Autori contemporanei
affermati, emergenti ed esordienti

Daniela Catanzaro
Con questo racconto ha vinto il quarto premio del concorso Concorso Letterario Marguerite Yourcenar 2000 sezione narrativa
 
Un rumore tra due silenzi
 
Dalla finestra un riflesso di sole inondò la sua stanza di un calore inusitato. Alzandosi per socchiudere le imposte, vide quella figura di donna che si accingeva ad arrampicarsi per quella montagna.
La guardò attentamente soffermandosi su quella lunga chioma nera che il vento scompigliava, formando figure strane nell'aria.
Nayr prese il cappello, mise il gioco nello zaino e scese le scale. Conosceva una scorciatoia per arrivare su in cima.
La montagna sembrava molto meno alta di come lei la ricordava.
Aveva appena terminato di fumare, il presente era sfuggente e continuava ad osservare con avidità spropositata quel mare.
Con la sua fluidità indietreggiavano i suoi ricordi, e prestava ascolto a quelle sensazioni forti passate, a quel distacco dolce amaro, a quella perdita che aveva subito.
L'immagine immediata che le si affacciava alla mente in quel pomeriggio d'estate, era il rivedersi in quel paese di verghiana memoria, con quella cappa oppressiva di caldo.
Libera e con quel silenzio che la cullava, si rivedeva la prima volta al mare.
Sentiva in bocca il suo sapore, e come avvinghiata ad un ramo secco, si ritrovava a metà strada tra il cielo ed il mare.
Quel caldo, penetrante nei più oscuri meandri della coscienza, bloccava la sua volontà, facendo calare un velo grigio davanti agli occhi, e sembrava tutto ammantato da una spessa coltre di nebbia, senza più calore né entusiasmo. Era lì in cima a quella montagna, ma guardava estasiata l'infrangersi delle onde. Avrebbe voluto interrogarlo, navigarlo, viverlo quel mare, ma non poteva.
Aveva ucciso quel mare anche la sua speranza, i suoi desideri, i sogni, quelle reminiscenze così poco durevoli.
Non riusciva a pensare a niente di più grande. Impossibilitata dal farlo, cercava nei miti sotterranei della memoria qualcosa.
Da quella montagna lo vedeva agitarsi, inebriata dal tumulto delle onde, affascinata dal furore, sentiva ombre deambulanti alle sue spalle, ma non voleva voltarsi indietro.
Dimenticare.
"Si può vivere la vita solo guardando indietro, ma si deve vivere guardando avanti".
Parole queste dei frammentari discorsi che le faceva suo padre.
Per dimenticare si è comunque costretti a ricordare.
Ma Dido voleva solo guardare il mare.
"Ehi, ma non mi senti, mi vuoi rispondere?".
Vide quel bambino piccolo dagli occhi azzurri che la tirava per un braccio.
Corrugò la fronte in tono di disappunto e chiese con lieve tono provocatore:
"Che cosa vuoi, non ho sentito".
"...allora, me lo dici da dove inizia il mare?".
"Dove cosa?".
"Sì, dove inizia il mare, lo sai, o non lo sai?".
Lo osservò lungamente prima di rispondere, gli occhietti erano vispi e brillavano di curiosità infantile, i capelli erano corti e chiari, ed aveva una specie non definita di gioco tra le mani.
"Il mare inizia da... cioè, il mare è... ma quale mare dici, questo che si vede da qui...?".
"Va bene, non lo sai neanche tu". E nel rispondere con quel tono indispettito offrì al suo sguardo un paio di bermuda blu che si allontanavano con l'indifferenza dell'infanzia.
Da dove iniziava il mare, era una domanda che non si era mai posta.
Iniziò a rifletterci su, e la vita da dove iniziava?
Si nasce soli ed in silenzio, nell'amniotico silenzio di un ventre materno.
Si muore soli e in silenzio.
La vita?
