Autori contemporanei
affermati, emergenti ed esordienti

Carlo Caruso
Con questo racconto ha vinto il decimo premio ex-aequo al concorso
Marguerite Yourcenar 2006, sezione narrativa

«Il Giardino delle Certezze»



Roma: bianchi marmi illuminati da un pensoso meriggio, immense aiuole abbeverate di sole, tra sfrontati getti d'acqua. La voce pacata di mio padre e le allegre risposte del giardiniere, le sconfinate piazze dell'Eur, che aprono le braccia all'entusiasmo dei Cieli.
Limpida infanzia, scintillante di chiare certezze, dove tutto è unito in un solo abbraccio.
Adolescenza.
I miei passi interrogativi misurano la strada, dividono gli spazi, mi separano da me stesso.
Sono ormai anni che mi tormento di domande, perché voglio far tacere l'incessante ronzio delle risposte che mi hanno infilato prima nel cestino dell'asilo, poi nella cartella della scuola, risposte che mi hanno piegato il cuore a lacrime inespresse, sospese nelle nubi oscure che avvelenano di dolore il mio cielo.
Per tanto tempo ho creduto alle loro certezze su ciò che è giusto e ciò che non lo è. Allora ho sospettato che, forse, meritavo i loro schiaffi e le loro parole dure, ho temuto che la mia difficoltà a seguire LA VIA DEI MOLTI fosse UNA COLPA.
Dopo, ho scoperto che LORO offrivano solo le prime risposte: poi, le mie domande li facevano arretrare sino a quella loro incrollabile barriera che chiamavano FEDE!
La Fede non si discute perché è la "sostanza di cose sperate".
Ma chi si arroga il diritto di cristallizzare una SUA speranza e, prima ancora che nasciamo, deporla sul nostro cuore come un macigno?
Il mostro teoretico, esaurite le sue risposte, tace minaccioso e ti guarda con l'occhio glauco dell'Abisso, putride acque di silenzio dove ogni libera vita è colpa.
Mentre i più trovano certezze nella fede verso il partito, la Religione, le parole del santo, il miracolo, mentre anche gli scettici credono all'idolo del loro scetticismo, perché, proprio tu, interroghi sempre i tuoi passi e le pietre della strada? Chi cerca da solo, perde anche se stesso!
La coscienza religiosa ha aperto ormai i suoi orizzonti, ti consente di scoprire liberamente la Fede: vedrai che alla fine ci arrivi PER FORZA, e allora sarai chiamato fratello! E il partito, che ti mostra la strada per una società giusta, ti indica i cattivi e i buoni. La Resistenza è stata sicuramente una lotta per liberare l'uomo, Gesù ha certamente voluto fondare QUESTA CHIESA!...
Saldamente in groppa a queste ed altre baldanzose certezze, tutti sanno cosa debbono fare: la rivoluzione proletaria, la volontà di Dio, divertirsi alle feste, farsi comprare dai genitori una bella macchina, diventare avvocato, magistrato, primario di ospedale.
Ognuno percorre strade già spianate, battute, segnalate e benedette dal gregge; il cercatore, invece, si perde nella solitudine.
Domandarsi sempre il perché delle scelte di vita dissolve tutte le certezze, chiedersi dove si va, cancella la strada, guardare negli occhi qualcuno per cercare il suo vero, irripetibile volto, libero dalla coscienza del gregge, significa spaventarlo e farlo fuggire.
Quando spezzi decisamente le catene di quella Fede imperiosa e implacabile, commetti il sacrilegio che ti allontana da tutti. Allora vacilla ogni fiducia: le tue mani si rattrappiscono nello sforzo spasmodico d'afferrare un senso che sfugge. Ogni tuo tentativo di condividere con altri i dubbi e la ricerca, scivola nel binario morto dei lunghi e vani discorsi che snervano, eludono, allontanano. La sera ti accorgi che si sono allontanati tutti; seduto sul palco buio e silenzioso, senza avere scelto una parte, ti accorgi che tu, sulla scena, NON ESISTI.
E allora t'interroghi sui tuoi fallimenti, sulle persone che hai fatto fuggire via e capisci che la causa della tua sofferenza SEI TU, perché NON TI SEI LEGATO A UNA FEDE.
