Autori contemporanei
affermati, emergenti ed esordienti

Davide Ficagna
Con questo racconto ha vinto il secondo premio del concorso Marguerite Yourcenar 2002, sezione narrativa
Il trattato dei sogni
 
Il vento scuoteva dal loro torpore le fronde dei platani al limitare del bosco. La luce, evanescente e striata di rame di un tramonto primaverile, dava alla scena una parvenza irreale, soporosa, quasi magica.
Ed il sentore di magia non si fermava al limitare, passava al di là degli ultimi arbusti, a lato dei cespi di agrifoglio, oltre le mure di spessa pietra del piccolo maniero e si spingeva fin nelle stanze più buie di Hermes l'alchimista.
Il sole prendeva la sua ripida discesa proprio dietro i tetti ed il campanile del villaggio, appena visibili dalla torre del piccolo maniero.
Hermes si affacciò alla finestra che dava ad est, contemplando l'azzurro intenso che caratterizza la parte di cielo che quasi nessuno osserva quando c'è il tramonto. È un colore antagonista, pur conscio dell'inutilità della competizione in atto, un azzurro come mai, in altri momenti della giornata, si può osservare. Uno che non si arrende.
L'attenzione di Hermes fu distolta dal rumore di un carretto che passava velocemente sul vialetto, in direzione del bosco.
Tutti passavano velocemente, quando erano costretti ad avvicinarsi alle sue mura.
Era la paura. Loro non conoscevano, non potevano capire e di conseguenza avevano paura.
Lo temevano, non osavano nemmeno rivolgergli la parola.
Eppure nei primi anni correvano da lui. Non appena cominciò a spargersi la voce dei suoi miracolosi medicamenti, si stupì di trovare la fila alla sua porta.
Gotta, colpi della strega, malanni di stagione: ne aveva viste e curate di tutti i colori.
Anni d'esperienza e studi sulle erbe medicinali avevano fatto di lui un esperto in materia e al tempo stesso, lo avevano fatto apparire agli occhi dei villici come un mago.
Si vociferava dei suoi presunti "poteri" nelle botteghe e nelle taverne, tra ceste di pane nero e otri di sidro. E, prima o poi, tutti arrivavano dinanzi al suo studio: si ammalavano e si aggrappavano all'ultima speranza, che stava di casa nel piccolo maniero dopo il limitare del bosco. Verso est.
Hermes riprese ad osservare il cielo che, in pochi minuti, aveva assunto una tonalità di blu più consona ad accogliere l'arrivo della notte.
Si tirò su il bavero per scacciare la sensazione di freddo che gli si era insinuata fin nelle ossa e s'incamminò per le scale ripide che portavano giù dalla torre.
Proprio davanti alla porta del suo studio, aspettava Giorgio, quel che si poteva definire il suo assistente tuttofare.
Se ne stava immobile, in piedi, con in mano un lume acceso che porse al padrone senza dire una parola. Ad Hermes bastò un rapido sguardo per cogliere l'apprensione e la preoccupazione che stagnavano nei suoi occhi.
Giorgio si allontanò, sempre in silenzio, zoppicando vistosamente.
Era così che l'aveva conosciuto. Ancora ai tempi in cui gestiva quella piccola bottega d'erboristeria in una contea lontana.
Aveva rischiato grosso per lui. E neppure lo conosceva.
L'unica colpa di Giorgio era l'essere zoppo.
I suoi vecchi l'avevano nascosto agli sguardi del popolo: l'avrebbero accusato d'avere "il piede caprino", inconfondibile segno demoniaco.
L'avrebbero strappato al loro affetto e, ancor peggio, alla vita che meritava comunque di vivere.
Poi, un bel giorno, i due vecchi muoiono in un incidente al fiume ed ecco arrivare al villaggio un carretto con le salme trainato da uno zoppo.
