Autori contemporanei
affermati, emergenti ed esordienti

Clelia Toso
 
Con questo racconto ha vinto il primo premio del concorso Angela Starace 2000, sez. narrativa
 

Passaggi

 
Quando piombai nel nuovo studio era passato del tempo dalla fine dei lavori precedenti. Mi resi conto che si trattava di una nuova dimensione ancora, completamente diversa. Sapevo che era un passaggio, qualcosa ancora che mi veniva dato, regalato.
La logica del regalo aveva avuto molta importanza nella mia vita, poiché aveva a che fare con quella della gratuità e con la sua valenza infinita; a sua volta vi si legava il mio senso di libertà. Si trattava forse di una logica completamente sbagliata ma in quel momento, in quei momenti, una miriade di percezioni di cui ancora non ero consapevole mi tendeva la rete, mi tesseva intorno un filato fine, insensibilmente mi imbozzolava. Non c'era nessun particolare odore ma era come se le narici assumessero con verde pregnanza un tutto olfattivo che era colore e gusto, che solleticava il sottolingua, che era tatto, fiume di cromatismo, olfatto di sensazioni. Un percepire forte e leggiadro insieme, come se le mie particelle di superficie navigassero, staccate da me, e si fondessero con quell'aria colorata di toni diversi. "È l'altro a gettare manciate di semi nel mio pensiero", sono io che dilago dentro e fuori di me la mia olfattività che ha invisibili dita. Sono io che mi confondo con il pulviscolo verde di fuori e con lo specchio cromato, obliquo, là in alto, che rimanda la mia esile figura nell'ampio atrio dalla luce schermata dalle spesse pareti. La mia immagine compare all'improvviso là in alto, tra le pareti scure ed i cromati appena ambrati dal riverbero di una vegetazione al suo primo, freschissimo sbocciare; ha ancora i capelli lunghi e occhi tattili, fondamentalmente seri. Occhi scuri su vestiti sobri, fondamentalmente classici, e capelli liberi, a cornice intorno al volto (o così mi immagino). Sono qui in punta di piedi ed è un'esplorazione. La giornata è bellissima. Qualcuno ha ipotizzato una scrittura più pura, ma io non so scrivere. Perché scrivere? Per chi? Per cosa? Solo perché rincorro l'idea del regalo ed è come se ambrosia e diaspro mi allettassero. Solo perché credo nella vita e l'amo a dismisura, credo in quel suo disordine, in quella casualità strana, che rovescia ogni volta prevedibilità possibili, create dalla mente. L'incrociarsi della casualità dà luogo ad una via inaspettata, nel bene o nel male; sempre è così, finché forse non si raggiunge un qualche equilibrio, cui io sono ancora troppo poco avvezza. A me ormai ogni giorno accade, è proprio la vita nella sua fisionomia. Porta su strade totalmente diverse da quelle su cui ci si era immessi. È un'alleata, una compagna, è qualcosa di sconosciuto, è se stessi, è altro ancora... "La vita sono io" avevo scoperto un dì, camminando sotto un sole intenso di mezzogiorno, immersa nell'erba e in qualcosa in cui affondavo come nelle viscere tenerissime dell'universo. Un universo tenerissimo infatti mi circondava, fatto di mille sfumature e profonde assorbenze, ovattato e dolcissimo. Non altro che io ero la vita, nella dimensione della polimorfica ricchezza della fioritura di settembre, ma un io... un io che "non c'era da nessuna parte". "E tu dov'eri?", infatti, mi fu chiesto. Sì, non ero da nessuna parte, per questo potevo essere la vita. Per questo, per tutto questo scrivo. Per questo poter essere contemporaneamente me stessa e lontana da ciò, altro. Allora il valore sotteso è l'attenzione, il ruolo scelto dalla mente quello dell'ascolto, dell'osservazione. È lenta l'osservazione, e nello stesso tempo lestissima. Paziente, perché non può fare molto, o non vi è molto da fare, attiva, non vi è altra strada...
Per questa possibilità di interscambio, tra me e l'altro, scrivo, per questo amore... Per la risonanza tra me e la gioia, tra me e l'universo. Per i miei amori. Per questo mistero, ricostruzione dal nulla e dal tutto della storia, dalla sacrale unicità dell'ora e dell'adesso, da quell'attimo di eternità: vi affonda qualcosa che ha a che fare con la mia felicità, con il senso del regalo e della gratuità possibili. Gli affetti. Questa disgraziata terra, in cui vi è uno stupro ogni trenta secondi, una morte ogni venti. Questa deformazione dell'umanità, che ha continuato a creare mostri, anche la mia parte di mostruosità, anche la mia stupidità. Io che non so scrivere, dire... che vengo a patti ogni giorni con l'adesso e con il passato, il passato che cambia ad ogni minuto trascorso, poiché sono l'ora, l'esperienza dell'adesso che cambiano e la vita, questa vita, quella vita, respira dalle sue più profonde radici e s'impasta di se stessa... e di questa piena esperienza della compartecipazione.