D'improvviso, il soffio fresco di una poesia canta sulla strada della tua solitudine. In quel Nulla metallico risuona l'eco di una Bellezza amata.
Finalmente, giunge la stanchezza e il ristoro del sonno: le mani che hanno lottato si abbandonano e tutto rifiorisce nel sentiero di un sogno. Profumi d'erba nella fresca tregua della serata estiva.
Sul limitare del bosco, dove il ruscello di Luce si piegava in una morbida ansa, Rabindranath Tagore, il benevolo Signore bengalese che mi aveva illuminato con la gioia dei suoi Canti, dipingeva in forma di note l'aureo cammino dell'Ultimo Sole.
Intorno a lui, l'aria chiara s'accendeva di farfalline luminescenti che scivolavano sulle corde del suo sitar, danzavano nel circolo musicale del Raga (1), tornavano a disciogliersi nell'Abbraccio Dorato della sera.
Mi sedetti accanto a lui senza dire una parola, mentre la sua presenza amorevole già placava la sete delle mie domande. Il suo volto scuro era liscio come quello di un giovane. Le sue mani forti e delicate mi porgevano il frutto profumato della poesia che gioca con l'Illusione delle Forme, nel grembo del Senza Forma.
Così, riecheggiavano i Suoi versi: «Mi tuffo nell'oceano delle forme, cercando la perla perfetta del senza forma» (2)
Quando il canto terminò, il gesto con cui il Maestro posò il sitar ancora navigava sulle magiche onde di Saraswati, gentile e benefica Signora delle Arti. «Irrequieto predone del tuo deserto - mi disse -, perché non vedi il Giardino che ti porti nel cuore? Tu mi hai sempre amato e, nella tempesta di sabbia, nel naufragio della folla, hai cercato le onde musicali che scorrono nella pioggia, nelle lacrime, nel Grande Mare dei Ritorni e nel tuo stesso sangue.
Oltre la tua paura e la tua rabbia, continua inesorabile quel cammino che ti riporta nel luogo dove cessa ogni finzione, ogni illusione, ogni dubbio.
Là, dove la Visione Fanciulla si specchia nella Chiara Luce dell'istante che trascende se stesso, là dove la vita che supera la vita si affida alla danza dell'Eternità, là dove ogni parola, prima ancor di nascere, evapora nel Sole ridente della Presenza Ineffabile, siedi, amico mio, e ascolta l'eterno girotondo dei tuoi divini maestri».
Restai in un silenzio sospeso: e già il mio sguardo scivolava verso un fresco canneto al di là del ruscello, dove percepivo sbatter d'ali e tuffi d'uccelli nello stagno. L'ondulato canto del sitar, come vento che nel crepuscolo fa oscillare i fuochi delle lampade e sfiora le vesti delle fanciulle, incantate nell'armonia di un sogno, carezzò le cime delle canne, luminose nell'ultima sera. Un sottile luccichio si aprì fra la giovane e verde vegetazione, e una piccola perla di Luce si allargò nel nitore di una Visione. Il prato del piccolo aeroporto, illuminato nel mattino primaverile, era gremito di persone in attesa.
Stava arrivando il generale; mio padre, sottufficiale pilota, mi teneva accanto e dava le ultime disposizioni al personale. Dal cielo discendeva un piccolo elicottero con due persone a bordo, le vedovo distintamente: erano in abito borghese, uno guidava il velivolo, l'altro gli stava accanto.
Alle elementari mi dicevano che Cesare era un grande generale; pensavo che quell'uomo che attendevamo era un po' come Cesare.
«Il generale è quello vicino al pilota, vero papà?».
«No, Carletto, il generale è quello che guida l'elicottero: per il pilota, condurre il velivolo per servire gli altri è un onore!».
Il cielo s'incendiava di fiamme ridenti; le ali di un caccia si abbeveravano di Sole e il canto del motore abbracciava le serenità del mattino.
Nel turbine di folli acrobazie, riecheggiavano risa di bimbi che giocavano sulla riva dei Cieli; quelle risa giungevano dai confini di costellazioni remote e parlavano con la voce dei luoghi familiari.
