Autori contemporanei
affermati, emergenti ed esordienti

Claudio Fazzino
Con questo racconto ha vinto il quinto ex aequo premio al concorso
Marguerite Yourcenar 2005, sezione narrativa

«Da lontano»

1


Ho quarant'anni e torno indietro. Torno indietro incuriosito e la curiosità è nata da un libro, che ora stringo tra le mani e sfoglio lentamente, danzando tra una pagina e l'altra, leggendo e rileggendo senza una sequenza precisa, brani che il caso mi porta alla vista ed alla memoria. Vorrei si potesse gridare a volte fuori dalla finestra quelle bellissime cose che qualcuno ha scritto, in una vecchia stanza povera e logora come logoro era lo scrittore in quegli anni lontani del 1800 odoranti di vecchio ma anche di dolci ricordi.
Vorrei gridare perché tutti sentano, mentre spinti dalla vita compiono le loro giornate come un lavoro, non come un dono.
Già non come un dono. La perdiamo così diventando le nostre cose, diventando quello che possediamo e quello che ci fa campare.
Si è la vita che d'un tratto ci possiede, non il contrario.
È un assurdo paradosso, uno spreco d'esistenze che si affacciano alla mia coscienza rendendomi malinconico, perché tra quelle esistenze perse in questo uragano di nulla si trova anche la mia.
Solo tra le righe dei fogli che scrivo riesco a fermare il tempo, prenderlo tra le mani e tramutarlo in inchiostro, liberarmi per un momento lungo un pensiero, e planare leggero sulle parole che ho dentro e che solo io posso capire ed accettare.
Ma voglio imparare a vivere, e volare via dal nulla che ci trascina. Voglio avere coraggio.
Tra le mie rughe in cui affonda la mia età e tra le righe in cui affondano i miei pensieri voglio trovare una via, scavare nel cuore un ultimo solco, fuggire dalla prigione che ho costruito attorno a me in tutti questi anni. Forse non è troppo tardi.
È cominciata così, leggendo questo vecchio libro e tremando d'emozione.
In una vecchia soffitta che non vedevo da anni sento ancora gli odori che avevano le mie cose di un tempo.
Rivedo, sfogliando questi vecchi libri, una vita che non ricordavo, rivedo i miei vent'anni. Sepolti sotto un metro di carta, li avevo perduti. Chissà perché poi li ho nascosti così profondamente nel mio passato.
Avevo in mano "i quaderni di Malte Laurids Brigge" di Rilke, e leggendolo tremavo d'emozione; avevo passato anni ricordando le parole di questo libro, ancora le ricordavo, giacevano con le loro radici profonde nel fondo della mia anima, dove la mia giovinezza ora riposa, assopita:
«...Con i versi si fa ben poco quando li si scrive troppo presto. Bisognerebbe aspettare e raccogliere senso e dolcezza per tutta una vita e meglio una lunga vita, e poi, proprio alla fine, forse si riuscirebbe poi a scrivere dieci righe che fossero buone. Poiché i versi non sono, come crede la gente, sentimenti, sono esperienze. Per poter scrivere un solo verso si devono vedere molte città, uomini e cose, si devono conoscere gli animali, si deve sentire come gli uccelli volano e sapere i gesti con cui i fiori si schiudono al mattino. Si deve poter ripensare a sentieri