Autori contemporanei
affermati, emergenti ed esordienti

Corrado Giamboni

Con questo racconto ha vinto il quarto premio del concorso Club Poeti 2001, sezione narrativa

 
Paolino
 
Per tutta l'estate lo potevi vedere percorrere a piedi il lungomare da piazzale Kennedy a via Firenze. Lui non ti vedeva. Ti poteva capitare davanti all'improvviso, mentre eri impegnato a parlare con un amico o mentre camminando in solitudine, tra la gente, inseguivi un pensiero o qualcuno. Poteva anche succedere che prima di vederlo ne sentissi la voce. Allora era come se emergesse dalla massa compatta di gente che gli lasciava spazio scansandolo. Compariva con il suo bastone bianco e il suo secchiello blu per chiedere l'elemosina.
Paolino non portava occhiali scuri e perciò gli si vedevano gli occhi, ma non aveva occhi. Le cavità oculari erano svuotate, forse un incidente od una malattia o forse era così da sempre, non lo so, non me lo sono mai chiesto e non mi veniva da chiedermelo davanti a quell'evidenza urlata che ti faceva girare dall'altra parte. Ma non era neanche facile distogliere lo sguardo da quel volto segnato che non poteva vedere ma che diceva una sofferenza ed una dignità ad un grado solamente immaginabile. Almeno per me. Io ero ancora giovane, veramente piuttosto giovane, quell'età in cui possono essere ancora di più le cose assolute di quelle relative, in cui può essere ancora forte il peso delle cose ed insieme la loro leggerezza.
Parlo di quando avevo vent'anni o poco più, di quando ero solito immaginare la vita più che viverla, avido di colori, di odori, di cose, avido di tutto. Di cose esteriori e interiori.
VOGLIO TUTTO era una pubblicità che mi era piaciuta molto, della Sony o della Pioneer, dove si vedevano due lune lassù grandissime e vicinissime e una coppia in macchina che le guardava abbracciandosi ed ascoltando musica. Anch'io ero così, volevo tutto. Può capitare che poi si cresca e si abbassi la mira. Ti convincono. I metodi sono tanti. Torniamo a noi.
Era la metà degli anni Ottanta, c'era la musica dei Righeira ovunque quelle estati, mixata ai suoni ed alle voci che provenivano dalla spiaggia e più in su nella scala sociale c'era De Michelis che veniva la Paradiso e scriveva le guide delle discoteche. I Righeira poi li hanno arrestati. De Michelis mi sembra di no. Più in su ancora c'era Reagan, l'attore, una vita per il cinema, una vita per gli USA. L'Iran era in guerra con l'Iraq che era simpatico agli USA, quella volta. L'Afganistan era invaso dall'Unione Sovietica, quando ancora c'era. Dall'URSS erano venute fuori due novità: Chernobyl e Gorbaciov. Negli anni Ottanta c'era rucola ovunque e noi ne mangiavamo molta con la piada e lo squaquerone la sera insieme agli amici. Tavolate così non ne avremmo fatte più. Oltre ai Righeira c'erano già gli U2, ai quali personalmente devo molto, e c'era Madonna, alla quale personalmente non devo niente.
Io abitavo in un posto dove il rumore delle macchine si alternava a quello degli F-104 e mi faceva sentire inquieto ma anche molto moderno. Andavo convincendomi sempre di più che vivevo a Rimini: in un luogo cioè e in un momento al centro dell'attualità e dell'interesse. E in più avevo vent'anni, mica male, l'età per definizione delle cose facili. O difficili. Io avevo la percezione che per me le cose fossero tutte difficili, ma comunque facilitabili grazie all'età ed all'energia. Andavo molto in Vespa quell'estate e quelle estati. Giravo molto anche in bici, parlavo molto, al limite anche da solo, e molti miei discorsi finivano con: forse. Camminavo da solo a volte la sera al porto. Chi è di Rimini sa cosa voglio dire. Il porto è la continuazione della città e di noi stessi, là dove l'orizzonte si apre e aprendosi sgombra lo spazio ai pensieri ed ai magoni che uno ha dentro. Il porto con il suo orizzonte vasto, come del resto tutto il mare, permette il disbrogliarsi di quella parte di noi che si è ingolfata. Basta andarci e stare lì, parlarci senza parlare, col mare. Per questo trovi sempre qualcuno trasognato al porto o al mare che cammina da solo ed intanto guarda lontano per guardare se stesso. Mi ero sempre chiesto come fanno in montagna dove questo sbocco manca, o peggio nelle grandi città, dove non si respira se non il respiro degli altri.
Dall'orizzonte aperto del mare può venire la salvezza. Non importa se poi non viene: può venire. Si continua a sperare.
Una via di fuga altrimenti, una ricchezza in ogni caso: ecco cosa voglio dire quando dico che spesso camminavo al porto la sera da solo.
