Autori contemporanei
affermati, emergenti ed esordienti

Cristiano Della Bella

Con questo racconto ha vinto il decimo premio p.m. del concorso Marguerite Yourcenar 1998 sezione narrativa

 
 
Ridere
 
Avevo gli occhi fuori dalle orbite e i denti conficcati nelle labbra e le mani serrate i pugni e il sangue pulsante nelle vene e non ce la facevo davvero più.
Sul serio.
C'era quel non so che qui in gola che se per caso fosse riuscito a infrangere la diga psicologica che avevo eretto per arginarlo avrebbe travolto il vuoto attorno a me spazzando via ogni cosa.
Però.
Però non penso che sarei riuscito a trattenermi ancora per molto. Fissai gli occhi dell'enorme Gesucristo in croce dietro l'altare, poi abbassai lo sguardo sul prete, e una lacrima mi scivolò sulla guancia. All'improvviso ogni cosa mi pareva divertente, io che nemmeno riuscivo più a giudicarmi. Ero folle? pazzo? idiota?
Magari, sì, magari…
Non che sentire cosa succedeva in paese fosse di mio interesse, sapere come si vestiva la vedova Pinca e quant'era tirchia la signora Pallina, questo no. Quella domenica venni a messa più che altro per fare un piacere alla figura materna, per strapparle di bocca un sorriso e risparmiarmi qualche scontroso commento, tipo «Guarda che razza di figlio nemmeno in chiesa non va», tipo «Che madre incapace, è tutta colpa mia», tipo «Una volta eri una persona migliore, adesso sei cambiato, non mi piace mica»…
Tipo.
Tipo io che avevo perfino smesso di rispondere cose come: «Guarda che non sono un farabutto solo perché non vado a messa», come «Le mie scelte di vita non devono pesare sulla tua capacità di madre», come «Non ero certo migliore perché mi alzavo alle dieci per andare a dire un Padrenostro»…
Cose così, insomma.
Quella mattina mi svegliai con la luna dritta, di buonumore, e non volevo certo rovinare il sereno che albergava in me con una diatriba familiare. Così mi decisi per la menata. Scarpinai fino alla parrocchia, con la mente persa per i cazzi miei, arrivai che la funzione era già cominciata e non riuscii a trovare un posto a sedere. Così mi infilai sul fondo con la schiena poggiata contro questa colonna qui, proprio accanto alla vasca per l'acqua santa. Dinanzi a me avevo la navata centrale, piuttosto sgombra, l'altare e l'enorme Gesucristo in croce.
Poi.
Poi dall'ingresso entrò altra gente, più in ritardo di me, gente che però ci va sempre in chiesa la domenica mattina, gente che dice di credere ai vangeli e alla bibbia e ai salmi e alle prediche e all'otto per mille in favore della chiesa cattolica. Questa gente qui, insomma. Anche loro non trovarono posto a sedere e allora cominciarono a disporsi attorno a me, infoltendo sempre di più il fondo della navata centrale.
E.
E fin qui tutto okay, normale, banale, ritrito. Alla mia destra una distinta signora sui quaranta, coi riccioli biondi appiccicati in testa e la cera sul viso stava chiacchierando con una più o meno coetanea piuttosto cicciottella con due lenti d'ingrandimento al posto degli occhiali. Confabulavano a voce bassa e soffocata, quasi risucchiata, sembrava che si stesero confessando, ma erano praticamente addosso a me, e io riuscii involontariamente a captare la conversazione. Si parlava di una tizia poco dinanzi, bella e carina e slanciata e provocante, la Pinca della situazione. Venni a sapere che era vedova da poco e, «Ma guarda come si concia, sembra quasi una di QUELLE!».
Dopo una qualche formula liturgica recitata i coro dall'intera assemblea di fedeli, le due trulle si dedicarono ai disagi provocati dai lavori in corso in via Carlo Alberto e io me ne disinteressai. Intercettai invece le previsioni del raccolto di un paio di agricoli poco davanti a me, che «Quest'anno c'è troppa frutta e il prezzo scenderà di brutto…». E mentre il prete si era ormai lanciato in un'audace & stimolante omelia, alla mia destra un tizio ingobbito dal peso di almeno settant'anni stava confidando all'amichetto pensionato della sua vicina di casa, la signora Pallina, «Ma pensa che no ha ancora acceso i riscaldamento adesso, che siamo in dicembre!!!».
Pensa un po'…
IO pensai che sarebbe stato buffo percorrere a passi galoppanti la navata centrale, spodestare l'inutile prete, impossessarmi del suo microfono e raccontare per filo e per segno ciò che avevo involontariamente sentito… Forse poi avrei chiesto a quelli che avevano idea di scambiare la chiesa per una piazza di uscire e lasciarmi seguire con attenzione l'audace & stimolante omelia.