in regioni sconosciute, a separazioni inaspettate e ad incontri che vengono da lontano, a giorni d'infanzia ancora inesplicati, ai genitori che eravamo costretti a mortificare quando ci porgevano una gioia e non la capivamo, a malattie dell' infanzia che cominciavano in modo così strano con tante trasformazioni così profonde e gravi, a giorni in camere silenziose, raccolte, e a mattine sul mare, al mare, a mari, a notti di viaggio che passavano alte rumoreggianti e volavano con tutte le stelle, e ancora non basta. Si devono avere ricordi di molte notti d'amore, nessuna uguale all'altra, di grida di partorienti, e di lievi, bianche puerpere addormentate. Ma anche presso i moribondi si deve essere stati, si deve essere rimasti presso i morti nella camera con la finestra aperta e i rumori che giungono a folate. E anche avere ricordi non basta. Si deve poterli dimenticare, quando sono molti, e si deve avere la grande pazienza di aspettare che ritornino. Poiché i ricordi di per se stessi non sono. Solo quando divengono in noi sangue, sguardo e gesto, senza nome e non più scindibili da noi, solo allora può darsi che in una rarissima ora sorga nel loro centro e ne esca la prima parola di un verso...»
E mi chiedo ora, qui, seduto su questo scatolone di ricordi, se stia arrivando per me, dopo tanto tempo, questa rarissima ora.
Si, perché di quanto ho letto, tutto ho vissuto, perciò provo una forte emozione, perché è stato come leggere la mia storia che non è poi così dissimile da quella di molti. Allora forse sono capace adesso di poter scrivere un verso che valga qualcosa, perché per tutta la vita l'ho cercato ma invano. Sono anni che ho smesso di scrivere, anche se ogni tanto la mia mano impaurita cerca la penna sul tavolo e tremando e sudando si trascina sul foglio, dove piangendo scarabocchia parole, per poi fermarsi stremata dopo una riga di nulla, un viaggio infinito.
A volte mi chiedo perché non riesco più a dire nulla, ma non è la domanda a farmi paura, come sempre sono le risposte quelle che ci piegano, allora spengo la luce, chiudo gli occhi, mi tappo le orecchie, per non sentire o vedere che ho ucciso una parte di me con le mie stesse mani e non voglio accettarlo. No, non lo accetto perché farlo significherebbe prendere tutti questi anni e capire che sono sbagliati, passarli in rassegna e vedere troppi errori per raggiungere una dignitosa sufficienza. No, come Professore, strapperei il compito della mia vita. Ma non sono a scuola, non è più facile come allora. Io non ho altre occasioni. Alla mia età capire queste cose significa sentire d'un tratto il peso dei rimpianti e non sapere come fare a sopportarlo. Ma se si trova il coraggio si può cambiare, eppure perderei tutto e non sono più un ragazzino.
Mi porto dietro i miei sbagli, ma quanto posso resistere? Impantanato nella paura, scelgo di affondare. Poiché lasciarsi andare è più semplice, ed io sono così bravo in questo mestiere, il mestiere di lasciar perdere.
Coscienza non dirmi che sto sbagliando, lo so già. Ci proverò va bene? Magari qualcosa ne verrà fuori.

