Autori contemporanei
affermati, emergenti ed esordienti

Cinzia Sbrana
Con questo racconto ha vinto il secondo premio del concorso Città di Melegnano 2002, sezione narrativa

Accade per caso, forse per uno strano caso, ma una notte ti svegli e non c'è più nulla che voglia stare al suo posto. Tutto intorno a te ha mantenuto la sua posizione, precisa, statica, immobile, tutto intriso di fissità e spalmato di silenzio, tutto, o meglio, quasi tutto. Uno sguardo oltre. Di lato alla tua vita, dentro di te, non c'è più nulla che voglia stare al suo posto, pensieri, immagini e i sogni, neppure quelli sembrano più aver voglia di stare in quel posto in cui tu li avevi messi pensando che fosse il loro. E giocano a perdere la loro posizione. Accadde per caso, forse un caso davvero strano, ma una notte mi svegliai e non c'era più niente che volesse stare al suo posto. Così restai sveglia a veder passare i miei pensieri, le mie immagini ed anche i miei sogni. Loro, i miei sogni finiscono sempre per confondermi, mi nascondono e poi mi perdono, come fumo negli occhi. Accadde, forse solo questo, accadde. Accadde che un giorno lo incontrai, lo incontravo spesso a dire il vero, ma forse, quel giorno, i miei pensieri si stavano posando chissà dove, lontano da me lasciando un po' di spazio in più a me stessa, come durante un'eclissi. Non ricordo come me lo ritrovai seduto davanti, nel sole pallido d'inverno. I capelli sugli occhi e il naso puntato sempre verso qualcosa, come se fosse un mirino, la sua bussola, come se cercando un qualcosa che di continuo gli sfuggiva, decidesse in ogni istante di cercarlo là, alla fine del suo naso, nella direzione che lui gli suggeriva, come una specie di rabdomante. Parlava, forse con me. Forse, perché i suoi occhi anche se diretti verso il mio viso, non guardavano propriamente me, era come se stessero guardando dentro se stessi. Lui non stava guardando me, ma l'immagine di me che aveva dietro ai suoi occhi. Così il suo sguardo sembrava rimanere sospeso, sembrava non posarsi mai, sembrava finire con il finire dei suoi occhi. Parlava, ma di ciò che stava dicendo adesso ho solo un ricordo confuso e intermittente, parlava di poesia. "Scrivere è uno stare soli oltre che un essere da soli... scrivere è l'unico modo che ho per fissarmi negli occhi, per dare colore e suono al mio sguardo nudo, dare colore e suono con le parole... ah, poter chiudere gli occhi e sognare, ci sono pensieri che crediamo impossibili, senza considerare che l'impossibilità è incredibile solo perché non è creduta, e che la realtà è credibile solo perché tutti ci credono, basterebbe sforzarsi un po' di più per credere alle cose impossibili, per renderle reali, perlomeno nel pensiero...". Parlava, ma io non ascoltavo le sue parole, le vedevo, il mio sguardo fisso sulle lame bianche dei suoi denti, le guardavo tagliare l'aria, affacciarsi e sparire dietro la voce, precise e matematiche, come un metronomo. La sua voce mi arrivava come un suono, impastata come il rumore di qualcosa che non riconoscevo. Nella memoria di infiniti rumori e suoni cercavo l'immagine che mi avrebbe permesso di dare un nome anche a quel suono, e forse al buio l'avrei trovata, ma alla luce di quel sole, con quel metronomo davanti agli occhi, i miei pensieri faticavano ad aggrapparsi a qualsiasi immagine. Non so di preciso per quanto tempo restai immobile nella assoluta consapevolezza di non riuscire a dare un'immagine ed un nome a quel suono, e non so quanto questo mi facesse rabbia, infine stanche, la mia mente ed io, smettemmo di cercare. Strano, forse il termine giusto non lo troverò mai, neppure nella pesante saggezza del mio vocabolario etimologico, esterno, estremo, violento, estraneo, no, non estraneo, forse solo strano. Fece un gesto, uno qualsiasi, uno di quelli che si fanno per caso, così senza pensarci, per questo necessari e veri. Portò la sua mano attraverso il viso fin sui capelli, impedendomi per un attimo di scorgere il tagliare lento delle lame bianche del suo metronomo, poi le sue dita si appesero ai capelli tirandoli fin dietro alle orecchie, un secondo in tutto. Un gesto stupido e banale, un secondo e i miei occhi non si staccarono più dalle sue mani, dal loro movimento estremo, violento, esterno... forse solo strano. Ormai avevo perso troppe parole di ciò che diceva, impossibile trovare