Solo rumore.
E come un caldo abbraccio muto come il vento, nudo come una mano, il tempo passato s'intrufolò... come una marginale appendice della sua esistenza.
La sua intimità era stata profanata.
Qualcuno l'aveva attirata a sé, strappato la camicetta con i bottoni rossi, sollevata la gonna. Si vedevano i calzettoni bianchi che facevano da contrasto alle scarpe lucide tutte uguali. Era contenta di indossare quelle scarpe, le piacevano quelle scarpe.
Qualcuno poi l'aveva bendata, usata e gettata via.
Un odore forte, penetrante, un alito disgustoso, la pelle che si contrae, una smorfia sul viso, una lacerazione ed un graffio sulla pelle, le mutandine strappate.
"Cosa sta succedendo, ma sta succedendo qualcosa".
Percepisce un sapore, un sapore di ferro in bocca, sente qualcosa lacerarsi sempre più profondamente, non riesce a fermarlo, il ritmo è sempre più incalzante, ha dolore, è bloccata, lo stomaco le duole, il cuore le batte.
Anche il cuore di quello batte forte, se ne accorge.
"Ma quando termina e perché?".
Un gemito, un ansimare, un borbottio come quando mamma frulla le banane la domenica mattina.
Poi molla.
Non sente più niente addosso, dentro, intorno. Si scopre gli occhi, vede del sangue sui calzettoni bianchi, le mutandine sono lì a terra strappate.
"Chissà cosa dirà mamma".
Si tocca, il gesto è naturale e spontaneo, non dovrebbe farlo, ma lo fa, è calda e umida, e batte, batte forte come il cuore.
"Strano che batte anche lì, ma allora il cuore può battere in più parti del corpo?".
Guarda dietro di sé, c'è sempre e solo il mare. Testimone suo malgrado.
Ma lei non lo sa, non può saperlo ancora.
Lo guarda e sorride, sorride sempre più forte, cammina ora, cammina sempre più veloce, deve attraversare tutta la scarpata per arrivare vicino al mare.
Ha tolto le scarpe, sente l'umidità della brina sotto i piedi, sente i cespugli rumoreggiare al suo incespicare mentre corre, l'aria sente ha preso la consistenza della terra, le gambe corrono, incessantemente cercano radici, senza più appoggio, sembrano sospese.
Ha rimesso la gonna ed abbottonato la camicia con i bottoni rossi.
"Devo lavare i calzettoni, così la mamma non se ne accorge".
Le mutandine, quelle le ha messe in cartella, a casa ne prenderà un'altra. "Mamma non se ne accorgerà".
Toglie i calzettoni, si sporge. "Così sporcherò tutta la camicetta".
Se la toglie.
Sente l'umidità penetrante dell'acqua a contatto con il suo ventre. Deve fare in fretta.
"Si toglie subito, non si sono sporcati tanto, quello di destra di più però, c'è il sole, aspetto che si asciughino un po'".
Il cuore batte ancora forte, si tocca di nuovo.
Vuole sentire se anche lei batte ancora, sì, come la deve chiamare?
La maestra le aveva spiegato qualcosa, ma non aveva capito molto, non le piacevano le scienze, preferiva la geografia. Le piaceva quando la maestra le raccontava dei posti lontani, dove c'è sempre il sole, e dove i bambini non portano neanche le scarpe, poverini, devono essere molto poveri.
"Devo fare molti compiti a casa. Chissà se quello che mi ha strappato le mutandine fa anche i lui i compiti, era grande, sembrava papà, e se glielo dico a mio padre? No, poi mi chiede, e poi, papà non mi sta mai ad ascoltare, dice che sono piccola, però con me sulle ginocchia Star Trek lo vede sempre, anzi, oggi si dovrebbe sapere se riesce a salvarlo quel bambino, io penso proprio di sì".
E camminando, sentiva il lamento del mare silenzioso, sormontava spazi, vinceva sul tempo, e l'accompagnava come un fedele cane.