2


Ero in una vecchia soffitta, piena di oggetti antichi, che si infilavano nel mio passato lentamente salendo dal basso, riaffiorando nei ricordi che portavano a galla. Ero lì per portare via tutto, decidere cosa tenere e cosa distruggere, ma perso in questi vecchi quaderni e libri e tavoli e sedie, e tutto quanto possa contenere una soffitta, sentivo di essere entrato in un labirinto di ricordi o meglio di voci, voci che gridavano: «Non mi buttare!»
Era buffo e sorridevo stregato. Erano anni che non li vedevo; li credevo persi, smarriti tra le sabbie del tempo, eppure erano lì dove mio padre li aveva conservati e custoditi. Rinchiusi in scatole di cartone che avevano cambiato destino, da contenitori di detersivi erano ora dimora delle nostre vecchie cose, da custodi di pannolini erano ora custodi di ricordi. C'era un intenso odore di vecchio, s'insinuava pesante nelle narici, e faceva quasi girare la testa, inoltre era freddo, con l'umidità sfacciata che mi si stringeva addosso sentivo le ossa tremare e gemere di un tenue dolore. Aprire la piccola finestra sulla parete di destra causò un turbinio di polvere che riposava su quel davanzale da numerose stagioni e adesso una folata di vento la prendeva e la portava via, nell'intera grandezza di quella stanza e su per le mie narici dove si bloccava e veniva poi espulsa ricacciata da un sonoro starnuto. Lo starnuto causò in quell' antico silenzio un'eco leggera, che morì quasi sul nascere, sembrava un coro di fantasmi, e quei mobili coperti da bianchi lenzuoli lasciavano credere nel buio sovrano, che di fantasmi ce ne fossero davvero.
Tenevo così una vecchia lampada accesa, una lampada ad olio che mio padre trovò a casa del nonno.
Non fu molto difficile accendere quella piccola fiamma, che ora ardeva silenziosa e lieve, piccolo bagliore nel ventre della mia personale balena, mi lasciava un arco di luce sufficiente per godere di quelle lontane meraviglie sepolte e poi dimenticate. Decisi che mi piaceva quella lampada e mi promisi di portarla via. Fu la prima cosa che decisi di tenere, poi vennero le altre, una dopo l'altra le passavo in rassegna e il mio cuore le bloccava, le immergeva nel suo mare, ne ritrovava il colore e non le voleva lasciare più andare. Già sentivo la voce di mia moglie, mentre sorridevo pensavo che non mi avrebbe concesso di tenere questa roba così vecchia. Del resto, Lidia non ha mai apprezzato il mio passato, forse semplicemente, perché non l'ha vissuto.
So che sbaglio a parlare di questi momenti, sono troppo personali, profondi, e inquieti, tanto da fuoriuscire dalle mie labbra, come un respiro che non riesco a trattenere, un'anima che mi abbandona e vola via.
Sentivo il calore spiacevole di un Sole troppo forte che entrava da quella finestra, un Sole d'Agosto, così caldo e intenso che mi scottava solo a pensarlo; e la mia pelle fragile, non resiste a quello che per molti è quasi un piacere o un obbligo di apparenza. Sono solo un animale notturno, mi piace il buio, ed i luoghi oscuri sono invitanti richiami di qualcosa di nascosto e segreto in cui mi avvolgo nelle ombre come fossero coperte, ed in questo freddo che sale nella notte ritrovo il tepore di un abbraccio bianco, come bianco è il colore della luna, spettatrice obbligata di ogni vita passante, che annoiata sbadiglia o divertita sorride, solitaria lì in quel cielo lentigginoso e mi fa compagnia nel viaggio solitario che attendo. Bianco... bianco è questo foglio, bianco è in quella nuvola che si trascina piangendo in un cielo crudele, bianco è il lenzuolo di lino che la notte mi copre, in quel vasto letto solitario, bianco è l'attendere ansioso la sua venuta, quando si poserà lentamente sul letto, sedendosi leggera come una piuma, bianca, e... lentamente si toglierà la camicia, che le cadrà lieve da una spalla e poi scivolerà dall'altra... sarà come un onda del mare, ricadrà su se stessa per poi accarezzare le sponde di quella pelle liscia, pura seta, arte del più bravo tessitore di vite, del Dio creatore che ha concepito tale meraviglia. Poi d'un tratto scoprirò tra le pieghe timide del suo vestito un piccolo varco, un segreto buco nel muro di paura e timidezza che ci separa, e da lì vedrò danzare sul petto il suo seno... bianco.
E bianco è la parola che avevo dentro, che mi faceva male gli occhi a guardarlo, e non riuscivo a scacciare; la leggevo su di un libro che sapeva di polvere, trovato nella soffitta del mio cuore, lì dove mio padre aveva nascosto il passato perché non lo trovassi. Il libro era mal rilegato, le ultime pagine erano quasi tutte staccate, e i bordi sfilacciati pendevano come vecchie liane a cui le parole ancora si aggrappavano in un disperato bisogno di essere ancora lette. Lo tenevo in mano facendo attenzione a non arrecarvi ulteriore danno; lo tenevo in mano e leggevo quelle parole, quei versi, e sentivo che mi erano mancati, negli anni che erano passati, sentivo che li avevo perduti, e ora li avevo ritrovati, e mi vedevo giovane con qualche speranza ancora in tasca ed un taccuino ed una penna su cui scriverla questa speranza, per renderla viva e darle vita, perché restasse per sempre, calcata con forza sulle pagine del cuore.
Leggevo e fu un colpo al petto, un'emozione che non provavo da anni risaliva il fiume di quelle parole fino alla fonte del mio sguardo e su dentro fino in fondo all'anima:
«...Scopriamo, sì, che non sappiamo la parte, cerchiamo uno specchio, vorremmo struccarci ed eliminare il falso ed essere veramente. Ma qua e là ci resta ancora attaccato un pezzo di travestimento, che dimentichiamo. Una traccia di esagerazione rimane sulle nostre ciglia, non notiamo che gli angoli della nostra bocca sono piegati. E andiamo in giro così, zimbelli e creature dimezzate: né uomini veri né attori.»