Invece.
Invece di fare ciò, che era una vera pazzia, forse anche troppo, rimasi al mio posto vicino alla vasca dell'acqua santa senza combinare nulla. Ma quel pensiero non se ne andò, e destò in me un'ilarità inspiegabile, un qualcosa di profondamente sincero e spontaneo e insensato.
Sorrisi, dapprima.
Poi cercai di tornare serio, facendo boccucce. Stritolai le labbra. Serrai insomma quella bocca che poteva mettersi a sghignazzare da un momento all'altro, interrompendo il rito cattolico del prete e il rito pagano dei credenti.
«Ma cosa fa, ride?
Secondo me è pazzo!
Pensa, magari è perfino drogato, mettersi a ridere così…».
Sentivo che la situazione poteva sfuggirmi di mano da un momento all'altro. Avevo gli occhi fuori dalle orbite e i denti conficcati nelle labbra e le mani serrate in pugni e il sangue pulsante nelle vene e non ce la facevo davvero più.
Sul serio.
Cominciai a pensare alle cose brutte della vita. La fame nel mondo, la guerra nel Medio Oriente, gli integralisti islamici.
Niente, anzi no, peggio.
La risata era più vicina.
Cominciai a pensare alle cose brutte della mia vita. Ramona che non ci stava, il lavoro in fabbrica, il Parma dietro la Juve.
Sempre peggio, ancora peggio. Tanta voglia di ridere, ridere, ridere.
Mi schiarii la voce, per tentare di imbrigliare meglio quello che mi aveva ormai riempito la bocca, un singhiozzo di risata pura e sfrenata che non vedeva l'ora di esplodere.
Un primo scoppio, a bocca chiusa. La signora coi riccioli biondi e l'amica con le lenti d'ingrandimento si voltarono verso di me. Anche la Pinca la tipa che sembrava una di quelle, anche lei mi lanciò un'occhiata, ma io credo che nessuna di loro avesse intuito quale poteva essere il mio problema.
In quel momento pensai di uscire, di svignarmela, di prendere la porta e grazie di cuore, grazie a tutti, sarà per la prossima… E ci fu u secondo scoppiettio a bocca chiusa, che portò su di me l'attenzione di tutti quelli che mi attorniavano, i vicini più vicini insomma;
Ai loro occhi potevo sembrare uno che ride per una barzelletta particolarmente divertente, uno che cerca di trattenere le risate perché non è né il tempo né il luogo per ridere.
Né il tempo.
Né il luogo.
Mi resi conto di poter sembrare un idiota, e questo aumentò la voglia di ridere che albergava in me.
Ilarità.
Ridere.
Allegria.
Poter aprire la bocca e lanciarsi in singhiozzi lunghi e assurdi, fino al mal di pancia, fino alle lacrime, ah ah ah, che risate, tanto da vomitare la colazione, ridere e ridere e piegarsi in due e ancora non riuscire a smettere.
Ma.
Ma liberamente, in camera mia, nel mio letto, sul trono del cesso, come dire, in intimità… Gli stessi posti dove è permesso scoreggiare, mettersi un dito nel naso o anche sì, più o meno, piangere a dirotto come un bambino.
Non qui, davanti agli occhi inquisitori di un enorme Gesucristo in croce, mentre un prete stava predicando pace e amore e comprensione e perdono e preghiera, mentre i credenti si stavano raccontando le ultime nuove del paese, mentre qui insomma si stava celebrando la grandezza di Dio!
Al terzo singhiozzo a bocca chiusa (quando peraltro la Pinca si voltò lanciandomi una tremenda occhiata di stizza, come dire che non c'era niente da ridere), optai per una mano sulla bocca in atteggiamento tipicamente intellettuale, da uno che sa, da uno che ascolta, da uno che capisce, da uno che ragiona.
Da uno che non ride in chiesa la domenica mattina.
Per un po' questo sembrò calmare le cose, non placare, ma almeno arginare, puntellare…
Per un po'.
Però poi andai col pensiero al ricordo di esperienze simili e mi venne in mente quella volta che al funerale di zio Giangi mi venne il singhiozzo così forte quasi da star male. Pensate se avessi avuto un attacco di ridarella quella volta, al funerale dello zio Giangi!
Quest'idea mi scosse fin dalle fondamenta e cominciai a ridere sussultando, dietro la mano pressata sulla bocca. Ad uno ad uno i vari credenti in preghiera mi valutarono, chi facendo poi finta di nulla chi correndo a parlottare col vicino, ad uno ad uno, e io lì che non riuscivo di smettere ed ero conscio del fatto che non potevo resistere a lungo, era questione di secondi, forse minuti, e mi sarei letteralmente spanciato dalle risate, io che a messo c'ero venuto per fare un piacere alla figura materna, io che rischiavo, sì, è il caso di dirlo, io che rischiavo di fare una fichissima figura di merda.