Giorgio era sempre vissuto in aperta campagna, forse perfino ignorava l'esistenza di altre persone ma, più forte del suo timore, fu il desiderio di cercare aiuto per i suoi genitori. Per quelli che, fino a quel momento, gli avevano garantito un'esistenza dignitosa.
Agli occhi della gente, ubriacata dalle deviazioni del cristianesimo, la scena si prestava ad un'unica interpretazione: un emissario diabolico che trasportava due cadaveri gonfi e bluastri non meritava alcuna pietà.
L'ignoranza andava ben al di là dell'umana comprensione, a tutto vantaggio di predicatori senza scrupoli. I soldi muovevano il mondo, la convenienza faceva genuflettere i potenti sotto una croce e la follia ardeva negli animi degli inquisitori più incalliti.
Nemmeno un processo sommario spettò a Giorgio, tanto evidente fu considerata la sua flagranza di reato e l'efferatezza del suo delitto.
Hermes lo salvò mischiando alle fascine del rogo alcune sostanze di sua preparazione che scatenarono una nube densa ed impenetrabile, una nebbia improvvisa e fittissima.
I popolani si limitarono a gridare e fuggire in ogni direzione, considerando l'accaduto come un'ulteriore prova che il diavolo camminasse tra loro.
L'erborista si avvicinò alla vittima di quel rito tragico e ridicolo, lo liberò e lo condusse nel suo angusto scantinato.
Hermes divenne la nuova famiglia di Giorgio, lo accudì come avrebbe dovuto fare con un bambino e gl'insegnò tutto quel gli riuscì di far entrare in quella zucca abituata al solo lavoro manuale, fino a che imparò a parlare correttamente e a far di calcolo.
Poi venne il viaggio verso i margini del regno.
I sospetti sui suoi rimedi naturali e sulle sue pozioni, convinsero Hermes a cercare casa in luoghi per cui, regnanti e predicatori, mostravano poco interesse.
Ma anche il piccolo maniero al limitare del bosco non era più sicuro.
Hermes aprì la pesante porta del suo laboratorio, poggiò il lume sul vecchio tavolo ricavato da mezzo tronco di quercia e diede un'occhiata ai suoi ultimi appunti.
Poi aprì un cassetto ed estrasse un volume dal peso non indifferente che aveva letto mille, forse un milione di volte.
Il suo trattato. L'insieme della sapienza di diversi studiosi, alchimisti, filosofi e letterati del mondo intero. Su quelle pagine ingiallite, le parole erano scritte col sudore, col sangue e col sacrificio di menti illuminate. Hermes aveva approfondito e continuato gli esperimenti di chi, prima di lui, aveva impegnato la vita alla scoperta dei segreti della fisica, dell'anatomia e della chimica.
Aveva riletto quei passaggi tanto da impararli a memoria e vi aveva aggiunto perfezionamenti fondamentali e preziosi.
Ora era al termine. Il trattato che insegnava all'uomo come realizzare uno dei suoi sogni più antichi era finalmente completato.
«Quante volte ancora pensi di riguardarlo?»
La voce di una donna lo fece sussultare. Elena stava sulla soglia della porta spalancata nelle sue vesti preziose e con i capelli biondi sciolti sulle spalle.
«Lo riguardo per soddisfazione personale. Lo sai che manca solo l'esperimento finale».
«È proprio questo che mi preoccupa. Per quanto ancora credi che riuscirò a proteggerti? Per quanto ancora credi che mio marito tollererà la tua presenza sulla sua terra? Quel monaco maledetto non fa che tacciarti di stregoneria in giro per il villaggio. Le sue parole sembrano aver fatto dimenticare alla gente tutto quel che hai fatto per loro».
Mentre parlava, cominciò ad avvicinarsi. I suoi occhi verdi parevano gemme e la sua pelle candida contrastava con quelle zone brulle e selvatiche.
Suo marito, signore di quelle terre, era un uomo abbastanza accondiscendente e schiavo del fascino della moglie. Elena lo guidava come una marionetta ed era grazie alla sua intercessione, se Hermes non era ancora stato catturato per comparire davanti al tribunale dell'inquisizione.