(I quaderni di Malte Laurids Brigge - R.M.Rilke)



Ed è proprio così che mi sentivo, come se col tempo, convinto di aver gettato la maschera, avessi ritrovato ancora sul volto i segni delle mie più profonde e nascoste bugie, "gli angoli della bocca piegati", attore maldestro e solo comparsa di questo immenso spettacolo che è la vita. Come una "creatura dimezzata", mi dividevo tra il giorno e la notte, tra il buio e la luce, tra me e le mie verità, cadendo all'indietro in un mare che non mi apparteneva, che sconosciuto e profondo mi ingoiava ingordo e invadente, sfacciatamente vile, non mi affrontava ma mi ingoiava, senza darmi speranze.
Rubavo momenti a questo tempo rallentato e un po' pigro che nella tenue oscurità di questa soffitta sembrava trovare riposo. Mi nascondevo dietro le scatole, e i mobili antichi, come un vecchio bambino, rivivevo ancora quelle eccitanti emozioni che mi infuocavano il viso, quando correvo per i corridoi della casa, fuggendo qualcuno o forse qualcosa, dalla paura falsa che nasce da un gioco, che non è vera paura, ma solo voglia di farsi acchiappare perché è meglio che chiederlo. Infatti a volte c'è imbarazzo anche con i genitori; è come quando vuoi dir loro che gli vuoi bene ma ti senti bloccato e ti manca il coraggio, allora ti lanci in un abbraccio e un po' deluso pensi che tanto lo sanno già e non c'è bisogno di dirlo. Poi ti ritrovi più grande e ti succede ancora, ma stavolta lei è una ragazza, e ti toglie il fiato guardarla, perché la sua bellezza è un magico incanto che ti ingarbuglia le parole, e allora non ti conviene parlare, pensi, perché ne uscirebbe un suono confuso, una frase sconnessa e parole claudicanti, inceppate. Allora la baci ed è così semplice d'un tratto. Lei non si è ritratta, non ti ha picchiato o offeso, è li con le sue labbra sulle tue, labbra danzanti, che si muovono leggere mentre tra di loro la lingua le accarezza, e ondeggiando accarezza le tue, e poi la tua lingua che come un onda gemella arriva da te fino alle sue parole, schiudendone il senso e trovando la strada per non sbagliare stavolta e dirle con tutto il fiato che lei ti ha rubato: «Ti amo». Ma adesso ero lì, eccitato come quando ero bambino, nascosto perché non mi trovassero e portassero via, anch'io oramai oggetto del passato, vecchio scatolone pieno di ricordi che è finito in soffitta e tutti l'hanno dimenticato. Prendo quei vecchi libri uno dopo l'altro, lentamente, sfogliandoli pagina per pagina, soffermandomi quand'è il momento a rileggere per poi ricopiare sul mio vecchio taccuino ciò che non avrei voluto più dimenticare. Sì perché c'era anche quello, lassù, stava tra due colonne di libri in una scatola da scarpe su cui la vecchia e stanca mano di mio padre aveva scritto con un pennarello nero il mio nome; gli angoli erano tutti rigirati, aveva delle orecchie così grandi che ancora un po' temevo acquistasse l'udito! Sarà stato l'ultimo, poiché solo poche pagine erano state riempite dalla mia giovane mano, la quale vi si era avventata con incosciente coraggio logorando parole e forzando rime e pensieri. Per il resto era intonso, ancora tutto da riempire dei mattoni che mi servivano, per poter scrivere alla fine, quell' unico verso di una qualche importanza, nella profonda attesa della mia "rarissima ora". Ma tra quelle poche pagine macchiate d'inchiostro e pensieri, mi colpì una poesia, vecchia quasi vent'anni, dimenticata, smarrita, nel corso di un'esistenza lontana dalle proprie radici:

SABBIA


Voglio essere sabbia di mare,
liberandomi dalla tua stretta,
scivolerò tra le tue mani così in fretta
che non mi saprai fermare.
Voglio essere sabbia nel vento,
Che possa raggiungere i lidi dell'io,
E pacifico posarmi a terra e dirti addio
Mentre affondo in un mare di sabbia morendo.
E voglio essere un mare di sabbia,
Inghiottire il tuo amore e l'odio che passa,
Portandosi via l'ultima speranza che possa
Far volar via con un soffio questo mare di rabbia.
E infine voglio essere sabbia del tempo,
Così piccola e immensa come il mio tentativo
Di riuscire a rigirare la clessidra che vivo,
Ed esserne padrone, almeno una volta soltanto.


Sapeva d'assenza, sì, era quello il sapore, veniva fuori indistinto da quelle parole, liberandosi dalle catene dei versi e arrivando dentro in profondità nelle mie narici, disabituate a un tale odore, che saliva come nuovo dai fogli del passato. Si riproponeva così una sensazione, ancora confusa ed incerta, ma intensa quanto bastava per farmi tremare leggermente. I battiti del cuore erano rapidi e violenti, ma fu solo un attimo d'ansia, un andare e venire di vita al di là del mio petto, dove i miei occhi non possono vedere. Occhi, occhi che guardavano brillanti quei fogli ingialliti, occhi che erano un mare bianco in cui galleggiavano due grandi isole, imponenti e luccicanti in quella bassa marea del mio sguardo. Furono gli occhi a tradirmi, con quella timida lacrima che riusciva a fuggire dal mio personale orizzonte degli eventi, ed era una lacrima estiva, di quelle che le piangi soffrendo ma ti rinfrescano la pelle, e nel dolore provi un tenue fresco sollievo, che se il dolore è troppo grande non te ne accorgi nemmeno. Poi ci sono altre lacrime, ed anche quelle le ho piante ma in altre occasioni; ma più importante è la lacrima d'inverno, che ti si gela sulla guancia e scivola fredda fino alle labbra e nel suo cammino inesorabile ti gela il sangue, e una volta alle labbra non ne senti nemmeno il sapore salato, senti solo freddo che ti entra dentro e piangere è come morire, a meno che non sia un pianto di gioia, allora la lacrima che ghiaccia, è soltanto un fiocco di neve dolce e leggero, che ti accarezza la pelle. E piangevo ora, quell'unica lacrima galeotta, che punendo il mio orgoglio fuggì via, dove non potevo raggiungerla, ormai pianta, perduta per sempre, si staccò dalla mia guancia, e tentò il suo salto nel vuoto, magari sperando chissà che cosa, e cadde esplodendo su un foglio del mio taccuino, tomba ideale, di una lacrima nata da quelle parole antiche e le mie sensazioni.
Mi portai una mano incerta e stupita al viso, con il dorso mi asciugai quella sottile riga di dolore, poi sorrisi, ed il mio sorriso si apri leggermente alla comprensione della mia nostalgia. C'era qualcosa in quel cercare estenuante, quello sfogliare continuo che spingeva le mie dita senza riuscire a fermarle,ma non credo fosse solo nostalgia, e neanche curiosità, non solo. C'era un silenzio nascosto in quei libri sepolti, che non era un vero e proprio silenzio, perché diceva qualcosa. Ci sono silenzi che parlano, silenzi che ti chiedono e a volte gridano addirittura, facendo un rumore assordante che nessun cuscino premuto sulle orecchie, nessuna mano, niente può far tacere se non il rumore stesso. E questo silenzio, stava lì nascosto da qualche parte, lo sentivo, aspettava, ed era un'attesa quieta, che durava da anni e ancora sarebbe durata, finché dal buio qualcuno non avesse acceso una luce, una lampada ad olio magari, e con dita curiose ed occhi brillanti l'avesse preso tra le mani e con le mani, non con le orecchie, comprenderlo, con le parole, non con i suoni, ascoltarlo e capirlo. Fu semplice come stare a guardare, il silenzio poi venne da sé, tra un foglio ed un altro, tra un libro e un quaderno, saltò fuori e chiese il suo spazio e sentirlo parlare, fu come sentire il mio cuore che dal passato riemergeva come un antico fantasma.
