Autori contemporanei
affermati, emergenti ed esordienti

Diana De Rosa
Con questo racconto ha vinto il settimo premio del concorso Angela Starace 2003, sezione narrativa

NON PIOVERA' PER SEMPRE
Quando faticosamente riaprii gli occhi un fascio di luce chiara accolse il mio sguardo. Sentivo le palpebre pesanti dischiudersi lentamente, le stesse che fino a poco prima mi celavano alla vita, accoglievano nuovamente forme e colori, mi apprestavo a ritornare a vivere, ad assaporare il mondo. Dapprima la vista faticava, probabilmente anche perché la mia testa era appesantita da una leggera emicrania, mi sentivo come intontito, uno stato di confusione aleggiava nella mia mente. Mi sentivo inerme. Il corpo era attraversato da un fastidioso formicolio ed ero parzialmente impedito nei movimenti. Pensai che forse avevo l'influenza, così tentai di portare la mano alla fronte in modo da costatare la temperatura corporea, un gesto meccanico che, in un periodo normale, avrei compiuto con facilità, mi sembrò, invece, una delle dodici fatiche di Ercole. Solo nel compiere quel movimento, mi resi conto di avere dei tubicini che mi impedivano un movimento lineare. L'altra invece era tenuta stretta da una mano grassoccia e sudaticcia, leggermente dura e callosa, era sicuramente quella di mia madre, la riconoscevo dai segni di fatica che sulle mani, più che mai, testimoniavano quanto lei fosse una donna sacrificata al lavoro e alla fatica per i suoi figli. Non mi meravigliavo della sua presenza, lei era sempre stata per me come una presenza costante non invadente ma sempre vicina nei momenti difficili. Quel che mi chiedevo era: Cosa mai ci facevo in quelle condizioni? Dove mai mi trovavo? Guardai, finalmente, con attenzione l' ambiente in cui ero, mi accorsi di avere intorno a me molte macchine che misuravano la pressione e battito cardiaco, altre ancora il cui scopo ignoravo. Avvertii in quel momento il suono stridulo del classico "bip" che segnala il battito del mio cuore. Mi trovavo in una sala di un ospedale, di quelle classiche che tante volte avevo visto in E.R. Una camera spoglia, un letto scomodo, pochi elementi di arredamento, molti macchinari strani da film di fantascienza. Man mano riacquistavo il controllo dei sensi, così avvertivo particolari nuovi. Sentii l'odore pungente e tradizionale, quello che si insinua, spiacevolmente, nelle narici, quando si entra in una struttura sanitaria, quella mistura di medicinali, disinfettanti e sterilizzanti.
Mi ero svegliata da un lungo sonno, ero come rinato a nuova vita, consapevole di avere un passato confuso, disordinato, scosso e vago, un passato da cui pretendevo nitidezza nei particolari, da cui pretendevo una spiegazione plausibile alla mia situazione precaria, e il fatto che non ero capace di chiarire i miei pensieri mi innervosiva ancora di più.
Tentai di alzarmi a mezzo busto, ma sentii come una spada conficcarsi violentemente nel petto; una scossa fulminante, che per un attimo mi stroncò il respiro. Mi abbattei supino e affannato sul letto, mentre mia madre di soprassalto si destò. Con voce ansiosa mi chiese dell'accaduto, ma io non potevo far altro che stringere i denti, mentre con il respiro affannoso, tentavo di resistere a quel dolore, che allucinante e inimmaginabile mi affliggeva il petto. Avevo la sensazione che il cuore fosse straziato da una stretta lancinante. Quasi come per appurare che il mio pensiero non fosse esatto, portai il palmo della mano al petto e sentii al tatto una medicazione spessa. Mia madre, che non riceveva da me altra risposta che gemiti sofferti e respiri affannosi, allarmata dal mio comportamento e dal "bip", del macchinario che controllava i battiti, che diveniva sempre più incalzante, chiamò subito gli infermieri che simultaneamente accorsero poiché credevano fossi preda di una crisi cardiaca.
In quei minuti lacerati dal dolore, in cui ogni secondo mi appariva un'eternità, ebbi d'improvviso uno sprazzo di memoria
Ricordai quella sensazione di solitudine e di abbandono di quella sera, una sensazione di vuoto incolmabile, che tentai di riempire con bicchieri di drink, che uno dopo l'altro si susseguivano ininterrottamente. Speravo di affogare le mie preoccupazioni nell'alcol. Ricordai quella sensazione di benessere, quando finalmente fui sollevato dalle mie sofferenze, quando ebbi dimenticato i pensieri angoscianti che mi affliggevano, o meglio quando furono offuscati dall'alcol, quando mi sfuggì il controllo di me stesso e delle mie azioni.