"Chissà se al centro del mare c'è il cuore, ma com'è il cuore del mare, è uguale al nostro? No, deve essere molto più grande, e pensa il mare? A cosa pensa il mare?".
Può fare tante altre cose aveva detto la maestra.
Per lei il mare era nato quando lo aveva visto la prima volta, quando con suo padre si era accorto di lui, non prima.
"Sì lo so mamma, c'è il cane da portare fuori, la spazzatura da gettare, il latte da comprare, vado subito".
Il silenzio dei sassi aveva letto tornando a casa.
"Che stupidi quelli che scrivono questo, è normale no? I sassi sono cose, non possono parlare, e neanche stare zitti", glielo aveva detto la maestra, e lei l'aveva imparato bene.
"Sì mamma, arrivo subito, mamma, per il mio compleanno, posso far venire anche Carlotta? Mamma, ma Luca di quanti anni è più grande di me, nove vero? Ed io quanti ne compio, dodici vero? E papà, verrà alla mia festa, l'hai chiamato? Ma come, è al mare? Uffà, è sempre al mare lui. Sììì... vengo ti ho detto ...mamma, ma il mare ce l'ha un cuore?
Il ricordo nitido della sua voce che poneva la domanda le fece battere forte il cuore, sentì una sensazione profonda salire piano.
Era dell'umidità negli occhi, erano labbra chiuse e denti stretti, erano mascelle serrate e mani deboli, erano fiato sospeso e respiro intermittente.
Erano lacrime. Incuranti scendevano dai suoi pensieri.
Il bambino non c'era più.
Voleva invadere quel silenzio rumoroso che sentiva nella sua testa affollata di ricordi.
Quel dolore che aveva gelosamente custodito in tutti quegli anni era selvaggiamente riemerso.
Era come assistere alla visione di un film di vecchia data.
Voleva scrivere quel soggetto, aveva più di una volta tentato di farlo, specie quando le prendeva quella smaniosa voglia di vomitare parole, quando prepotentemente come un tentacolo, quella frenesia le attorcigliava le viscere. Si accorgeva che quel rapporto morboso con la mente non le permetteva tregua. Aveva compreso scrivendo, che la mano diventava non più un prolungamento del braccio, ma diveniva una forza ossessiva di non riposo, e scriveva e pensava, pensava e scriveva, parlava continuamente sottovoce alla sua coscienza, camminava a braccetto con quelle parole.
 
L'orologio le indicò il tempo passato, e lo vide attraversare come un'ombra sospetta.
Con quegli occhi attenti della ritrovata memoria, non riusciva a cancellare la figura di quell'uomo, suo padre, l'incedere caratteristico di chi porta con sé il peso della vita, il passo malfermo, gli occhi piccoli e vicini, una inconfondibile curvatura delle spalle.
Suo padre.
E rivide quei locali abbandonati da tempo, con banconi impolverati, calcinacci che annunciavano in maniera pressante l'incedere del degrado, un vecchio giornale ingiallito dal tempo, poggiato su quella rete metallica, una scatola di gelato fuori mercato con le mosche intorno, alla ricerca di chissà cosa.
E rivide quel volto, quei volti tutti uguali, l'ombra fugace dietro le sbarre, dove scorreva una vita diversa, la vita di chi è costretto a rintanarsi in cinque metri quadri, con mani appoggiate alle finestre, scrutando fuori un futuro che non esiste più da molto tempo.
Anche sforzandosi Dido non riusciva a pensare ad altro se non a questo personaggio senza identità, suo padre, un padre troppo assente per essere considerato tale, ma troppo ingombrante per la sua ricercata lontananza.
Un padre che la accompagnava al parco, che giocava con lei con l'entusiasmo di spiegare le meraviglie della natura ad un sorriso di una vita che nasce.