Non andare, mi diceva, resta per vedere. Per vedere cosa, gli chiesi. Per vedere cos' eri prima di scegliere di non essere. Rimasi spiazzato, forse ferito. Era un fantasma dispettoso e crudele, perché lanciata la pietra si era ritirato nel buio, lasciandomi solo, tra i miei libri e le mie speranze, come ero sempre stato. Per questo li ho abbandonati, forse. Perché non c'era nessuno con cui dividere quei momenti in cui comprendi qualcosa, in cui ti prende per mano la conoscenza e ti porta su in alto, da cui puoi vedere l'infinito che il mondo circonda, e pensi a dio, col tuo pensiero capace, e lo vedi lì chinato sul mondo, che si arrovella disegnando progetti con le nuvole, e vorresti dirgli di far attenzione, che ogni tanto qualcosa va storto, ma hai paura dei fulmini e ti ripari al suo sguardo; ma c'è la cultura salvifica e santa, sì, quella che ti rende più grande l'anima, la espande verso l'infinito che ora impari a vedere. Imparare a vedere, è questo che desiderava il giovane Malte di Rilke, e ci riusciva pian piano, mentre dentro cambiava, inesorabile come il Sole che sorge, la notte che viene, e il tempo che passa trascinandoli entrambi.
È il mutamento in sé che rende soli, perché se si cambia, scrive Rilke, nessuno può riconoscerci, e finisce che non abbiamo più amici né conoscenti. Ed in quella soffitta colorata di buio, io stavo cambiando. Leggere un libro può essere così importante...perché un libro ti regala esperienze, e sono le esperienze che rendono un uomo poeta o scrittore, sono le esperienze i mattoni con cui costruisci la tua persona, e le parole sono il cemento che insieme alle emozioni legano tutto.
Per questo non riuscivo a fermarmi, come un fiore che stava appassendo, prendevo tutta l'acqua che mi serviva e anche di più per ubriacarmi poi dei sogni che si hanno da ragazzi, quando il mondo è solo un pallone da prendere a calci e la vita è una partita con le altre persone; persone che ti amano o ti odiano oppure non gliene importa niente, ma stanno lì a giocare con te o contro di te, senza poi tanta voglia di sapere chi ne uscirà vincitore, ma solo con la voglia sfrenata di prendere a calci il mondo, ancora un po', prima che arrivi il momento in cui i calci ce li da lui, e visto che non siamo tondi, ce li dà tutti nel culo!
Ed erano i sogni di un ragazzo che lì mi abbagliavano, con una forte luce bianca cercavano e trovavano me, disarmato nella mia falsa fotofobia. A tasto nella luce, coprendomi gli occhi e tendendo la mano, cercavo di afferrarne qualcuno, ma poi pensai "che stupido, per una vita ho tentato di afferrarli senza risultato, e ora eccomi qui che come un bambino tento di acchiappare al volo i regali che un dispettoso fratello non mi lascia prendere!', e questo fratello è il destino, il fratello gemello che quando nasciamo ci accompagna come una escrescenza dell'anima, che piano si forma, più lento di noi, perché aspetta le nostre mosse, e dalle nostre esperienze impara quello che siamo e quello che può fare, per scegliere poi, dall'alto del suo immenso potere, la fine ideale che ci attende. Ma come Dio che progetta, nemmeno lui spesso si volta a guardare, e non si accorge, ottusamente sbadato, che forse ha fatto un errore. Già perché non è questo che volevo dalla vita, sì, almeno nell'intimità della mia anima non avevo paura di gridarlo. Non era questo che volevo. E non era ancora finita, era questo il bello, potevo ancora cambiare, prendere tutto e lanciarlo lontano, guardarlo cadere e ridere piangendo nella mia libera follia; per poi dal rogo del mio presente vedere poi dalle ceneri risorgere, come una fenice, l'uomo che ero, che mi avrebbe guardato in silenzio ed al quale mi sarei inginocchiato dinnanzi chiedendogli perdono. Volevo essere capace di farlo, in nome di tutto ciò che era stato scritto d'importante, in nome di tutto ciò che era stato importante per me e nessuno aveva mai capito davvero. Avrei toccato il cielo con un dito se in quell'oscurità fosse entrato qualcuno ad ascoltarmi, ma non le mie parole, per quelle ormai era tardi, ma il mio silenzio. Perché nel mio silenzio giacevano morte le mie parole, un cimitero di cose non dette e morte sul nascere, un silenzio di cenere, grigia, scura e di fine granulometria, che attendeva da sempre qualcuno che sapesse, ascoltando, trovare lo sguardo giusto per farle risorgere e tornare da quel buio in cui si erano ritirate le loro anime... e la mia. E qualcuno entrò a un certo punto, anzi più che entrare attese, alla soglia di quei ricordi privati che non voleva invadere, ma secondo me, voleva solo ignorare. Dal fondo della mia grotta, mentre la lucerna piano moriva, mi accorsi di non essere più solo; c'era uno sguardo che copriva ogni cosa e faceva scappare il silenzio, che per un lungo momento si zittì impaurito. Lidia mi aveva finalmente trovato.