Io.
Io che nemmeno ce l'avevo un motivo per ridere.
Anzi.
La sera prima ero stato a ballare e sballare in disco, ci avevo provato con quella Ramona là, lei mi aveva mandato a quel paese e io allora mi ero quasi sì, ubriacato. Io che ero tornato alle cinque di mattina e la figura materna aveva pensato bene di svegliarmi alle dieci per andare a messa. Io che per farla contenta avevo accettato, io che ora stavo per soffocare dalle mie stesse risa, io che non avevo un cazzo da ridere.
Guardai ancora gli occhi dell'enorme Gesucristo in croce, lui mi ricambiò con aria ostile, «Se fossi al mio posto non rideresti così tanto», sembrava mi dicessero quegli occhi grandi e pallati.
Poi.
Poi fu quasi il peggio. Venne il momento della benedizione di pane e vino, praticamente la scena madre dell'eucaristia, il climax, quando tutti stanno zitti e si sentono anche i discorsi dei ragazzi che stanno fuori a fumare, davanti alla chiesa.
IL momento in cui anche solo un lieve sbuffo a bocca chiusa, con la mano davanti a mo' di silenziatore, anche solo quello poteva significare la gogna pubblica, tutta la congrega voltata verso di me e io lì i mezzo ai loro sguardi infuocati a chiedere pietà.
Cominciai a respirare forte, inspirare ed espirare, lento e cadenzato, marcato, sottolineato, inspirare ed espirare, sospirare…
Il prete enunciò la prima formula, poi alzò il barattolo dorato con le ostie, in altre parole il corpo di Cristo. Qualche attimo di attesa, col silenzio rotto solo dall'appiccicoso bisbigliare delle vecchie perpetue. Poi fu la volta del sangue, altra formula, il calice in alto al cielo e tutti a testa bassa, in silenzio, col solito incomprensibile favellare delle perpetue.
Io lì col rospo n bocca, le unghie della mano incastrate nelle guance, il sudore in fronte eccetera.
Io che non respiravo più, né inspirazione, né espirazione.
Nada, niente.
IO che mi sentivo come un funambolo del circo in precario equilibrio sulla corda, sopra una folla di bambini scalmanati e sghignazzanti.
Sghignazzare… Sì, ridere ridere ridere fino alla nausea, io…
Non ce la facevo più!
La congrega si rimise in piedi e cominciò a recitare una qualche preghiera, a voce alta, e io valutai ancora l'idea di uscire. Forse ce la potevo fare…
Ce la potevo fare?
O no?
Bisognava provare a fuggire verso il portone di uscita a passi veloci ma non troppo, cercando di concentrarmi quei pochi secondi, cercando di non perdere il controllo, cercando!
Cercai, lasciai la colonna con la vasca dell'acqua santa, lasciai la signora coi riccioli biondi e l'amica grassa e quasi cieca, lasciai tutti quanti e tentai la fuga da solo, la salvezza, tentai e quasi lo toccavo già il portone i legno, quando mi trovai davanti il sacrestano, con il cesto per le elemosine.
Sembrava un artista di strada dopo lo spettacolo.
"Bravo sì, proprio bravo, te lo do volentieri un soldo, te lo sei meritato!".
La risata uscì prorompente, il sacrestano magro e bigio si ritrasse di un passo, probabilmente gli sputai anche in un occhio, ma la risata fu davvero esagerata. Non ebbi bisogno di voltarmi per vedere l'enorme Gesucristo incazzato nero, lassù sulla croce, e la congrega di fedeli che guardava scandalizzata verso di me, e il prete che aveva perso il tempo della professione di fede.
No, non mi voltai.
Misi una mano in avanti sulla porta, mi appoggiai e lasciai che le risa mi uscissero fuori, orami era inutile tentare di fermarle, risi e risi e risi, cercando intanto di spingere quella porta, cercando di uscire dalla chiesa, cercando di uscire da quella situazione così scomoda, imbarazzante, pietosa e…
«Allora?», chiese la figura materna non appena entrai in casa.
Gli ultimi singhiozzi erano sfumati un attimo prima, sulle scale. Sorridevo ancora.
«Mi sono divertito, &endash; dissi. &endash; Sapessi che risate…».
Poi andai al cesso a pisciare.
 
Classifica Concorso Marguerite Yourcenar 1998 sezione narrativa
 
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inserito il 10 novembre 1998