Poi, una nebulosa stellare s'illuminava di chiarore dorato, e una pioggia di sorrisi fioriva intorno al volto rubicondo di uno sconosciuto.
Uscivo dal Tribunale di Udine dopo aver parlato con il Presidente; ero diventato uomo di legge: quella, per il mio animo ribelle, era stata una sfida assurda e blasfema, di cui io stesso avevo paura. Mentre camminavo con questo pensiero, fui sorpreso nell'incrociare due uomini, che, nella severa città nordica, mi apparivano stranamente allegri e un po' alticci. Uno dei due con una sfrontata simpatia, mi guardò diritto in volto e mi disse: «TU, NON HAI MAI RISO ABBASTANZA!».
Guardai indietro, verso la mia dolorosa ricerca: strade solitarie che correvano via inutilmente, come tempo che assassinava il tempo. Ma nel viale profondo del meriggio estivo, alle note del Raga(3) Bupali, gialli petali di luce ruotavano vorticosi, stracciavano il velo della paura. La mia ricerca mi aveva mostrato fratelli sconosciuti.
Nel grande palazzo dello Sport, si svolgeva il campionato nazionale di karate.
Tra ragazzi che combattevano e quelli in attesa del loro turno, c'era un ragazzo iraniano dai lineamenti sottili e delicati, le mani forti e magre. Stava accucciato accanto ad una sedia che utilizzava come ripiano per disegnare. Lo guardai incuriosito, e lui, indifferente alla folla, MI RICONOBBE.
Sul foglio aveva composto immagini di figure alate e splendenti sospese nell'aria; sotto di loro la verde terra in attesa.
«Questi sono gli angeli di Dio - mi diceva - che sorvegliano e aiutano la terra; la forza del loro amore si diffonde sempre su di noi come un dono di Luce».
«Pratico uno stile di Kung-fu che tiene la posizione bassa; - aggiunse - lo so che nel karate questo non è ortodosso, ma io seguo il mio percorso».
Venne chiamato dall'altoparlante; entrato nell'area del combattimento si pose dinanzi all'avversario in una posizione molto bassa, con delle inclinazioni del baricentro che preparavano il dinamismo di azioni inattese.
Abbattè l'opponente con un calcio alto, fulmineo; poi, i due contendenti si congratularono l'un l'altro.
Quindi, senza neppure voltarsi indietro, il ragazzo iraniano tornò alla sua sedia e riprese a disegnare. Risuonavano i versi di Eszra Pound :
«Ho nostalgia di gente del mio stampo, che ami il Bello e l'Arte...».
Nel dojo, alla fine della sesshin (4), si svolgeva una seduta di mondo (5). Formulai una domanda che aveva imbarazzato qualche praticante, persino qualche monaco, che viveva la "non violenza" come un dogma.
«Maestro, - chiesi - di fronte ad una violenza che non accetta alcun dialogo, che si getta subito nell'azione distruttiva senza dare spazio al confronto, che si compiace della distruzione senza nutrire mai alcun dubbio, occorre restare passivi, lasciare che compia la sua opera?».
E il Maestro: «Il buddismo è una religione non violenta, ma non lo è A TUTTI I COSTI.
Il Buddha ha detto che, se è necessario per salvare degli innocenti e impedire una violenza più grande, il Bodhisattva può anche uccidere e, per sua nobile compassione, assumersi il Karma di tale azione».
Fuori dal dojo, durante la colazione di commiato, il Maestro si avvicinò, mi porse la sua ciotola vuota e mi chiese se gli davo della mozzarella. Riempii la sua ciotola vuota, come un cuore aperto verso il mondo, e lui mi disse:
«Ti chiedo di venire a parlare del problema della violenza, tu che lo hai conosciuto!».
La strada che mi riporta a casa mi restituisce l'immagine del mio più tenero maestro di Guerra.
Le scalette consunte di marmo portavano a un seminterrato; all'ingresso di un piccolo giardino, coperto di un pergolato, c'era un uomo magro e alto, distinto. All'entrata della sua palestra di pugilato, un cartello di legno che recava l'immagine di un guanto di cavaliere medioevale e la scritta "Accademia Pugilistica Fiermonte". Sotto, a caratteri corsivi, una frase: "Il denaro fa l'uomo ricco, l'educazione lo fa signore".