3


A volte mi sento un Sole che sorge e non sa dove andare e tutto il giorno non fa che passare nel cielo indeciso, mentre il mondo gli scivola sotto. E quando la sera s' appressa, un po' deluso e un po' spento si lascia cadere così, silenzioso e rosso di vergogna, nel mare scuro del crepuscolo, che lo accoglie come una madre nel suo placido abbraccio vermiglio. E penso che passa così la mia giornata, lenta e solitaria in una lunga caduta nel pensiero assillante di un uomo che non è vissuto.
Lei rideva e ridendo sembrava tremasse, non scosse d'ilarità convulsa ma brividi, brividi interni di una rabbia che nasce, gorgogliava dal ventre risalendo alle labbra, distorto in quel suono sbagliato, quel suono che si fingeva diverso da quello che era, rabbia e nient'altro. Esasperazione.
Fu come un lampo in quel buio profondo, lo vidi saettare dai suoi fin dentro ai miei occhi cosicché per un lungo momento non vidi più nulla e con me restò solo il pensiero. C'era voglia di scappare e scacciarla, pararsi e attaccare, odiarla forse, perché quel suo ridere falso sporcava il silenzio, il mio silenzio e quello della soffitta, insieme una placenta d'inchiostro in cui mi nutrivo ancora non nato. Ma c'era anche disperazione, un'affondare incessante in un pozzo dove lei non mi avrebbe raggiunto e neanche teso la mano; ed era soprattutto questo a far male, questo continuo non tendersi e sporgersi e quasi cadere nel tentativo di salvare qualcuno a cui tieni. Perché se ci tieni davvero ad una persona, ti pieghi con lei se lei si è piegata e non riesce ad alzarsi, e gli dai una mano sollevandogli il capo perché possa vedere che nel dolore non è sola. Perché se tieni davvero a qualcuno, prendi i suoi sogni e li guardi fiorire, versandogli l'acqua quando lui non sa farlo, tenere in vita la vita stessa, ciò che ci rende importanti per l'altro e per noi stessi. Se tieni davvero a qualcuno, sai capire il suo cuore e apprezzarne i battiti, e se vanno più piano dei tuoi tenti di frenarti per stare al passo e formare un sincrono battito per un unico cuore, per essere insieme qualcosa di nuovo che si rinnova.
Nella solitudine indifferente del mio essere me stesso non trovavo conforto, sapendo che lei non sarebbe cambiata. Così, rassegnato, chinai ed alzai il capo e in quel gesto lungo pochi secondi qualcosa era cambiato. Nei miei occhi cerchiati da nuove rughe, brillava una luce che oscurava ogni cosa, ogni tipo di felicità seguente mettendola in ombra. Come in ombra era lei mentre piano avanzava, gli angoli della bocca piegati in un sorriso, che svaniva rendendo vero il suo volto e più buio il silenzio. Attesi che mi fosse davanti, che mi vedesse bene, seduto su quella scatola impolverata piena di vecchie cose, piegato sui ricordi e incurante di che ora fosse, di che giorno, mese, anno, né di chi fossi io stesso. Perché cambiavo riportando al presente, da lontano, quello che avevo perduto. Cercavo il coraggio e con coraggio la fissai e a lungo lei attese, a braccia conserte come un muro tra noi. Poi le dissi: «Voglio tornare a scrivere».