Poi, quando l'alcol perse il suo effetto di illusorio appagamento psicofisico e mi scaraventò in un impressionante vortice di malessere, i cui effetti nauseabondi influirono sul mio umore tanto da far scomparire sia il sorriso, sia l'atteggiamento canzonatorio verso il mondo, che la sfrontata sicurezza in me stesso, capii, allora, che era meglio far ritorno nel focolare domestico, dove le amorevoli cure di mia madre mi attendevano.
Non ero sicuramente nelle condizioni ideali per guidare, ma non mi interessava, ormai, nulla del mondo, delle sue regole, né di me stesso, che sapevo di esporre a un pericolo, ignorai i segnali e i suggerimenti della mia coscienza e mi misi alla guida, poiché l'importante era trovare sollievo ai miei dolori e in alternativa all'alcol vedevo solamente l'amore materno.
Sfrecciavo ad alta velocità sull'autostrada. Mi sentivo galvanizzato dal rombo del potente motore, che udivo diffondersi alle mie spalle. Credevo di essere il padrone dell'asfalto, mentre, elettrizzato e orgoglioso del mio esibizionismo, non mi accorgevo di quanto la macchina sbandasse, accompagnata da un ripetersi di stridule sgommate, che allarmavano gli altri guidatori e i loro passeggeri, i cui richiami fingevo di ignorare. Sapevo di sbagliare, ma un istinto suicida mi induceva ad aumentare la velocità, una vocina maleficamente tentatrice mi suggeriva di annullare i sensi di colpa e le paure e di superarle sull'asfalto. D'improvviso, però, ebbi un violento capogiro, un vertiginoso senso di sbandamento ed una sensazione di nausea, sentivo le forze abbandonarmi e avevo la percezione di essere sul punto di svenire. Per quanto costringessi i miei occhi a rimanere aperti e la mia attenzione a rimanere costante, la vista mi si offuscò per qualche secondo, mi sfuggì il controllo dell'auto, che finì irrimediabilmente nella corsia opposta. Un fascio di luce mi accecò, un suono assordante di clacson mi assordò, tentai di evitare quell'indistinta forma quasi istintivamente, ma i miei tentativi furono certamente vani poiché dopo un gigantesco rimbombo e una sensazione di terrore che mi assalì, non ricordai più nulla.
"Un paziente dalle condizioni così precarie non può assolutamente affaticarsi, soprattutto dopo un intervento tanto delicato e pericoloso quanto quello di sostituzione di un organo vitale come il cuore, bisogna che lei resti pazientemente a riposo finché la situazione non si sarà assestata e avrà ripreso le sue condizioni di salute ottimali."
I miei ricordi furono interrotti dalla voce acre, acuta e penetrante, di un dottore di piccola statura, grassoccio e buffo, che con gli occhialini bassi sul naso aquilino, leggeva silenziosamente la mia scheda medica, scuotendo il capo con fare saccente.
Quando, finalmente, potei allontanare la mano dalla fasciatura, poiché il dolore era finalmente degradato di intensità, fino a diventare un semplice fastidio, ritornai alla situazione iniziale di stanchezza diffusa per tutto il corpo e di irritante stordimento.
Guardai il dottore con aria interrogativa, poiché avevo compreso cosa mi era accaduto, una bravata mi era quasi costata la vita, avrei potuto non vedere più i colori vivaci di un prato in fiore, avrei potuto non annusare più l'odore intenso di salinità in prossimità del mare, avrei potuto non assaporare più la dolcezza di un bacio, o semplicemente non avrei più potuto vedere la luce del sole.
Era questa, dunque, la sconvolgente spiegazione della mia situazione. Quelle parole, dette con una tale semplicità e leggerezza, mi spiazzarono, sentii dentro di me come un'infrangersi fragoroso della mia anima, nella mente, stanca, echeggiavano quei suoni mentre dentro di me dominavano sovrumani silenzi. Ormai consapevole, socchiusi gli occhi e riportai la mano al petto nel tentativo di udire l'esile voce di quel cuore, che sapevo, non essere più il mio. In silenzio guardavo nel vuoto, ignorando i presenti e le loro domande. Il contesto fu come oscurato; le voci, i suoni, gli odori e le figure che pochi secondi prima avevo temuto di non poter più godere, mi parvero indifferenti. Immobile, ascoltavo la voce dei miei pensieri, che lenti e inesorabili scorrevano come per imprimere dentro di me quelle parole, come per convincermene poiché quasi non ci credevo.
