Autori contemporanei
affermati, emergenti ed esordienti

Debora De Angelis
Con questo racconto ha vinto il sesto premio al concorso
Città di Melegnano 2003, sezione narrativa

SEGRETO INCONFESSABILE
 
A sette anni Andrea era la persona più saggia che Francesca potesse dire di aver mai conosciuto. Di certo non aveva ereditato da sua madre quella caratteristica.
Lei, saggia non lo era mai stata, finora, e il fatto di essere una ragazza madre di venticinque anni ne era la riprova.
Che dire del padre? Forse lui sì, forse era stato saggio ad abbandonarli quando era ancora in tempo, almeno si era risparmiato un gran bel po' di preoccupazioni.
Quest'ultima, soprattutto.
Doveva dirglielo.
Francesca doveva trovare il coraggio di prendere il suo bambino, guardarlo negli occhi e dirgli che stava morendo.
Chi avrebbe mai pensato che si potesse morire di cancro così giovani? Certamente non lei. Sapeva che era possibile, questo sì, ma non possibile che capitasse proprio a lei.
Una volta Andrea aveva notato le profonde occhiaie che circondavano gli occhi della madre e le aveva domandato se si sentisse bene. Le era sembrato stranamente consapevole che qualcosa non stava andando per il verso giusto.
Invece Francesca lo aveva abbracciato e tranquillizzato.
- Sono due giorni che non dormo, amore - gli aveva detto - lo sai che ho tanto lavoro da sbrigare...
Era successo circa un mese prima e quella volta Andrea pareva averle creduto. Ma adesso? Con che coraggio adesso poteva metterlo al corrente di una verità così sovrastante per lui?
Quel bambino era tutta la sua vita e non voleva che gli si spezzasse il cuore.
D'altra parte anche lei era tutto per suo figlio e in un modo o nell'altro Andrea si sarebbe trovato ad affrontare un dolore che a sette anni non dovrebbe essere nemmeno concepibile.
Doveva prepararlo, non c'era altro modo.
Aveva già pensato alla sua sistemazione. Sarebbe andato a stare con i suoi genitori, che erano parsi stranamente più malleabili ora che Francesca era in procinto di lasciare tutto per sempre di quanto lo erano stati anni prima, all'annuncio della sua gravidanza, quando l'unica cosa che si era vista costretta ad abbandonare era stato l'ultimo anno di liceo.
Francesca se ne stava seduta lì in salotto a rimuginare sul da farsi quando Andrea entrò nella stanza, silenzioso come un piccolo fantasma.
E' una caratteristica comune ai bambini che si sono sentiti in qualche modo rifiutati o abbandonati, quella di rendersi il più possibile invisibili.
- Mamma, a che pensi? - le chiese con un sussurro.
Francesca riemerse dai propri pensieri e si asciugò una lacrima. Era giunto il momento, lo sapeva.
Aveva temporeggiato così a lungo che suo figlio, il suo piccolo bambino, aveva trovato il coraggio di precederla.
- Vieni, piccolino - lo invitò battendo il palmo della mano sul divano dov'era seduta - siediti qui vicino a mamma.
Andrea si avvicinò a sua madre, la fissò a lungo con tutta l'intensità dei sui occhi d'ebano, poi si sedette.
- Mamma ti deve dire una cosa, Andrea, una cosa che non ti piacerà...
- Allora non dirmela, mammina...
- Devo. Devo farlo per forza.
- Perché sei una mamma? - insistette Andrea.
- Che vuoi dire, amore?
Il bambino assunse un'espressione seria e assorta.
- Voglio dire che devi fare per forza questa cosa brutta perché sei una mamma e le mamme, certe volte, devono prendere per forza le decisioni difficili.
Era incredibile come quel bambino riuscisse di volta in volta a stupirla con la sua perspicacia.
- Già - annuì la ragazza - intendevo esattamente questo. Sai, non è facile fare la mamma.
- Io non sarò mai una mamma, però speriamo che è più facile fare il papà.
- Non te lo saprei dire, amore, ma sono convinta che tu sarai straordinario in tutto ciò che farai nella tua vita, perché sei già straordinario adesso che sei così piccolo. Ma ora vogliamo riprendere il nostro discorso? - concluse Francesca contorcendosi nervosamente le mani mentre cercava di ricacciare indietro lacrime troppo cocenti per versarle davanti a suo figlio.