Passaggi.
Così lo specchio brunito, là in alto, proiettava la mia figura vestita di una gonna appena lunga e di un maglioncino chiaro. Così rincorrevo l'idea del regalo, l'immagine dell'ametista e del diaspro e ne ero pregna e allettata. L'idea del regalo mi pervadeva tutta e ogni cosa era tale: che fossi lì, che lo fossi per la prima volta indicava inequivocabilmente un passaggio in cui mi trovavo, che stavo attraversando; qualcos'altro, qualcosa ancora mi veniva dato, qualcosa che io volevo, entro cui desideravo camminare, che da sola stavo realizzando poiché alcunché di profondamente assetato, dentro di me, mi spingeva là, su quella strada, dove volevo essere regalo e che la vita fosse regalo, tanto tale idea era significativa per me.
Così mi toccava quell'aria ambrata del verde delle nuove foglie appena messe, si confondeva con la mia epidermide e bevevo il sole della primavera inoltrata, nell'aria lucente, ed il silenzio del vasto spazio antistante l'edificio. Osservavo con gioiosa curiosità la vegetazione che da ogni lato mi attorniava: erano alberi alti con le chiome svettanti nell'azzurro, erano spazi d'erba e piante basse dai voluminosi manti di foglie vive, entro cui distendermi, respirare, riflettere, abbandonarmi. Abbandonarsi è fare spazio, tirare somme, guardare lontano, lasciarsi portare dal fiume, sentirlo scorrere dentro, essere farfalla colorata che ci danza sopra, la trasparenza piena che permette a ogni altro di esistere e di essere percepito nella sua essenza e nei suoi contorni ed il percepente essere specchio, bussola, lanterna, genesi, essere nulla, la sembianza vuota dilatata a dismisura... pellicola traslucida, spermatozoo, magia... verità.
Abbandono, gioia. Così godevo dell'aria di sole di quella luminosa giornata di primavera.
Cosa sarebbe accaduto? Cosa mi aspettavo dal fatto di trovarmi lì, in quella nuova dimensione che nulla, proprio nulla aveva di anormale ma che da un'altra ottica segnava una di quelle svolte in sintonia con cose invisibili di cui io solo sapevo e stavo andandovi a prenderne alcune che sentivo spettarmi, che erano arrivate da sè, galleggiando sull'acqua, solo un lieve tocco...? Che cosa mi aspettavo? Qualcosa sicuramente, lo sapevo bene, qualcosa di molto definito e di preciso al tempo stesso. Tutto questo era in nuce nel nuovo momento che in modo repentino avevo battezzato "passaggi" e avevo perentoriamente stabilito dentro di me che avrebbe dovuto essere solamente positivo, esclusivamente tale, non sapevo in quale direzione mi avrebbe portata la trasformazione ma l'avrebbe fatto e sarebbe stata una cosa buona. Era un modo impalpabile di investire, di giocare un'intera mano, certa della direzione degli eventi.
E poi, all'improvviso, il vento aveva cambiato direzione. Non sapevo come, ma qualcosa si era messo in mezzo ed io ero capitombolata come qualcuno cui venga infilato il bastone tra le ruote. Dove avevo sbagliato? Cosa? Eventi strani erano intervenuti ed io mi ero persa di vista, probabilmente a quel punto non c'ero proprio da nessuna parte. Qualcuno mi aveva insegnato a stare lontana da me stessa e così, poco allenata, ero schizzata via come una pallina di carta al vento. Ricordai il sistema che occorreva per sopravvivere, che io non vi ero avvezza da molto tempo e che l'avevo dimenticato.
Barlumi di un lontano mosaico emersero in quel momento alla memoria: fuochi d'artificio nivei nel bianco del cielo; bianche saette attraversano lo stomaco. La mente precipita all'indietro, attorniata da lattei sipari; rotolo insieme ad essa tra le braccia del ricordo, della rimembranza. Se le cose fossero andate in modo diverso, non sarebbe avvenuto facilmente. Per l'ennesima volta dovetti credere allo strano, impensato legame delle cose, all'imprevedibilità dell'accadere. Piccola lezione, giusta, commisurata a quello stadio del mio cammino. Ma non avevo immaginato questo tipo di passaggio.