Era cambiato improvvisamente suo padre, non le carezzava più i capelli, non le prendeva le mani tra le sue, riscaldandole tra le gambe, non la guardava più.
Dido iniziò con detestare quelle passeggiate, sembravano solo un preciso dovere da compiere nel più breve tempo possibile, senza particolari coinvolgimenti sentimentali, senza un abbraccio, un bacio, o solo un sorriso appena accennato.
Quegli incontro se pur rari ormai non facevano altro che aumentare e dismisura il vuoto incolmabile che sentiva crescere dentro, e quella solitudine la rendeva consapevole che pur essendo viva la persona che aveva contribuito a generarla, un vero padre lei non l'avrebbe mai avuto.
E si pentiva in fondo di avergli regalato più volte la possibilità di ferirla così.
Provava pena per se stessa, ma non riusciva a sciogliere la rabbia, poiché inconsciamente pensava che le lacrime fossero preziose ed andavano riservate per qualcosa di bello, di gioioso, anche di triste, ma non andavano sprecate per un padre che non voleva esserci nella sua vita.
Capitava suo malgrado che quella terribile sensazione in fondo la stava accompagnando da sempre, e probabilmente non se ne sarebbe più liberata.
Fino a quella mattina, quando sentì sua madre piangere di là in cucina.
C'era un frastuono cadenzato di voci, non riusciva a distinguere bene di chi fossero, ma sentiva che qualcosa era successo.
Suo fratello. Pensò ad un incidente, correva sempre in moto, e con il cuore che batteva forte, si avvicinò sempre più alle voci.
Scese in fretta le scale, era in pigiama ed a piedi scalzi, aveva messo gli occhiali con l'identico ed abitudinario gesto che caratterizzava ogni suo risveglio.
No, non era una mattina come le altre, i singhiozzi di sua madre erano nitidi ora, distingueva anche le voci. Luca era lì con lei, parlava con qualcuno al telefono.
Avanzò con ampi passi nella stanza, e si sentì pungere da qualcosa sotto i piedi, erano i resti di una tazzina rotta di cui si accorse appena.
Non ebbe bisogno di molte spiegazioni, la vista di quei volti noti, i solchi che rigavano le guance della mamma, di Luca, erano eloquenti: era successo qualcosa a suo padre.
Non domandò niente, si limitò a guardare sua madre, che non appena la vide sul ciglio della porta, abbassò lo sguardo ed allargò le braccia cercando un suo abbraccio.
Seppe all'istante ciò che era accaduto, fu lei stessa a raccontarglielo: suo padre doveva rientrare come d'abitudine, ma allo stesso orario che da anni rispettava, non si era presentato. Avevano dato immediatamente l'allarme. Una guardia costiera l'aveva avvistato e la notizia era giunta la mattina stessa.
In quel mare, accanto al penitenziario si era lasciato morire. Cercando la libertà aveva trovato la morte.
Suo padre gioia rancore della sua vita ora non c'era più.
Inerme senza sapere dove andare, cosa fare, Dido sedette sul tavolo della cucina come quando era bambina, aspettando che qualcuno si curasse di lei, e si sentì figlia di suo padre improvvisamente.
Aveva tante volte ucciso suo padre dentro, soprattutto quando era rimasta pietrificata da quella terrificante scoperta. Per caso, da un discorso della maestra con sua madre si era accorta che era lui quell'uomo grande che... Ed era per questo che l'avevano condannato.
Quanti regali aveva ricevuto in quel periodo, con quanti volti aveva parlato, quanti disegni aveva fatto, quanti diari aveva riempito, quante bugie aveva ascoltato.
L'unico pensiero che le venne in mente in quel momento era assolutamente insignificante: "Perché sono qui e non altrove?".
Ma ora che aveva finalmente interiorizzato il distacco, ora che tutto sembrava definitivamente risolto, suo padre era morto.