Al momento, il signorotto lo considerava inoffensivo e indegno della sua attenzione, ma l'idillio non sarebbe durato a lungo. Le prediche accorate del monaco sconosciuto stavano sortendo il loro ipnotico effetto e la gente gli si stava rivoltando contro.
«Devi andartene», sentenziò Elena. «Non puoi star qui ad aspettare che vengano a prenderti».
«Verrebbero dovunque. Il mondo intero è sotto quell'influsso maledetto. Non c'è un solo posto che sia sicuro per degli uomini di scienza o per uno zoppo ritardato».
Era la verità, quello dei vagabondi era il futuro che li aspettava.
Ma lui aveva la soluzione. Il trattato del sogno dell'uomo, la sua più promettente creatura, la sua arma segreta.
«Questo!», esclamò battendo la mano sulla copertina in pelle del tomo «Questo sarà la mia salvezza e la mia via di fuga».
«Quello è una sciocchezza», ribadì Elena senza scomporsi. «Come puoi essere sicuro che possa funzionare? Come puoi sperare di riuscire dove altri hanno fallito nel corso dei secoli?»
«Ho raccolto tutto il loro sapere e corretto tutti i loro errori di valutazione. Nessuno avrà il piacere di arrostirmi su di un rogo».
Elena non rispose; la cocciutaggine di quell'uomo era pari solo alla sua intelligenza e alla sua bontà d'animo.
Non poteva nascondere la sua preoccupazione per un esperimento tanto pericoloso ma, una voce dentro di lei le diceva di fidarsi, di concedere almeno il beneficio del dubbio alle sue folli teorie.
«Allora hai deciso?», gli domandò sinteticamente e con la voce leggermente tremante.
«So cos'hai sempre pensato del trattato, ma devi credermi. Farò di un sogno realtà e ridicolizzerò tutti quelli che spacciano fandonie per dogmi e vie di salvezza. Andrò più in là di quanto non si sia mai spinto un essere umano».
«Spero che, da dove ti spingerai, tu possa far ritorno».
Detto questo si voltò e s'incamminò verso l'uscita. Non si aspettava di riuscire a farlo desistere ma nemmeno si aspettava una così sincera ed orgogliosa difesa delle sue idee. Quanti prima di lui erano periti nel tentativo di mettere in pratica gli insegnamenti di quel volume? Quanto le sue modifiche gli avrebbero garantito il successo?
Si soffermò a guardarlo un'ultima volta. Mentre una lacrima le solcava il viso pulito, cercò di mostrargli uno sguardo fiero ed intenso. In fondo aveva fiducia in lui e non poteva che augurargli il successo e la realizzazione del suo sogno. In ogni caso l'avrebbe perso e non le riuscì di dirgli addio.
 
La notte portò con sé una brezza del sapore ancora invernale che dondolava le fronde ma raggelava le membra.
Hermes bussò forte all'uscio della stanza di Giorgio. Il ragazzone venne ad aprire già vestito.
Sapeva quello che stava per accadere e sapeva quel che il suo protettore aveva programmato per la sua incolumità.
«È l'ora Giorgio. Il cavallo che ha portato Elena è sul retro con le sacche già piene di viveri ed acqua. Ti ricordi tutto?»
«Sì. Credo».
«Non è difficile. Devi sempre scappare verso est, oltrepassare i confini del regno e rintracciare Homertio l'alchimista. Ricorda di non scendere mai da cavallo se non è strettamente necessario o se qualcuno ti può vedere. Fino a che sarai nel regno sei in pericolo per via del tuo difetto. Chiaro?»
«E voi?», chiese abbassando lo sguardo, Giorgio.
«Applicherò per la prima volta il trattato. Ho già pronte tutte le pozioni e presto comincerò gli esercizi mentali e fisici. Non aver paura per me. Probabilmente arriverò da Homertio prima di te. Sarò là ad aspettarti davanti ad una bella tisana bollente e pronto a descriverti le facce stupite di quei quattro bigotti che avranno avuto il coraggio di venire a prendermi».