Mi imponevo di non incolparmi, ma una parte di me si distaccava dalla mia entità e con voce gelida e distaccata, sembrava godere nel vedermi soffrire, ogni qualvolta mi sussurrava qualche frase semplicemente distruttiva per il mio ego. Mi bisbigliava quanto il mio sfuggire ai problemi, quanto la mia testarda pusillanimità non avesse portato che a ledere gli altri e me stesso, fino a condurmi a perdere una parte di me, fino ad accompagnarmi lungo la strada del declino. Temevo, infatti, che quello era l'inizio di un'irrimediabile discesa, ed era questa la cosa più grave, poiché tante volte, sfogliando annoiatamente riviste e giornali, avevo letto sommariamente di vicende di giovani e bambini che attendevano da anni l'occasione di un trapianto di organi, la possibilità, anche se lontana, di intraprendere una nuova vita. Avevo vilmente privato, anche se involontariamente, una di quelle anime sofferenti della gioia di una vita sana, avevo estirpato un sorriso dalle loro labbra.
Nei giorni successivi preferii vivere nel silenzio, nell'attesa di scorgere una luce che mi conducesse alla speranza, avevo, in fatti, perso la stima di me stesso.
Quando mi fui finalmente ripreso, potei tornare a casa. I medici mi strinsero la mano con affetto, dopo i giorni difficili che avevo passato lì tutti si erano affezionati a me, ed io a loro. Prima di andarmene mi consigliarono di prendere un taxi e di rimanere comunque a riposo, ma io preferii fare una lunga passeggiata, sorretto e accompagnato da mia madre. Scelsi di camminare per avere un primo contatto con il mondo dopo i giorni interminabili trascorsi in ospedale, almeno era questa la versione data a mia madre, in realtà, inconsciamente, volevo evitare un qualsiasi contatto con un'auto, temevo, quella che io giudicavo, una macchina infernale. Stavolta non volevo assolutamente nuocere a nessuno, né a me stesso, ma soprattutto a mia madre che era la mia unica parente e la mia unica vera amica. Mio padre ci aveva abbandonato pochi mesi prima per un'altra donna, non era nemmeno venuto ad accertarsi delle mie condizioni, vivo o morto per lui sapevo di essere un peso. Dal suo ignobile gesto il mio rapporto con mia madre si era fortificato sempre di più. Il tragitto, anche se breve, mi riservò non poche sorprese. Camminando lentamente, incrociai lo sguardo di molti conoscenti, molti dei quali evitarono il mio sguardo, altri, i più sfrontati, lo affrontarono con tenacia e spudoratamente rifiutarono il mio saluto. Essendo, questi, giovani compagni di serate all'insegna del divertimento, pensai che forse erano rimasti scossi dalla mia vicenda e che non sapendo cosa dire, mi avessero evitato. Mi sbagliavo e la conferma dei miei sospetti mi fu fornita in prossimità delle soglia di casa, dove incontrai la mia vecchia vicina. Un'anziana signora, dal viso aspro e rugoso, dai vestiti fiorati e dal carattere particolare, che io amavo, prima dell'incidente, deliziare con delle letture. Confidavo nel suo caloroso benvenuto, ma fui deluso, poiché guardandomi dritto negli occhi e spegnendo il mio sorriso, mi sibilò: "Assassino".
Paralizzato da una parola tanto inadeguata quanto crudele, non seppi dare alcuna giustificazione, guardai solamente mia madre che compassionevole mi carezzò i capelli, e mi indusse ad entrare.
Un'altra notizia sconvolgente mi attendeva meschina.
Con la sua solita premura lei mi fece accomodare sulla poltroncina nel modesto salottino, prese da un cassetto un gruppetto di ritagli di giornale e mi pregò, avvicinandosi, di respirare profondamente e di non agitarmi. Affermazioni, che invece di calmare il mio, già nervoso, stato d'animo non fecero altro che aumentare l'ansia e l'apprensione che mi stringevano il cuore.