il filo, per cui lasciai il metronomo dove era, smisi di correre dietro al significato singolo delle sue parole, scelsi di ascoltarne solo il suono e di guardare lo strano fenomeno del muoversi delle sue mani. Propriamente è sbagliato dire che lui muoveva le mani, di fatto non le muoveva, le spostava. Di continuo, da una posizione ad un'altra, da un luogo ad un altro, come se avesse saputo da sempre dove dovevano andare e quale posizione raggiungere per ripartire nuovamente per. E le spostava con necessità, come se solo così avessero potuto muoversi, non c'erano movimenti inutili, le sue mani si spostavano, si fermavano, ripartivano guidate solo dalla necessità di farlo. Aveva qualcosa di ipnotico, di magico forse, nello spostare le mani, nel toccare tutto con una certa indeterminatezza, ora leggerissima, a volte violenta, come se non riuscisse a trattenerle, vibravano lente e velocissime, facendosi spazio in mezzo all'aria. Mi tirai un po' indietro appoggiandomi allo schienale della sedia, sprofondando un po' in essa e un po' in me. Questo mi permise di vederlo, forse per la prima volta per intero. Mi accorsi del modo insolito di stare su una sedia, la sua postura decisamente bizzarra, gli impediva di stare seduto in maniera vera e propria, più che seduto si sarebbe detto che era appena appena appoggiato, solo in due punti il suo corpo toccava la sedia rispettivamente agli estremi della seduta e dello schienale. Lo avresti detto in bilico se non fosse stato così leggero in quella posizione, con la schiena curvata in maniera strana, come se stesse tirando indietro il cuore, e tutto il resto disteso come i fili della biancheria ad asciugare, e proprio come se fosse in balia del vento sembrava vibrare di un'energia mal controllata, tutto proiettato in avanti, solo il cuore restava indietro come a fargli da contrappeso. Le gambe invece sembravano non appartenergli affatto, erano fisse, immobili, non vibravano come tutto il resto, come se sulle sue gambe avesse avuto un gattino da non svegliare. La prima cosa che noti, in un uomo così è che le mani ce l'ha dappertutto, o meglio, ovunque, e per ogni ovunque delle sue mani lui sapeva il tempo, il ritmo, la posizione da eseguire, come una sinfonia. Parlava ed io avevo ormai smesso di ascoltarlo da un sacco di tempo, ma avrei voluto che parlasse in eterno, per poter continuare a guardarlo, assolutamente legata all'immagine di lui di fronte a me. Poi successe qualcosa, qualcosa a cui io non avevo pensato, in un istante il suono si era interrotto, non so per quanto tempo siamo stati con quel silenzio lì in mezzo fra me e lui. Si fermò il metronomo, tutto in lui si fermò, ed io non avevo mai ascoltato un silenzio così, non esiste un silenzio più forte di quando viene creato, e lui lo creò, fermando il metronomo, fermando le mani e la vibrazione del suo corpo, allo stesso modo di come creava una sorta di musica nel vivere, così creò un silenzio semplicemente fermandosi.
Improvvisamente mi ritrovai il suo silenzio di fronte, di fianco, addosso e dentro, soprattutto dentro. Era come rimanere sospesi con i piedi oltre l'orlo di un precipizio, si può cadere o rimanere così in eterno, senza mai scendere. Lo vidi chiudere, riaprire, chiudere le palpebre, con una lentezza impropria, aveva lasciato la sua bocca lì, quasi chiusa, e attraverso quel quasi intravedevo le lame bianche del suo metronomo, ferme, nell'assurda fissità di un orologio a pendolo lasciato scarico. Tutto sospeso, lui, me, e tutto quanto può starci lì in mezzo, anche un sogno, anche due occhi.
Lo incontrai per caso, forse davvero solo per caso, nel buio di occhi chiusi, nel rumore di occhi chiusi forte, nel silenzio, di notte, come quando di notte chiudi forte gli occhi, per lasciare fuori il resto, per abbandonarlo, per non ricordare quello che c'è, che vive al di là delle palpebre, intorno alle ciglia.
Accadde per caso, accade sempre e solo per caso, che il silenzio diventa indispensabile per riuscire ad ascoltare. In un momento ho chiuso gli occhi forte, ne ho sentito il suono, allo stesso modo in cui un pittore sordo dipinge il rumore delle stelle, allo stesso modo in cui uno scrittore cieco vede i suoni del tramonto e dell'alba, allo stesso modo in cui ho sentito il battito del mio cuore, lo sbattere delle palpebre ed il rumore dei miei occhi chiusi forte.