Venne molta pioggia e con essa giunse l'estate, un altro passaggio ancora. Lottai in quell'arco di tempo, nel quale ogni cosa era parsa essermi strappata via, dovetti sottrarmi a parvenze capaci di materializzare fantasmi dalle grinfie aguzze che torcevano budella e tiravano a galla certezze, a specchiarsi nella pallida volta del cielo, in cerca di conferma, o smentita.
L'attesa mi massacrava, era schegge di ghiaccio che si configgevano negli avambracci. Dov'era il manto sereno e sfavillante di quella natura d'aprile, dove i miei sogni, le piccole radici di qualcosa di nuovo che là avevano cercato nutrimento, validazione?
Mi pareva di trovarmi, per una misteriosa trasformazione delle cose, in mezzo alla forza trascinante di un fiume in piena e non volevo correre con esso, assumerne le sembianze, il colore, non volevo procedere a quella velocità... Ingoiavo acqua di fango e non potevo opporre resistenza alla piena che mi trascinava via.
Poi uno squarcio di sereno. Il cinguettio degli uccelli. La frescura della vegetazione vicina. Il calmo scrosciare della corrente contro ripe basse, placato ogni sussulto, ormai disteso l'impeto forsennato. Senza muovermi ascolto tutto questo, del tutto priva di ogni forza per orizzontarmi.
Mi richiama in me il garrito canoro protratto: una sollecitazione tra i flutti dell'incoscienza. Qualcosa, dentro al corpo martoriato, comincia a reagire, un palpito si attiva nel petto, si riaccende la vitalità. Energia prorompente si irradia a cerchi concentrici e la gioia sale, a dire che ancora tutto è possibile, sotto un cielo chiaro, dinanzi a un placido letto di fiume, che potrebbero essere, indifferentemente, di una qualsiasi parte del mondo e d'improvviso io sono sua cittadina, sono qui soltanto in sosta, una sosta momentanea entro un cammino che, in realtà, non si ferma e non si ripete. Mi alzo e sono ancora dov'ero, in attesa del mio qualcosa... c'é stata soltanto una pausa... il mio qualcosa lo scoprirò domani.
La realtà segue leggi diverse da quelle che per vario tempo io ho conosciuto e perseguito; la mia lingua aveva avuto un guizzo insolito quel giorno, la paura aveva cominciato a serrare le mie membra e a farle tremare, il cielo era diventato grigio ed io avevo smarrito la padronanza di me stessa. Tutto si era trasformato ed io mi ero trasformata. Dissonanza con la legge. Poi il senso di colpa era sfuggito al mio controllo. Domani é ancora là, che farò delle stelle che scenderanno sul viale alberato e sulle verdi chiome possenti e fruscianti al vento? Mi lascerò andare ancora una volta e nuoterò nell'aria colorata, nell'acqua chiara di quel fiume, gustando la fragranza dei riverberi verdi che mi circonderanno da ogni lato e in cui sarò immersa e terrò in mano la mia esile figura rimandata dallo specchio brunito, scorticata, sbiadita dalla lotta interiore. Raccoglierà il suo tempo, ignorando il capogiro della debolezza.
Raccoglierò le mie pietre, i miei regali, assaporerò la gratuità dei gesti, dei minuti, la sospensione del tempo, avrò imparato a non temere le mie paure, a separarle da me stessa. Ancora, per l'ultima volta, mi allatteranno il seno della terra, la sua aria, la sua primavera, la gratuità, il mio innamoramento, l'amore... Cadrà alle spalle l'inservibile pelle secca, sgusciata. La terrò tra le braccia un poco, come una cosa adunca, con tenerezza. Mi sarò perdonata.
Mi abbandonerò al vivo colore che mi riempirà gli occhi e le mani, non sarò che polvere verde sciabolata di rossi, di ocra, di pastellati chiari, nell'ovattato silenzio dell'istante.
Camminerò tra le mie esistenze, allacciate come abbracci, poi mi affaccerò e accarezzerò, laggiù, nel formicolio del giorno, il palpito della vita, nel suo viavai quotidiano. L'emozione mi riempirà gli occhi e ascolterò il battito del tempo nel suo impercettibile mistero.
Non sarò che ambra, o ametista, il regalo si sarà compiuto su di me, avrà dato luogo alla trasformazione: vestita di bianco camminerò nelle strade della sera...