L'avrebbe fatto più tardi, nella solitudine della sua camera, come accadeva ormai da tre mesi.
Andrea se ne accorse e alzò un dito della sua piccola mano nel gesto di asciugargliele.
- Non voglio vederti piangere, mamma, le mamme sono grandi e non piangono mai - le ordinò.
- Hai ragione, ma anche le mamme si sentono tristi, ogni tanto, e allora piangono.
- Ma tu non devi essere triste. Ci sono io qui con te. Solo le mamme che non hanno bambini possono essere tristi.
Francesca sorrise al pensiero sconclusionato di suo figlio. Però c'era un fondo di verità nelle sue parole. E pensare che c'era stato un tempo, anni prima, in cui aveva seriamente considerato l'eventualità di non permettere ad Andrea di nascere. O meglio, di non permettere a se stessa di diventare madre. Pensava che sia lei che suo figlio sarebbero andati incontro solo ad una grande sofferenza.
Invece, anche adesso che stava morendo, non poteva ricordare una gioia precedente che fosse superiore all'essere abbracciata dal suo bambino che le diceva quanto le volesse bene.
- D'accordo, allora - si ricompose - adesso smetto di essere triste perché non ne ho proprio motivo.
- Mamma, come ci si allaccia le scarpe? - intervenne inaspettatamente il bambino.
Improvvisamente, tutta la tensione che andava accumulando da mesi ebbe il sopravvento sulla giovane donna.
- Andrea, io ti devo dire una cosa importante, accidenti, la smetti di cambiare discorso, per favore?
Francesca non ce la faceva più, sentiva che stava per perdere il coraggio necessario per quella dolorosa rivelazione e capiva che suo figlio stava deliberatamente tentando di rimandare l'inevitabile. Ma perché? Di solito l'ascoltava sempre.
- E non ti sembra importante che a sette anni non sono ancora capace di allacciarmi le scarpe da solo? Sono quasi adulto, mi prenderanno tutti in giro a scuola! - insistette Andrea con l'ostinazione propria dei bambini.
- Va bene - cedette Francesca - se adesso mi fai parlare poi ti prometto che ti insegnerò a farlo.
C'era dell'assurdo in ciò che stava dicendo, se ne rendeva ben conto. Dopo non ci sarebbe stato tempo che per piangere. Avrebbero pensato i nonni ad insegnargli ad allacciarsi le scarpe, a lavarsi le orecchie e a vestirsi da solo perché lei non avrebbe potuto farlo. Lei non avrebbe preso parte alla crescita di suo figlio. Non ci sarebbe più stata.
Era questa consapevolezza che le straziava l'anima, ancor più di quella di avere ancora così poco da vivere.
- Mamma, mi posso sedere sulle tue ginocchia?
- Vieni e fammi parlare, adesso.
- Tanto lo so già che cosa mi devi dire.
Il panico la colse improvvisamente, lasciandola basita, sconvolta.
Dunque sapeva già? No! No, non era possibile che già lo sapesse, doveva dirglielo lei, con tatto, con dolcezza, per evitargli ogni inutile sofferenza...
- Che cosa credi di sapere? - trovò infine il coraggio di chiedergli.
- Che hai un nuovo fidanzato, vero? Ma non ti sei ancora stufata di cercarmi un papà? Io non lo voglio, io voglio stare solo con te, mamma - disse Andrea guardandola negli occhi per un tempo che parve interminabile ad entrambi.
Francesca comprese improvvisamente che quello non era proprio il momento per parlare a suo figlio della sua malattia, per confessargli che presto se ne sarebbe andata. D'altra parte, quale può essere quel momento, per una madre?
Decise che voleva soltanto rimanere lì, seduta, col suo piccolo bimbo tra le braccia, sperando che quell'istante durasse in eterno.
E sembrò durarlo, in effetti, quando all'improvviso il bambino parlò con quella sua vocina tanto saggia quanto infantile.
- Non ti preoccupare se devi morire, mamma. Io me la caverò. Imparerò da solo ad allacciarmi le scarpe...

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Città di Melegnano 2003

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