Nell'interno, in una piccola saletta piena di attrezzi consunti, il pavimento grezzo e privo di copertura, si sentiva il profumo di un sudore sano, fresco di una giovinezza invincibile, come lo slancio della cascata impaziente di gettarsi oltre ogni confine, sotto lo sguardo sereno dell'iride che la contorna.
«Signor Caruso - mi diceva, sebbene fossi ancora un ragazzo - vuole fare un po' di figure con il sig. Perez?».
Respiravo un'aria serena, mentre scatenavo torrenti di rabbiosa potenza.
«Lei è rigido, signor Caruso, ma si scioglierà, si ricordi che LEI SI SCIOGLIERÀ!».
Sul sacco mi esplodevano sequenze di colpi, ma l'azione rifluiva in quella naturale compostezza: la stessa voce del maestro parlava di una potenza che nasce alle Sorgenti di una Bellezza, dove, nel Vortice Primigenio, fiorisce il gesto della danza, l'arpeggio del violino, la martellata dello scultore e il pugno decisivo che supera il confine dell'indecisione e apre la strada verso il mondo.
Scoprivo, attraverso il mio corpo, la potenza che si libera nell'abbandono all'Armonia: allora, la mia disperata rabbia si scioglieva in quel gioco ridente, sinchè, affrancato dai miei stessi legami, vedevo quel giardino sconfinato dove tutto poteva fiorire.
E ancora dopo tanto tempo continuavo a sentire l'eco di quella promessa: «LEI SI SCIOGLIERÀ!».
Mentre vedevo la figura del maestro Fiermonte allontanarsi per la strada impervia della sua vita, nella lieve ondulazione del sitar udii queste parole:
«Spesso un maestro insegna più di quanto non conosca lui stesso: il letto di un fiume accoglie acque sconosciute e le dona alla terra e al mare. Quelle acque che porta tra le braccia, sono sue, non sono sue?».
«E poi, un maestro è sempre un maestro? Oppure è l'istante di un compimento, un attimo di inattesa perfezione che presto rifluisce nel Grande Mare delle Separazioni e dei Ritorni?».
«Hai mai preso in braccio il tuo maestro, come un fanciullo?».
«E pensi che un fanciullo non ti possa prendere in braccio?».
Il sitar modulò una musica argentina, infantile, e mi trovai davanti a una bambina capricciosa ed irrequieta che aveva afferrato una piccola zappa dalle punte sottili e pericolose e, per gioco, l'aveva rivolta a colpirmi.
Nel cercare di prendegliela, la manina della piccola, che impugnava quell'attrezzo, rimbalzò sulla mia mano, e pericolosamente le punte si rivolsero contro il suo viso.
Era sera e, non vedendo che cos'era accaduto, mi sentii disperato; lei si fermò guardando dentro di me, negli occhi la luce chiara di un volto materno.Con tutte le sue forze, mi gridò per due volte: «Non mi hai fatto male!». Poi insistette, come a scuotermi da una paura «Hai capito? non mi hai fatto male!».
Chi è mai riuscito a percepire l'inferno di una colpa, come quei piccoli occhi consapevoli, memori, forse, d'infinite storie già vissute.
Al mio stupore fecero eco le note del Poeta, che mi mostravano lo sbocciare d'armonie inattese: nel Raga (6) del fuoco si sfioravano, in un misterioso abbraccio, le fiamme delle lampade, splendenti sull'azzurro sogno della prima notte.
Disse: «A volte il Maestro è l'Astro incandescente nello Specchio dell'Estate, altre volte è solo il fugace bagliore di un istante, un'onda che sale e presto rifluisce negli abissi e splende; in quell'istante inatteso un bimbo, persino un ubriaco possono illuminare il tuo percorso affamato di vita.
E in fondo, in un tuo distratto istante hai visto il libro dei miei canti in un angolo dell'edicola; allora la tua curiosità si è tuffata in quel piccolo stagno di Felicità.