Mi porse lentamente gli articoli di giornale, che aveva accuratamente ritagliato sperando di avere un giorno il coraggio di mostrarmeli, quel giorno era arrivato fin troppo repentinamente, aveva stroncato le sue speranze di evitarmi questo dolore.
Quei frammenti di pagine mi dipingevano come un sanguinario pirata della strada, alcolista e amante del sesso facile, che aveva volontariamente provocato un incidente mortale su un'autostrada di notte. A rimetterci la vita non quell'incosciente giovane teppista, ma un'innocente sedicenne, che vittima dell'ironia della sorte dopo poche ore dalla tragedia, si rivelava il generoso donatore che avrebbe salvato la vita a me, giudicato disgraziato mentecatto.
"ASSASSINO" "DISGRAZIATO SANGUINARIO"
Quante frasi infondate tempestavano la mia mente, quante parole crudeli affliggevano la mia anima, quante colpe pesavano sulla mia coscienza.
Senza accorgermene le lacrime, lente e inesorabili, mi tagliarono il viso, mentre il mio cuore disperatamente rimpiangeva il suo proprietario. Sul mio capo pesava una colpa ben più grave di quelle che mi ero attribuito, non avevo solo moralmente privato della speranza un bisognoso di trapianto, ma avevo concretamente stroncato la vita a un giovane colmo di progetti per il futuro. Quante cose avrebbe potuto fare nella vita se solo io ignobile e disgraziato non gli avessi tagliato la vita, se solo io non gli avessi troncato il respiro. Mi sentivo sporco, meschino, irrimediabilmente compromesso nella purezza del mio animo. Mi immedesimavo perfettamente nelle parole con cui mi descrivevano i giornali, ero indegno di vivere non sentendomi più uomo ma un individuo.
Lasciai gli articoli sul comò e poi lentamente mi incamminai verso l'uscita, domato dalle emozioni negative che stagnavano nella mia mente, mi lasciai guidare dall'istinto e senza meta né obiettivo mi trascinai in strada. Mia madre mi implorava di restare calmo e con gli occhi colmi di tenere lacrime tentava di fermarmi, ma dentro di sé sapeva che io dovevo andare, dovevo sfogare le mie emozioni, pertanto restava immobile senza tentare di bloccarmi materialmente, sapeva infondo che non c'erano parole, lacrime di comprensione o gesti che potessero risollevare la mia anima da quel baratro. Vagai a lungo poi quasi senza accorgermene mi ritrovai davanti all'austera entrata in ferro del cimitero, dove mausolei e cappelle si perdevano a vista d'occhio. Ero degno di entrare in un tale luogo sacro? Sapevo di non esserlo, ma dentro di me avevo il bisogno di esprimere il dolore che sentivo e la disperata gratitudine verso quell'angelico giovane che aveva soffiato dentro di me un alito di vita.
Quasi come guidato da una potenza celestiale mi diressi involontariamente in uno degli anfratti nascosti di quel luogo colmo di silenzi. Modestamente sepolto giaceva il mio salvatore, accarezzai il marmo freddo e una sensazione di refrigerio mi attraversò il corpo, mai avevo avvertito una sensazione di tale abbandono, dentro di me il vuoto più totale, il freddo e il gelo, il nulla di una vita insignificante non mi dava motivi per sostenermi. Perché lottare quando nessuno ti da un minimo segnale che vale la pena di vivere? Perché non lasciarsi trasportare dagli istinti suicidi quando nel nell'oceano della vita si è abbandonati senza nessun appiglio, perché continuare a opporsi alle onde increspate che incessantemente ci attirano verso i fondali?
Quanta solitudine leggevo negli occhi della rara gente di cui incontravo lo sguardo, ne indovinavo le vicende, ne immaginavo i sorrisi, ma perché nessuno leggeva nel mio sguardo il dolore che mi affliggeva. Inginocchiato, poi prostrato rendevo omaggio a quel sorriso forzato e a quegli occhi vispi ritratti nella foto nitida che affiancava il nome e i pochi dati scritti a caratteri cubitali, tristemente scuri suggerivano il dolore di una perdita avvenuta inaspettatamente e ben troppo velocemente. Quanta indescrivibile gratitudine unita a tanta sofferenza, mi meravigliava provare tante sensazioni per una persona di cui conoscevo solamente un nome. Mi chiedevo perché ero sopravvissuto io e non lui che aveva certamente molti più ideali, che era certamente più meritevole di me che maligno peccatore avevo provocato la sua morte. Quanto è ingiusta la sorte, quanto è triste la vita. D'improvviso una voce sopraggiunse alle mie spalle:
"Come osi deturpare con la sua presenza il sonno di Manuel. Bastardo, non ti è bastato ciò che gli hai fatto?"
