, le sfere finalmente si aprivano e un'enorme piattaforma si sollevava dal suolo, mentre io mi coprivo gli occhi con le mani per lo spavento, ma allargando le dita per vedere gli alieni in faccia.
Erano dei mostri, ma con qualcosa di familiare che mi lasciava perplesso, con quel tanto di inafferrabile, non perché misterioso, bensì già visto, anche se non capivo dove. Avanzavano lentamente, rotolando sulle zampe, alzavano in aria una specie di braccio simile a una proboscide e si guardavano intorno ruotando gli occhi rossi e verdi come semafori. Ogni tanto aprivano la bocca feroce, mostrando una fila di denti lunghi e aguzzi e azzannavano tutto, alberi, erba, rovi e sterpi, senza gusti particolari, al loro palato tutto sembrava commestibile, il loro stomaco digeriva tutto e del bosco intorno, in poco tempo, non restò più nulla.
Mi svegliai da quel sogno spaventoso pieno di paura e uscii sul balcone. Quella notte c'era la luna piena e illuminava a giorno gli alberi attorno, il vento ne agitava dolcemente le chiome e mi soffiava in faccia il solito odore di terra bagnata dalla rugiada. Tornai a letto e mi addormentai di botto. La verità non scese dal cielo, era al contrario molto terrena ed esigeva solide fondamenta.
Ero abituato al canto degli uccelli e a quello dei galli, al frinire incessante delle cicale, ai belati delle pecore, ma un giorno fui svegliato da una musica del tutto diversa, assordante e metallica, uscii sul balcone e vidi gli alieni del sogno spianare il campo di calcio. Il sole li illuminava e finalmente capii dove li avevo già visti: erano le ruspe, i bulldozer, le betoniere e le gru con cui giocavo quand'ero più piccolo, solo che questa volta erano a grandezza naturale. Mia madre era ritta accanto a me e sorrideva, ogni tanto alzava gli occhi al cielo e ringraziava.
Sulla lingua sentivo la polvere e davanti agli occhi vedevo solo un colore, bianco, bianco, bianco, un bianco che feriva gli occhi, ma non era quello delle margherite. Mio padre ci raggiunse poco dopo e mi scompigliò i capelli, poi mi guardò con i miei stessi occhi azzurri inumiditi e tristi:
«Dove giocherò?»- gli chiesi e lui mi
rispose:
«In Brasile i bambini giocano a calcio per strada e poi diventano campioni».
Così avrei giocato anch'io per strada, in qualsiasi posto avessi potuto sistemare due porte una di fronte all'altra: due pietre, due macchine, due pilastri, due piante, due siepi di margherite, solo che quelle potevo solo immaginarle perché non c'erano più. Le raccoglievo sempre in primavera e mia madre ne riempiva la casa. Ironia della sorte, fu proprio lei a porgermi pietosa un fazzoletto. Ma la sua finta pietà si rivelò di fatto provvidenziale perché mi fece così tanta rabbia che, a denti stretti, le dissi:
«Hai ringraziato il cielo troppo presto!».
Io, difatti, proprio non ci stavo a lasciarmi abbattere come un albero, né ad aspettare l'arrivo dei Tartari, rinsecchendo in quel deserto. Avevo molte cose da fare e tante decisioni da prendere, a cominciare da quella polvere bianca che si disperdeva finissima nel cielo e da cui bisognava difendersi coi pochi mezzi a disposizione.
Aprii il fazzoletto, lo piegai a triangolo e mi coprii il naso e la bocca. Così imbavagliato andai a guardarmi allo specchio e sorrisi soddisfatto. Non era più tempo di crogiolarsi nello sconforto. Mi lavai in un lampo, feci colazione e uscii alla riconquista di un mondo forse non ancora perduto, di una libertà a cui non potevo rinunciare senza lottare.
La giornata si preannunciava caldissima, il sole picchiava inesorabile e lasciava fare tutti senza esprimere opinioni e così pensai di regolarmi anch'io. Andai sul cantiere con i miei amici per fare un sopralluogo e con loro feci una scoperta interessante, i muratori avevano costruito le montagne e scavato le trincee, il gioco era fatto, non restava dunque che compattare gli eserciti e andare in guerra a combattere gli alieni.


Domenica Colaianni


 Clicca qui per leggere la classifica del
Premio Marguerite Yourcenar 2006

Torna alla sua
Home Page

PER COMUNICARE CON L'AUTORE mandare msg a clubaut@club.it
Se ha una casella Email gliela inoltreremo.
Se non ha casella Email te lo diremo e se vuoi potrai spedirgli una lettera presso «Il Club degli autori - Cas. Post. 68 - 20077 MELEGNANO (MI)» inserendola in una busta già affrancata. Noi scriveremo l'indirizzo e provvederemo a inoltrarla.
Non chiederci indirizzi dei soci: per disposizione di legge non possiamo darli.
©2008 Il club degli autori, Domenica Colaianni
Per comunicare con il Club degli autori:
info@club.it
Se hai un inedito da pubblicare rivolgiti con fiducia a Montedit
 
IL SERVER PIÚ UTILE PER POETI E SCRITTORI ESORDIENTI ED EMERGENTI
Home club | Bandi concorsi (elenco dei mesi) | I Concorsi del Club | Risultati di concorsi |Poeti e scrittori (elenco generale degli autori presenti sul web) | Consigli editoriali | Indice server | Antologia dei Poeti contemporanei | Scrittori | Racconti | Arts club | Photo Club | InternetBookShop |
 Ins. 19-09-2008