Quello che seguì quei momenti aveva l'odore di qualcosa di vecchio, più vecchio di quella soffitta e delle cose che conteneva, era l'odore di qualcosa che c'era da anni, forse da sempre, ma mai era stato tirato fuori e adesso scivolava via dalle nostre labbra con una semplicità così disarmante che provai rabbia per tutti quegli anni che le avevo taciute. È che nella vita si fanno troppi compromessi, e quando tenti di venirne a capo sono i compromessi a farsi te. Si, la vita ti trascina inesorabile dove tu l'hai diretta, poiché a lei non importa se hai sbagliato strada o sei stato costretto a seguirla, lei va avanti come fosse un fiume a senso inverso: dalla vastità di scelte del mare, si incanala prima in un golfo poi in un ansa e alla fine dalla foce risale su come un torrente. Ma siamo in grado di dire basta, è una semplice parola, un gesto così intuitivo che non vale la pena di dirlo. Si può riprendere la vita nelle proprie mani, ma si deve poter accettare di perdere tutto. A volte essere liberi non significa necessariamente essere felici. Si, rischiavo di perderla la mia felicità, perché tutti quegli anni che avevo vissuto con Lidia non erano stati anni infelici, semplicemente li aveva vissuti qualcun altro, quell'altro che in quel momento in me si chiedeva perché non la smettessi con quelle stupide fantasie, perché non cominciassi a ragionare e le chiedessi "scusa", quell'altro che era soltanto un prodotto di tanti anni di rinunce. Adesso veniva fuori un altro uomo, non lo riconoscevo quasi, nonostante mi somigliasse, perché erano vent'anni che non lo vedevo. Era vissuto in catene dentro di me e adesso aveva trovato il coraggio di imporsi sul mio raziocinio, e dirla quella semplice parola: «Basta».
Non sapevo dove mi avrebbe condotto ma sentivo che non mi importava, perché è così bello andare senza meta, pensando che dovunque andrai sarà un posto bellissimo. Sarebbe stato solo l'ennesimo viaggio.
Ma un viaggio tutto nuovo. Ho visto i miei occhi chiudersi, poi da dentro li ho visti riaprirsi, al contrario, rivolti all'interno fin dentro le viscere, cercando, frugando, tra le carni ed il sangue, un solo chiaro segnale di quello che sono.
Ho visto le sue palpebre chiudersi mentre le dicevo addio, e da quell'orizzonte finito, ho visto un'impavida lacrima lanciarsi lungo il pendio delle gote e poi giù nel vuoto. Sembrava non avesse mai pianto, tanto fu perfetta quella lacrima, un cammino preciso, senza ostacoli, scintillava, scorreva giù lieve, e mi spezzava il cuore vederla cadere.
Stavo per chiudere ancora una volta il cassetto con dentro i miei sogni ma poi ho pensato alla vita che se ne va via indifferente e ho capito che non le sarebbe mai importato che d'un tratto in un punto preciso, io mi fossi fermato. È così che mi sono voltato verso la porta e ho cominciato il viaggio, sussurrando a quel silenzio e forse anche a lei che impietrita svaniva alle mie spalle, una sola semplice e grande parola: «Proviamo».

Claudio Fazzino


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