Sentì dentro un attanagliante e silenzioso dolore, ma non ebbe voglia di rompere o urlare, guardò solo sua madre, e di colpo le apparve sola ed indifesa, piccola, chiusa nelle sue contraddizioni, le sembrò che la gioia ed il suo entusiasmo fossero stati smorzati da un matrimonio precoce, e da un marito fedele alle sue innumerevoli psicosi.
Dido si alzò e disse ad alta voce: "Amare vuol dire avvertire una mancanza".
Nessuno fece caso a quelle parole, ma quel pensiero iniziò a martellarle il cervello.
Salì nella sua stanza, chiuse le imposte, ripiombò nel buio, non avrebbe sopportato di vedere altre persone, o di parlare con qualcuno.
Si sentì improvvisamente stanca, e come una ragnatela che si ingigantiva, sentì degli spasmi dolorosi che la fecero contorcere in due, un atroce sapore di ferro in bocca, il respiro per un attimo le si bloccò.
Immobili sembravano quei momento spenti che soliloquiavano con lei, e quel flusso le parve onirico. Non voleva ascoltare parole, anche se aveva detto suo padre: "Le parole sono la medicina dell'anima che soffre".
E quante ne avrebbe voluto sentire in certi momenti, quando l'altra lei andava ad accoccolarsi vicino. Dido si addormentò sognando prati verdi e cieli azzurri, e solo l'incessante rumore di qualcuno che martirizzava la sua porta la ridestò da quel torpore.
Luca l'aggredì non appena fu nella sua stanza.
"Ma come fai a dormire in un momento così, mamma ha bisogno di te, potresti almeno far finta di soffrire, se non per te stessa, almeno per noi, certo non è stato quel padre esemplare che avremmo voluto, ma è stato pur sempre nostro padre".
Così dicendo sprofondò nella sedia ed un pianto consolatorio calmò i suoi fragili nervi.
Dido l'abbracciò, e comprese che la verità non la conosceva, e quel fratello lei lo aveva allontanato in silenzio, senza mai riuscire a dimostrargli in pieno l'affetto che nutriva per lui.
Si vestì in fretta, scese in cucina.
C'era molta gente oltre sua madre, e forse solo allora si rese conto di quanto quell'ingombrante marito rappresentava per lei. Sua madre, dall'aspetto un po' fragile, ma testarda e leale, capace di affrontare tempeste e superarle le piaceva in fondo, non ne avrebbe desiderata una diversa.
"Mamma, non ti preoccupare, ci sono qua io, supereremo insieme anche questo, non è la prima volta che ci troviamo ad affrontare qualcosa che non controlliamo".
Questo le disse Dido baciandola sulla guancia, e, per tutto il resto della giornata, resse bene la parte di figlia affranta e triste, parlando con tutti, abbracciando e baciando persone delle quali non immaginava neppure l'esistenza.
Ottemperò ai suoi doveri in maniera eclatante, stupendosi di se stessa e di come avesse potuto reggere quella finzione, come su di un palcoscenico dove lei, unica interprete di quella commedia, recitava con dei fantasmi dinanzi ad una platea muta.
I preparativi del funerale, così come per una festa furono curati ed ultimati con minuzia di particolari, e tutto fu sistemato in modo così semplice da apparire irreale.
La lunga ed estenuante giornata volse al termine, e poté finalmente ritirarsi nella sua stanza.
La calma di inattesa familiarità la spaventava, e quella paura che sentiva dentro, occulta più di una qualsiasi emozione, la rendeva adrenalinica.
Si sentiva eccitata ed impotente, e si domandava quando sarebbe avvenuto lo scoppio naturale che cresceva nel suo corpo disarmato.
Troppo estraneo quel padre del quale ripensandoci bene, non conosceva.