Conoscevo gente, ma non sempre quella che avrei voluto. La gente che avrei voluto conoscere in quel periodo era soprattutto, che ovvietà, di tipo femminile, biondo, la gente che veniva giù per quindici giorni con gli aerei della SAS e con il Club 33, che si fermava a mangiare al Black Cat, a ballare al Blow Up, a prendere il sole a Bellariva in topless. Che ovvietà, che poca fantasia. I want your sex. Sei fata, sei casino dentro me. Ma la gente che avrei voluto conoscere in quel periodo e non solo in quello, era soprattutto qualcuno che potesse deporre corazze e maschere e che potesse parlarmi davvero, poco ma davvero. Come poi è successo, qualche volta, grazie a Dio. Torniamo a noi.
Era imbarazzante guardare quel cieco senza essere visti, un'operazione oggettivamente disonesta. Ma era un modo, neanche tanto celato, per soddisfare quel che di morboso c'era in me. E non solo in me: molti li vedevo andargli vicino cauti con l'espressione atterrita ma eccitata di chi comunque non vuole perdersi lo spettacolo (dobbiamo molto ai telegiornali ed alla televisione. Non sono innocenti. I bambini non sono innocenti). Dopo di che, appurato che il cieco era cieco davvero e che non aveva nemmeno il cane, l'obolo era d'obbligo: il secchiello risuonava spesso di monetine.
Nel caso di quel uomo però, l'impressione di umanità era sempre più forte di quella di ribrezzo o di fastidio che egli eventualmente poteva dare (mi capita il contrario di fronte a certi mendicanti o zingari impostati per fare pena). Era in ogni caso capace di rovinarti la serata un imprevisto così: era troppo fuori contesto, non c'entrava niente lui a Rimini la sera sul lungomare (mi sono sempre figurato qualcuno che veniva e lo metteva giù, lo scaricava e poi passava a riprenderlo più tardi). Quel volto scavato con la barba incolta che sembrava guardare in alto piuttosto che in avanti mentre procedeva tra la folla quasi a cercare l'aria con il mento o a chiedere la luce ti colpiva improvvisamente, soprattutto se era la prima volta che lo vedevi. Era una cosa forte per me che lavoravo lì e che lo conoscevo: figuriamoci per un turista. Quella voce che chiedeva l'elemosina, la carità: "La carità, fate del bene signori, fate del bene", ce lo ancora in mente ed era decisamente diversa dal resto, da tutti i rumori e gli odori e le luci del lungomare notturno, dalla gente a passeggio allegra, colorata e scottata e svestita, dalle signore imbrattate, dai vacanzieri esaltati a caccia, dagli occhi da guardare che ti guardano erotici e veloci, dai visi truccati e lucidi, i culi da toccare magari, i tedeschi e le tedesche con i loro bambini e le loro birre e gli svedesi e le svedesi e gli italici in cerca di rappresentanti dell'altro sesso o semplicemente in cerca dell'altro sesso, I want your sex tutti insieme a Rimini. E lì in mezzo c'era questo cieco.
No, non si chiamava Paolino. La memoria è una cisterna ingrata. Paolino mi ricordo che era un uomo minuto e timidissimo che percorreva il lungomare vestito con una tuta blu e munito di una scopa e di un raccoglitore per l'immondizia. Guardava sempre per terra e si fermava ogni volta che vedeva un mozzicone di sigaretta od una cartaccia o un biglietto usato dell'autobus o una carta di caramella: praticamente era sempre fermo e
impegnato a ripulire il chilometrico lungomare estivo, un'impresa titanica. Quando passava davanti a noi il principale lo chiamava e gli offriva qualcosa e Paolino a volte accettava timidamente. Altre volte sembrava, era, troppo indaffarato nel suo impegno senza fine e declinava l'invito. Talvolta, quando noi camerieri spazzavamo il marciapiede antistante la gelateria, Paolino te lo trovavi lì di fianco che guardava lo stesso pezzo di marciapiede che stavi spazzando tu, e allora ti facevi scrupolo di togliergli il lavoro, che per lui era molto di più che un lavoro anche se nessuno lo ha mai pagato.
Come si chiamava allora il cieco che ho chiamato Paolino? Come si chiamava quell'uomo invecchiato e vestito sempre con la stessa giacca grigia consumata, con un viso non attuale a ricordarci che abbiamo la vista ma potremmo non averla e che ciò che siamo potremmo non esserlo, e che percorreva su e giù tutti i giorni il lungomare (una volta mi è capitato di seguirlo osservando il comportamento della gente e fingendomi nel suo buio) tra le luci e le voci con il collo proteso, come si chiamava?
Non lo so in realtà, e non credo di essermelo mai chiesto, troppo giovane e distratto, diciamo troppo felice - l'età aiuta - per interessarmi davvero al suo nome. E anche troppo discreto ed educato per chiederglielo, per avere un contatto vero con lui. Già, educato.
Torno a quell'estate e mi soffermo su quel cieco perché adesso mi sembra di averlo conosciuto come in sogno. E comunque di non averlo mai incontrato davvero, di non averne colto al volo se non la forma esteriore, tra l'altro guardando non visto, come il folletto della commedia di Shakespeare.
 

 Classifica Concorso Club poeti 2001 sezione narrativa

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agg. 7 agosto 2001