«Io vi credo. Ma credo anche che avreste fatto bene a fuggire con me».
«No. Questa è l'occasione per dimostrare a quei venditori di fumo l'importanza della scienza. Devo mostrare loro cosa posso fare adoperando il mio cervello e le nozioni tramandate dai grandi del passato. Non possono cancellare tutta la conoscenza dei nostri avi con la scusa della "semplicità d'animo" e approfittando di menti plasmabili al loro volere. Io lo impedirò e con il mio esperimento segnerò la prima, grandiosa vittoria a favore dei miei studi e della libertà di sognare».
Il discorso terminò lì: Giorgio sapeva benissimo che, per nessuna ragione al mondo, il suo protettore avrebbe rinunciato alla sua idea e mai sarebbe tornato sui suoi passi.
Se non c'era riuscita Elena, figurarsi come poteva pretendere lui d'avere voce in capitolo.
I due scesero insieme, in perfetto silenzio, le scale che portavano al retro del piccolo maniero dove un bellissimo cavallo sauro stava placidamente legato ad un paletto conficcato nel terreno. Elena doveva aver fatto sparire quel magnifico destriero dalle stalle del marito perché, i villici, era praticamente impossibile che possedessero una così splendida bestia.
«Stringi i denti!», rincarò la dose Hermes, «cavalca più che puoi ed evita i villaggi troppo popolati. Non ti ho salvato la prima volta per poi vederti finire al rogo per una stupida leggerezza».
Giorgio, per tutta risposta, gli gettò le braccia al collo, cingendolo in una stretta che significava molto di più di quello che avrebbe mai potuto dire. Quel pazzo era per lui un padre, un fratello maggiore, uno da seguire per la sincera bontà dei suoi ideali.
Quante volte l'aveva visto pentirsi per aver aiutato gente ingrata e quante volte ancora era ricaduto nel suo errore? Quante notti l'aveva visto insonne a rimuginare sulle pagine del trattato per non ipotizzare che fosse nel giusto?
Una volta in sella, il ragazzone zoppo, era normale. Nessuno lo avrebbe mai accusato di "piede caprino" e nessuno gli avrebbe negato il saluto sulla via che conduceva fuori dal regno.
«Tutto ad est!», gridò e partì al galoppo verso una meta sconosciuta, lasciandosi alle spalle l'unico uomo che gli aveva concesso una possibilità senza giudicarlo per il suo aspetto.
 
Sapeva che sarebbero arrivati presto.
Forse già con le prime luci dell'alba. Da quanto si diceva, facevano sempre così: nessun avvertimento specifico e poi, di sorpresa, si presentavano in un numero spropositato (manco dovessero combattere una guerra) alla porta del cosiddetto "emissario del demonio".
Fu un'intuizione, una specie di sesto senso che gli aveva consigliato di anticipare la fuga di Giorgio e che gli suggeriva di cominciare a prepararsi per l'esperimento.
Aprì il solito cassetto e ne trasse il volume che già migliaia di volte era passato tra le sue mani.
Ripassò l'ordine degli esercizi mentali e cominciò a praticare quelli fisici per sciogliere la muscolatura.
Poi si lasciò cadere sul letto, ripensando a tutti gli anni spesi in ricerche, a tutto il sapere che era contenuto in quel tomo.
Qualcosa più grande di lui, qualcosa che stava cercando di manipolare ben conscio che, forse, le sue forze non sarebbero state sufficienti.
In fondo, era spaventato. Spaventato dalla sua cocciutaggine, dalla sua ostentata sicurezza e dalla sua incondizionata fiducia nelle sue capacità.
Tutto sembrava perfetto, i calcoli erano esatti e ogni teoria combaciava con l'altra.
Avrebbe mai più rivisto Elena? E Giorgio?