Di lui sapeva soltanto una cosa, non perché glielo avesse mai detto, ma perché lo sentiva: suo padre amava il mare, i suoi colori, l'immensità, le sue insidie. Capì che le aveva lasciato questo in eredità, amare la vita che assomigliava più di ogni altra cosa al mare, quella vita che lui era stato incapace di vivere. Dido osservò il soffitto sopra di lei, spense la luce della lampada, posò gli occhiali sul libro aperto, e con il brivido della morte addosso, chiuse gli occhi.
"Ehi, ma sei ancora qui tu, non ti ho mai vista prima, ma non sei di qui, vero?".
Ancora quel bambino.
Fece uno sforzo tremendo Dido per riprendersi da quei ricordi che la scaraventavano all'indietro, e quella voce dal tono marcatamente meridionale le provocò un'agitazione interna incredibile.
La sua bocca non riuscì ad emettere nessun suono. Lo guardò soltanto con occhi interrogativi e perplessi.
Quanti anni erano passati da allora?
Sua madre era morta pochi anni dopo, non aveva retto a lungo il cuore.
Suo fratello si era trasferito in America, di lui aveva notizie sporadiche.
Lei, dopo aver terminato gli studi all'università, aveva trovato lavoro come giornalista presso un quotidiano, e negli anni che seguirono scrisse un libro di fiabe, che la portarono a disgregarsi ancora di più dalla realtà e a vivere in quel suo mondo fantasioso costruito attraverso le storie che inventava. Aveva anche spedito il manoscritto, ma non aspettava la risposta.
Non si era sposata, con gli uomini nessun tipo di rapporto andava al di là della semplice amicizia, e la sua personalità così distaccata, diveniva motivo di invidia da parte di molti, ma era solo la scorza di una disperata necessità di sopravvivere.
Poi un giorno, seguendo con lo sguardo un insetto che camminava al suo computer, ed osservandone i movimenti lenti, si sentì inspiegabimente disarmata. Inseguì i fili dei suoi pensieri, si licenziò dal giornale, prese un treno e ritornò nella casa della sua infanzia, in quel paesino dove era cresciuta.
In valigia aveva messo solo un taccuino.
Il buio s'era riappropriato dei colori della notte e aveva lasciato che il vento smuovesse l'ultimo residuo di speranza. Seduta su quella pietra notò che la valigia era aperta. Si accorse voltandosi che l'altra lei la stava osservando.
"Allora, Dido, fai presto che è tardi".
"Tardi per cosa?".
"Come per cosa, per ricominciare no?".
"Ah già devo ricominciare, sì, ma da dove inizio?".
"Come da dove inizi, indossami e lo scoprirai, anzi vedi di fare in fretta perché inizia a dare buio qui, e poi io non sono tanto abituata a queste abitudini, dai non fare tanto la preziosa, deciditi, tanto di me non ne puoi fare a meno, e poi vorresti abbandonarmi dopo tutti questi anni?".
Guardò nuovamente verso il mare e vide il bambino allontanarsi. Si alzò il bavero della giacca per il vento, chiuse la valigia e riprese a camminare. Ogni tanto si voltava indietro, ma non si fermò più.
Si diresse verso casa, tutto era al solito posto così come lo ricordava. La stanza era scura e fuligginosa, c'era tanfo maleodorante di chiuso.
Bagliori di luce ed ombra sembravano scoppiettare nel camino spento.
Attendeva qualcuno quella stanza, i ricordi erano appoggiati alla parete, la guardavano come se stentassero a riconoscerla.
Posò la valigia sul tavolo, si diresse verso la mensola, c'era una foto di lei bambina, una foto di Luca, di mamma con la nonna, no quelle di papà non c'erano.
La porta della sua stanza era aperta, riconobbe il letto, la finestra, il carillon, i vecchi dischi, non c'era luce, accese una candela, la stanza s'illuminò fiocamente.
Entrò in cucina, la maschera era lì in piedi, ritta e composta, spiava i suoi movimenti.
Non si parlarono.
Provò ad aprire il fornello, era duro, ci riprovò...