Quando ti abbandoni alle armonie della strada, d'improvviso trovi la presenza del Maestro, amorevole e pieno di compassione!».
«Neppure tu sai quanti maestri hai incontrato, ma ogni granello di polvere, ogni passo lungo la via risuona della gioia di un ritorno, ogni mattino ti riporta alla tua Primavera!».
Nel suono del Raga Malkauns (7) ondeggiavano le scure acque della Notte che ascoltava le promesse delle stelle, cullava il riposo d'infiniti mattini nascosti sotto le palpebre della Dea Madre che, in un morbido sorriso, sognava l'Eterna Estate.
E in un vorticoso carosello di luci stellari, vedevo distintamente affacciarsi i maestri incontrati in questa vita: il Maestro Manzano, devoto guerriero senza terra, Balarama, Maestro di Sitar, fermo e chiaro osservatore dei percorsi del karma, Bolotto, il cane buongustaio, la creatura più imperturbabile che avessi mai conosciuto... poi, più numerosi di tutti i granelli del mare, riconoscevo i maestri incontrati nelle vite passate. Ancora muovevo i miei passi nella musica del Maestro Tagore, sinchè mi trovai di spalle ad un Maestro che stava insegnando Muay Thai Boran (8); alcuni allievi erano stupiti, altri perplessi; nel pubblico, qualcuno in cuor suo approvava.
«Se ritroverete pace e armonia nel momento della tempesta, allora l'Arte marziale vi avrà indicato la sua vera Via.
Così, potrete lavorare sulla TRASFORMAZIONE del Caos e della Violenza in Armonia e Bellezza!
Cosa importano le Fedi, gli insegnamenti indotti da altri? Tutto questo vi serve solo per cercare coraggiosamente da soli!».
Poi si voltò e... riconobbi me stesso!
«Ti meravigli ancora? - mi dice Tagore - Ma se ora il circolo dei maestri si chiude, come puoi non ritornare a te stesso? Non importa se hai compreso poco o molto di quel che hai ricevuto: stai comunque certo che, durante il tuo viaggio, hai sparso perle di luce che non ti appartengono, ma che sono germogliate tra le tue dita!
Adesso, come un fanciullo che guarda stupito la Primavera, ascolta umilmente quel che tu stesso hai insegnato; rinunzia all'orgoglio di ogni ottenimento e, come inafferrabile acqua, troverai spontaneamente la via dei Canti che, attraverso innumerevoli bilioni di anni, narrano agli esseri la gioia degli esseri! Quando le mani della paura si disserrano e le porgi ai doni dell'Istante, allora rifiorisce quel giardino delle certezze che non ti inganna mai, dove riposi all'ombra della tua tenera fiducia».
Il maestro sorrise e svanì in un iridescente orizzonte di Canti.
Avrei voluto abbracciarlo, ma sapevo che non c'era nessun maestro che POTESSE ESSERE ABBRACCIATO:
ovunque sparsa, tra germogli di follia, la saggezza dell'intero Universo, superate le temporanee forme dei maestri, mi avvolgeva come un vento mattutino.

Carlo Caruso







(1) Composizione della musica classica indiana, correlata ad un momento del giorno, ad un'emozione, ad una Potenza Superiore.
(2) Versi del poeta bengalese Radimbranath TAGORE tratti dalla stupenda raccolta "Gitanjali".
(3) Raga della sera, caratterizzato da suoni cristallini e sereni.
(4) Periodo di ritiro che viene dedicato alla pratica zen.
(5) Letteralmente: "domande e risposte"; l'allievo pone al Maestro delle domande, costui offre risposte non necessariamente legate ad una logica discorsiva, ma, piuttosto, su una conoscenza intuitiva.
(6) Questo Raga si suona quando è il momento di accendere le lampade; la scala di questa composizione ha note "comal!" (corrispondenti a "bemolle") e note "tibra" (=diesis). È il giocoso contrasto tra la tenebra incipiente e la luce delle lampade.
(7) Raga della notte profonda, si esegue tra la mezzanotte e le ore 2.00.
(8) Arte marziale tradizionale tailandese.

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