Qualcosa mi aveva fermata prima che avessi potuto essere polvere verde, prima che avessi potuto compattarmi ed essere me stessa. Il nuovo studio mi era rimasto estraneo, per una serie stranisima di combinazioni; non avevo potuto proseguire il mio cammino di sensazioni in cerca del combaciare dei significati e dell'azione. Questo era quanto mi aspettavo, in qualche modo, infatti. Perciò sentivo in maniera così viva l'irradiarsi della luminosità, nel giorno, poiché quel particolare stato d'animo, di redenzione, corrisponde al dilagare, quasi animato e buono, del sole. Anche ora che scrivo e fuori è mattino, esso è là, nel suo massimo splendore ed io amo gli ambienti così inondati, ampi e spaziosi, arredati con tende chiare, scostate, da cui traspaia tutta la luce. Lì mi piace, quando posso, sorbire un caffé e lì osservare, nella rarefazione del tempo, sospeso dalla volontà, il pulviscolo delle cose al rallentatore, le persone che vanno e vengono, si allontanano, tornano, fanno considerazioni, discorrono, chiacchierano, gioiscono, si dolgono. È una parentesi in cui mi ritrovo.
Così nel nuovo studio avrei dovuto ritrovarmi. Sarebbe stato tagliare i ponti con altre cose vecchie disseccate, sarebbe stato rigenerazione, generazione stessa. Rigenerazione delle mie fibre e spostamento dell'ago di rotta ancora di un poco, sempre più verso l'obiettivo stabilito. L'obiettivo era un'immagine quasi dell'infanzia tanto era lontana, un insieme di fili intrecciati solo da scorporare, erano già stati dipanati, per questo mi era facile ed ero lì. Ricerca di conferma di ciò che fuori tutto, tranne gli spazi di luce e la dilatazione di sole negava, violentava, costringeva, rattrappiva. Tutto, quanto mi attorniava: i ritmi e la musica, l'orchestra di ogni giorno, di cui quasi ognuno faceva parte. Pochi ne restavano fuori. Io non riuscivo a respirare che con essi, entro una dimensione di adamantina chiarezza. E là, nel profondo del mio cuore un progetto altrettanto tenace non voleva arrendersi.
Voleva farsi spazio, trovare la pietra di luna, la pietra dura trasparente, di rara bellezza, celebrare il prorompere del verde sotto l'aspersione del tempo di primavera, ammantato di sole. Quale figura rimandava lo specchio? Perché scrivere? Che cosa, dopo? Quale me, laggiù, nella strada di alberi altissimi? La bellezza era grande, come le montagne che profilano ad occidente questa mia terra, ogni sera, nel tramonto che le trasfigura di luci soffuse. Come la magica coesione dei pezzi da presepio di Cividale, nessuno potrebbe spostare una torre che la voce del Natisone ne piangerebbe per aver turbato l'incanto di quelle architetture, di quegli spazi, la perfezione di piazza Paolo Diacono, i trilli delle sue rondini, e sue piene, il suo ponte, l'affacciarsi dei suoi gioielli di vestigia, la delicatezza di borgo Brossana, il suo canto di gioia del mattino...
Riemersi lì, nel mezzo della città, nella piazzetta alberata. Il palazzo di cemento mi avvolse, come mi fosse venuto addosso, con le sue vetrate, i suoi balconi rientrati. Dovevo attraversare il porticato e salirvi. Tutto mi sembrò diverso. Nel corridoio ciarlai, assennatamente, con una persona. Ebbi tema che la mia voce si spargesse, in quel vuoto, oltre il dovuto. Per un attimo mi persi d'orientamento e sbagliai direzione: solo un paio di metri e tornai sui miei passi. L'altra persona era arrivata a destinazione e vi fu silenzio. Il silenzio scuro che avevo conosciuto. Fui sulla soglia - qualcuno mi aveva aperto la porta - e fui accolta.
Eccomi nel vestibolo. Il sorriso si spande sul mio volto e non l'abbandona per lungo tempo. Lapislazzuli, pietra di luna, azzurrite, ametista. Fanno male sul corpo scorticato ma non tornerò indietro, non me lo sogno nemmeno. I piedi sono piantati sul pavimento, e vi si muovono. Con le dita bevo il colore delle pareti l'aria al centro della stanza appartiene ai miei occhi ed ai miei polmoni, è come se ne facessi riserva, se me ne saziassi.