Cosa avrei risposto a quella voce maschile tanto dura e tanto sofferta? Mi voltai solamente, per poter guardare l'uomo negli occhi, non per giustificarmi, né per implorare il suo perdono, né per suscitare in lui pietà esponendogli la mia angoscia, ma solamente per poter guardare il viso della persona che aveva tradotto in parole ciò che io nei miei pensieri silenziosamente mi ripetevo.
Avvolto in un vestito scuro, con il viso drammaticamente contratto, irto in una posizione austera, si ergeva mio padre, che ingiuriava contro di me, suo figlio. Dopo anni che avevo imparato a convivere con la sua assenza, ora ripiombava nella mia vita urlandomi contro la dura verità.
Balbettai solamente: "Papà"
Lui imperterrito, con gli occhi gonfi di lacrime amare, continuava ad urlarmi contro la sua accusa straziante: "Vergognati, assassino! Hai ucciso tuo fratello, Caino!"
Il cielo si squarciò, un rombo di un tono mi rimbombò nelle meningi, le gocce cominciarono a scrosciare violentemente sulle sue parole.
"Hai ucciso mio figlio, farabutto!" urlava con impeto mentre io immobile, paralizzato, ero come assente, come se la mia anima ormai troppo carica di dolore fosse sfuggita al mio corpo.
Cominciò a spintonarmi, mentre col viso sconvolto e arrossato, si disperava per la perdita dell'unico figlio che avesse mai amato.
Cominciai a correre disperato, gli occhi chiusi, la bocca serrata, deciso a scomparire per sempre, deciso a dar sfogo al mio istinto suicida, non ero più degno di vivere, soprattutto col cuore di mio fratello che mi batteva dentro, che a ogni battito mi ricordava il suo sacrificio, mi ricordava le mie colpe. Volevo solamente morire, per liberare il mondo di una piaga sociale, svanire nel nulla, senza tracce, credevo così di liberarmi dalle mie colpe. L'angoscia mi spingeva a correre verso l'oblio.
D'improvviso mi scontrai con una figurina esile dagli occhietti vispi, che mi guardava con aria stupita e mi disse:
"C'è qualche problema amico?"
"La vita è il mio problema"
Avrei voluto sorpassare la sua naturale comprensione e fuggire via, ma qualcosa mi tratteneva, perché mai rispondevo a uno sconosciuto? Come poteva lui comprendere con uno sguardo il mio stato d'animo e sollevarmi dall'angoscia con un sorrisetto così meravigliosamente banale?
Mi porse una margheritina e mi disse:
"Ricorda non pioverà per sempre"
In quel momento la pioggia si fermò come se lui avesse ordinato con quelle parole di far tornare il sereno, le nubi scomparvero improvvisamente, lasciando spazio a uno splendido cielo terso e ad un mozzafiato arcobaleno variopinto, come la pioggia anche le mie lacrime cessarono, la mia anima fu sollevata.
Immobile osservavo quella misera margherita, un po' sciupata, un po' spoglia, ma simbolo di tanta dolce speranza che mi scivolava nell'anima come per magia. Alzai il viso per ringraziare quel ragazzino dallo sguardo vispo, ma lui era come svanito nel nulla. Ricordai il suo viso, mi parve di averlo già visto, uno sguardo vispo, era questa la prima impressione che ebbi nel guardarlo e ricordai di averla avuta anche poco prima. Corsi velocemente di nuovo al cimitero, davanti alla tomba non c'era nessuno, mio padre era già scomparso nuovamente dalla mia vita insieme col suo dolore. Trovai un mazzo di margherite identiche alla mia, candide, spoglie e magicamente dolci e tenere nella loro innocenza, poi guardai la foto di mio fratello Manuel e riconobbi in lui lo sguardo vispo di poco prima. Dentro di me sentii fiorire un germoglio di speranza, sentii crescere dentro di me la voglia di vivere, la voglia di gioire di nuovo delle piccole cose della vita, di assolvere ai miei sbagli, la voglia di sospirare di meraviglia e di piangere di dolore, di assaporare la vita attimo per attimo, grazie a Manuel che ora vive dentro di me e soprattutto perché " Non pioverà per sempre..."

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 Ins. 09-12-2003