S'immaginò piombare dal cielo a cavallo di un destriero alato, bello e tremendo come la più terribile punizione che i monaci potessero mai aspettarsi arrivare da lassù, un messaggero di luce e verità.
Perso tra i suoi pensieri, non si accorse che un flebile chiarore penetrava dalla sua finestra rischiarandogli un poco il viso.
Si destò completamente quando udì uno sferragliare in lontananza. E poi voci, canti e passi sempre più vicini.
Guardando da una fessura riuscì a scorgere le fiaccole dei popolani che venivano a prenderlo per giustiziarlo. Guidava la carovana il monaco senza nome che tanto aveva propagandato contro di lui e la sua arte medica.
Era giunto il momento. Non avrebbe più potuto tirarsi indietro.
Le prime voci si facevano grosse al limitare del bosco: erano in molti, e questo bastava a non far temere nemmeno il diavolo in persona. Pensare che erano quelle stesse persone, che a lui si erano rivolti per la febbre del figlioletto e le stesse che, giorni prima, passavano a tutta velocità pur di non sostare accanto alle sue mura.
Cominciarono i primi insulti, i primi richiami al pentimento e le intimidazioni ad uscire senza fare uso delle arti demoniache. Il Signore era con loro. Dicevano.
Intanto il cinguettio dei passerotti si mischiava alle voci esalate mentre la luce del sole mortificava quella delle torce e veniva ad illuminare l'atto finale.
Hermes si legò alla schiena una sacca di tela nera, vi infilò il tomo del trattato e salì di corsa le scale che portavano alla sommità della torre.
«Se confesserai avrai una morte veloce!», intimavano dal basso.
«Bruciamolo qui, prima che possa scomparire nel nulla!», incalzava qualcun altro.
Ed Hermes si affacciò.
Si portò in piedi sulla merlatura della torre cosicché, tra lui ed i suoi giustizieri, ci fosse solo un salto di una quindicina di metri.
Non sentiva più alcun rumore, ma poteva vedere le loro facce storpiate dalla foga e da smorfie di sdegno e terrore. Tutto intorno a lui si era fatto silenzio.
La concentrazione che aveva raggiunto, seguendo gli insegnamenti dei saggi orientali, era totale, ermetica.
I primi villici cominciarono a darsi da fare per sfondare la porta e qualcuno improvvisò un'improbabile lapidazione dal basso verso l'alto, senza mai colpirlo.
Hermes era indifferente ad ogni provocazione: non si curava delle pietre che, in qualche caso arrivavano a sfiorarlo, ma pensava solo a raggiungere lo stadio di preparazione necessario a compiere il grande passo.
Con uno schianto tremendo la porta d'ingresso crollò.
Non si poteva attendere oltre.
«Ora vedrete!», urlò Hermes con quanto fiato aveva in gola.
Sotto, tutti si bloccarono un po' per lo spavento, un po' per vedere che mai avrebbe potuto escogitare quel demonio per levarsi dai guai e da una fine certa.
«Voi siete ciechi!», continuò con voce forte Hermes, «io sono la stessa persona che vi ha curato, che ha mangiato al vostro stesso tavolo e bevuto alla vostra stessa fonte. Non mi riconoscete più forse? Ora non merito più la vostra miserabile fiducia? Se volete seguire la via della prostrazione a chi vi comanda e del terrore per chi giudica la vostra moralità, fate pure. Io ho aperto gli occhi e non ho mai abbassato la guardia. Io ho la conoscenza! Sono il novello Icaro! State per assistere alla realizzazione del più grande sogno dell'uomo. Io volerò! Volerò perché sarà la scienza e non la magia a permettermi di farlo. Restate pure in balia di infondate credenze e di uomini senza scrupoli. Io volerò via, cercando un luogo dove le diversità saranno interpretate come ricchezza e le menti aperte al rispetto della vita. Io VOLERÒ VIA!»
E detto questo, spiccò un aggraziato balzo nel vuoto.
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 Agg. 14-04-2003