È come se potessi sedermi. E la sedia è là, deliziosamente dondolante sullo schienale e inaspettata. La tenda di tessuto grezzo chiaro separa la luce di fuori dalla luce della stanza, è una separazione sottile, appena abbozzata, a creare un interno, e un fuori, ne traspaiono velami di tutto quel verde, lievi e diffusi, ad abbraccio, immaginati a centottanta gradi e il cielo è azzurro, lassù, sopra di noi, al di là di quelle chiome. Scosto la tenda appena, la vetrata rivela tutto questo; posso uscire sul terrazzo, farne il giro, guardare dentro, attraverso la trama rada, tra il vestibolo e l'ingresso, sul pavimento a piastre grandi, ciliegio chiaro.
Mi dondolo appena sullo schienale, deliziosamente, e mi ritrovo tra le pareti verdi, come fossero un pò mie. Qualcuno fuma, là dentro, ma il fumo si disperde, non so in quale modo. Vi è silenzio e d'improvviso l'aria è incolore, ogni tono più forte della stanza è neutralizzato dalla consapevolezza e dal ritmico respiro della mia presenza, ogni colore vi è assorbito e rimane soltanto il lup-dub martellante del cuore, a segnare l'essenza dell'esservi.
La brillantezza dell'esservi. L'altra persona mi sorride con tenerezza perché vede che sono presa da tutto questo.
La brillantezza del viola che mi raggiunge da uno dei grandi quadri alle pareti: un viola che non ha contorni, né definizioni, che si spande nell'aria, che fa parte della stanza come il verde e il blu che fuoriescono dalla cornice e ritornano nei due vasi laccati poco distanti e sono i miei occhi, la mia bocca, rapiti, i miei capelli scuri, ora corti, che danzano a raggiera una danza compostissima - e felice.
Sorrido, nel dondolio dello schienale, nelle ginocchia distese, abbandonati i piedi. Le mani stringono i braccioli.
Il sorriso mi incanta, senza fratture. Ascolto il fumo, e ancora l'aria, osservo l'angolo alla mia sinistra, e gli orologi, inghiotto qualcosa e la beatitudine, in quella sospensione di tempo, è mia.
Guardo il vetro spesso in cui è incastonato l'orologio piccolo, da tavolo, potrebbe scoporvisi la luce. Il piano lucido della scrivania è lì, davanti a me. Tutto questo mi è stato regalato, e mi basta. Insensibilmente ho arrestato il dondolio, sullo schienale nero. Riferisco qualcosa dell'accaduto, alcune cose sono abbastanza difficili ma non ha molta importanza. Tornerò nell'ampio locale luminosissimo, fortemente soleggiato di mattina, a bere caffé d'orzo e ad osservare la gente, e me stessa, ad ascoltare il lup-dub del mio cuore e dell'immaginazione; tornerò sul fiume, dalle livide acque chiare, nelle mattine fredde, ad ascoltare il vento ed il sussurro della sua voce e camminerò ancora tra botton d'oro e papaveri alti nelle distese aperte incolte, fuori casa mia... ma ora sono qui, nelle tinte caldissime di questa stanza dove qualcosa mi è appartenuto, le pareti di polvere verde, il respiro chiaro, la velatura sfumata, l'ocra del pavimento, l'abbandono, l'esistenza... e me stessa.
È un dono e appartiene a tanto tempo fa.
E ora camminerò, con vestiti di voile, nel viale e nella piazza alberati, tra il dardeggiare dell'ultimo sole ed il primo imbrunire, battezzata di bianco e anche l'orizzonte sarà mio, e pure, questa sera, perfettamente pulito nella luce del tramonto, laggiù, oltre la città, nella dimensione immensa della pace del mio cuore.
Da molto, molto tempo la chiarezza del tramonto non era così dorata e calda, da molto, molto tempo un vestito bianco non mi avvolgeva interamente, sino ai piedi. Non fa freddo, e come il piccolo principe che sposta la sedia sull'asteroide, continuo a guidare incontro al sole, che si sposta insieme a me, in una irreale permanenza dei bagliori del tramonto. D'improvviso ho raggiunto la sommità del colle, oltre il lago; mi fermo e, in quella pace perfetta, ascolto i segmenti del tempo aver ripreso il loro battito lieve; con lentezza seguo il sole scomparire senza rumore, laggiù, oltre la catena azzurrina di monti, il cielo trascolorare mille volte come uno spettacolo senza pubblico, cui mi sia capitato di assistere per caso. Sarà notte, tra poco, e l'alba di domani attenderà i miei progetti.
Passaggi.

 

Classifica Concorso Angela Starace 2000 sez. narrativa
 
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inserito il 19 dicembre 2000