Qualcosa era necessariamente cambiato, ma cosa? Il silenzio sì, quello prima non c'era, ma non era quello, forse la luce. Il sole non c'era più da chissà quanto tempo, al suo posto nuvole nere, nuvole strane, non erano le nuvole che vedi d'inverno, me ne accorsi dallo spegnersi della sua immagine davanti a me, dal rabbuiarsi dei riflessi, immobili i suoi occhi parevano accendersi della luce sparita, come del ricordo del sole. Immobili i suoi occhi e me, mi sentivo cadere, anzi precipitare, un acquazzone iniziò gocciolando piano e pesante su di lui e forse, anche su di me. Era inverno e nessuno ci fece caso, ma quella non era pioggia invernale, per quanto sia difficile capire come, quello era un temporale estivo. Ricominciò a parlare, con lo sguardo fisso sulle immagini dietro agli occhi, con la precisione del suo scandire di metronomo e il vibrare di tutto il suo corpo, con l'immobilità delle sue gambe. Ed io avrei voluto vedere la pioggia dietro ai suoi occhi, sentire il suono che per lui suonava il temporale, e intanto l'acqua mi precipitava dentro. I miei pensieri erano fradici. Pensavo agli aquiloni, a quelle cose che volano legate ad un filo, unite da quel filo alla terra, quelle cose apparentemente senza significato, gli aquiloni sono sogni prigionieri della realtà, legati ad un filo che li unisce al cielo, reale ed irreale intrappolati l'uno nell'altro. Sono un paradosso gli aquiloni, il più grande paradosso, incatenati sia al cielo che alla terra, non potendo muoversi se non a metà, riuniscono in se tutto il possibile, sia in cielo che in terra, sono in entrambi senza essere in nessuno dei due, gli aquiloni, forse, sono solo la manifestazione dell'impossibilità, potendo fare ogni cosa non possono fare nulla di più che stare a metà, stare in bilico. Pensavo agli aquiloni come protuberanze della terra verso il cielo, come estensione del cielo verso la terra, senza mai raggiungersi, cielo e terra, si sfiorano solamente negli aquiloni, nel loro volare silenzioso. Gli aquiloni sembrano intonare la loro forma all'anima di chi li guida, quasi fossero un prolungamento del corpo che permettesse di avvicinarsi un po' al cielo, quasi l'anima continuasse verso il cielo ed il corpo la trattenesse a se, alla terra. Pensavo, e desideravo essere un aquilone legato solo al cielo, senza terra, in ogni dove, legata solo dal vento. Forse fu una cosa buffa per chi la vide quel giorno, passando sotto gli ombrelli, dentro ai cappotti, facendo l'equilibrista fra una pozzanghera ed un'altra, forse. Perché forse nessuno ci fa caso a cose come queste, in fondo eravamo due persone sole, l'uno di fronte all'altra, con la pioggia in testa e dietro gli occhi la musica e gli aquiloni, nessuno fa caso alla musica quando c'è il temporale, e nessuno fa caso agli aquiloni, nessuno si preoccupa se la pioggia d'estate cade anche in inverno. Immobile come gli alberi d'inverno, incantata come un vecchio quarantacinque giri, la mia anima scivolò nell'umidità di pioggia, scivolò e si infranse, perdendosi in una pozzanghera. La mia anima, la persi forse in quell'istante. E me ne stavo immobile senza cercarla, a veder uscire musica da quell'uomo, sarà stato il controluce del sole che si era ritagliato un posticino tutto suo fra il dissolversi delle nuvole, saranno stati gli occhi pieni di pioggia, o i pensieri fradici, ma la vidi. Vidi la musica che gli usciva dappertutto, gli usciva da dentro, con lo sforzo minimo con cui una farfalla sbatte le sue ali, lui suonava chissà quale musica, e per un attimo mi sembrò di sentirla, dentro la testa, una nota, la sola che io abbia mai sentito davvero.
Accadde per caso, accade sempre per caso, che in un momento qualsiasi io mi sono ritrovata tutti i miei sogni davanti, e credevo di averli dimenticati, e invece mi accorgo che forse erano loro che avevano dimenticato me. A volte basta una sola nota a incrinare il silenzio, una nota basta appena ad essere per sempre, una nota sola è già abbastanza ad essere per sempre, un silenzio incrinato, a volte basta una nota ad incrinare il silenzio, un lampo ed il buio è diviso in due.
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 Ins. 10-01-2003