...phumm... un fischio,
"chissà se funziona".
Chiuse ed aprì.
"Sì funziona".
Aprì.
Si diresse nelle altre stanze, le finestre erano tutte chiuse.
"Bene".
Ritornò nella sua stanza, la valigia, aveva dimenticato la valigia sul tavolo, si affrettò a riprenderla, la pose ai piedi del letto.
Calò il sipario, era pronta.
"Soltanto silenzio, fruscio stanco di foglie secche, orizzonti bianchi e rosa, verdi calme onde, uggiose solitudini di deserti viola".
 
Si tolse le scarpe, poi la gonna, poi le calze, poi le mutandine, poi la giacca, poi la camicia, poi il reggiseno, poi gli orecchini. Restò la pelle.
Si sdraiò, il materasso s'incurvò al suo peso, guardò il soffitto, notò una crepa.
La maschera entrò piano, ma lei la sentì e si voltò.
"Che cosa c'è di più bello del silenzio?".
"Il rumore" rispose lei.
"Che cosa lo rende così unico?" domandò.
"La sua assenza".
C'era il mare a guardarla.
C'era una barca, e vide i capelli di suo padre nel vento, brizzolati, perfetti.
Si fermò l'immagine, sembrava un quadro.
Nella sua fissità tra stupore e terrore, là dove si confonde il mistero, l'ingresso trionfale del silenzio arrivò, non aveva suono, non aveva voce, non aveva...
Si guardarono e lei sorrise;
Era libera dal rumore ora.
"E come la lumaca bruciata dal fuoco pareva ridere, in realtà moriva... lentamente, sempre più lentamente...".
 
Una lettera per Dido arrivò alla sede del giornale il giorno dopo.
Nessuno l'aprì, e venne riposta nelle pagine di un libro che aveva lasciato in ufficio.
Passarono molti anni.
Un uomo, che lavorava lì come fotografo casualmente si servì di quel libro per l'allestimento di una mostra sul mare.
Vi trovò una busta, era datata 10 luglio 1976, il nome del destinatario non gli ricordava niente. L'aprì e prese a leggerla.
 
Gentile autore,
è con immenso piacere che le comunico l'interesse da parte della Nostra Casa Editrice per la sua opera.
Saremmo lieti di ospitarla per avere il piacere di conoscerla.
Raramente abbiamo avuto modo di leggere racconti che unissero fantasia ed emotività, il tutto in perfetta sincronia di tempi, di modi, e di generi, riuscendo a utilizzare la lingua in modo così originale ed autentico.
Le inviamo quest'assegno per dimostrarle la nostra serietà.
Confidando in una sua accettazione le porgiamo i nostri più distinti saluti.
 
Piero Raiani
 
Guardò l'assegno contenuto nella busta, cinquantamila lire.
Sorrise nel pensare che era stato spedito ventidue anni prima quell'assegno.
Accartocciò la lettera facendo canestro nel cestino.
Rimise il libro a posto e nell'andare via si stupì dell'inaspettata immagine che la sua mente rielaborò, si ritrovò bambino mentre attonito osservava il mare dalla finestra della sua stanza.
"Chissà" pensò "quali strani meccanismi si instaurano in determinate situazioni e perché?".
Si voltò di scatto rileggendo il titolo del libro: Lontana dal mare.
"Un giorno poi lo leggerò questo libro, un giorno...".
Non rammentò Nayr di essere stato lui l'ultima persona a vedere Dido ancora viva.
Spense la luce, alzò il bavero della giacca ed uscì richiudendo la porta dietro di sé.
 
Concorso Marguerite Yourcenar 2000 a sez. narrativa  
 
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Non chiedeteci indirizzi dei soci: per disposizione di legge non possiamo darli.
©2000 Il club degli autori, Daniela Catanzaro
Per comunicare con il Club degli autori: info@club.it
 
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agg. 3 novembre 2000