Autori contemporanei
affermati, emergenti ed esordienti

Arrigo Filippi
Con questo racconto ha vinto il decimo premio all'edizione 2006 del Premio La Montagna Valle Spluga.



TANTI, ANCHE PIU' DELLE STELLE


Sin da bambino, accompagnavo mio padre per i mercati della valle. Tempo avaro di un dopoguerra lasciato alle spalle, ancora fumante. Anni cinquanta che ne dimostravano almeno il doppio, fitti di rughe come le facce della gente. Facce di occhi arrugginiti da troppi sonni arretrati. E guance afflosciate come gomme bucate. E fronti arate di rughe, da sembrare campi dissodati. Tempo sbandato di un dopoguerra, con l'odore della fame a ingrassare l'aria. E un profumo di pane cotto, da masticare con le narici. Partivano in molti a cercare lavoro, i più verso Belgio e Svizzera. Via a marcire in un buco di terra, scaraventati in una notte di carbone, senza luna. Era strappo alle radici che faceva male, però si doveva. Paesi interi si spopolavano di uomini ancora giovani. A casa restavano solo case vuote, letti senz'amore, porte sprangate dietro saluti marci di malinconia. Nemmeno il tempo d'una peluria in faccia, che già si stava in coda a una frontiera intasata di passi, saluti e maledizioni. Ci voleva un gran calcio nel sedere, per varcare una frontiera: la fame era quello giusto. Si andava a crepare in un buco di terra per tappare un buco nello stomaco. Un'intera generazione perduta per strada, sputata via, sparpagliata nel mondo come semina sul campo. Per molti, solo una partenza brusca e nessuna redenzione di ritorno. Mio padre no, s'era fermato, non aveva più l'età per un confine oltre il confine del suo campo. Fin dove gli reggeva la vista, quello era il limite della sua vita. Commerciava in granaglie, nei piccoli mercati di paese. Svegli al primo stonato chicchirichì, sotto un cielo ancora spento, senza un singhiozzo di luce, caricavamo l'asino e si partiva.
"Hai preso tutto? Mais... grano... segale...?" chiedeva mio padre.
Sbadigliando, facevo di sì con la testa.
"Hai sentito quello che ho detto?" ripeteva ancora una volta mio padre.
Aveva una voce strana, che sembrava venire dall'aldilà. Al mattino, le voci sono sempre un poco strane, non appartengono più al mondo.
"E' tutto pronto, il somaro è carico..." brontolavo, senza aggiungere altro.
Sì, c'era tutto meno la voglia di partire, quella stava sepolta sotto una voglia di dormire grande come una montagna.
"Dài, andiamo, è quasi giorno..." concludeva mio padre, appioppando una pacca sulle reni dell'asino.
E l'asino s'avviava, lento il passo e misurato, mai sprecato. Il rumore degli zoccoli sporcava il pulito del silenzio. Passi come un rosario sgranato nella polvere, sotto una cappa di solitudine e una cenere di ultime stelle quasi spente.
" 'Sto somaro c'ha un bel passo da filosofo!" sentenziava mio padre qualche volta.
Si viaggiava al buio, senza mai fermarsi. C'era una montagna intera da valicare, seguendo un sentiero tortuoso come un geroglifico. A quell'ora, senza una virgola di luce, sotto una coperta gelata, la montagna dormiva ancora. Ogni tanto, una pietra rotolava lungo la scarpata. Il rumore faceva un buco nell'anima. Per far passare il tempo, contavo i passi: tanti, anche più delle stelle. Messa a cuocere sul fornello dell'alba, la notte squagliava come burro, mentre le cose affioravano da un'apnea di silenzio e sonno. Le ricordo bene, le notti di montagna, forti e muscolose, dense come polenta di segale scodellata sul mondo. Notti fumanti di stelle, ubriache di spaventi, sode come zolle sbriciolate da un vomere di luce. Notti incallite d'ombre, pelose d'allarmi, con un cuore di silenzio da far rabbrividire. Notti partorite da un utero di boschi selvatici e un abisso d'acqua antica e segreta: il lago. E su tutto quel bitume d'ombre, un fiammeggiare di luna bianca, bianco fuoco che teneva compagnia ai viandanti.
"Fai attenzione a dove metti i piedi, segui l'asino. Con lui puoi stare tranquillo, sa sempre cosa deve fare e dove andare" ammoniva mio padre, nei tratti più impervi.
Se titubavo, m'apostrofava ironicamente così:
"Deciditi, non fare come l'asino di Buridano!".
"E che è 'sto asino di Buridano?!" mi chiedevo in silenzio.
L'asino ci guidava su scorciatoie ereditate insieme a bestie e campi, fame e calli. Lascito prezioso, da conservare con gelosa cura. Erano sentieri scavati da un piccone di passi ostinati, per generazioni e generazioni. Già, i sentieri di montagna: isteriche rughe e tortuose cicatrici sulla pelle del mondo. La terra invecchiava sotto un martellamento di passi. Era la guerra di ogni giorno. Dentro il bosco, il silenzio si mangiava ogni rumore, anche quello del nostro cuore. Se calpestata, una foglia faceva un botto da lasciare il respiro senza respiro. Su tutto, il rullare dei nostri passi, tiritera di zoccoli e suole sbattute sul terreno. Era canzone di piedi addormentati, un po' stonati, tamburello che dava un benvenuto al primo raggio di sole: il fiammifero che accendeva il giorno in un nero braciere di montagne. Come una stoccata di fioretto, il primo raggio precipitava sulla terra, assassinando una notte dura più del ferro: il giorno cominciava sempre con un delitto. Sapevamo quei sentieri a memoria, però mio padre si fidava solo dell'asino.
"A fiutar pericoli è meglio d'un segugio" sosteneva. "Quando trova un ostacolo, si ferma e ci pensa due volte a proseguire. E' bestia che si fida, vuol essere sicura. Sa bene come salvarsi la pellaccia".
Era vero, l'asino conosceva i trucchi del mestiere, il mestiere del viaggio e della vita. Conosceva segreti a noi ignoti, possedeva una saggezza istintiva. Sapeva la lentezza che serve a reggere il basto. E la pazienza che ci vuole a guadare una notte melmosa. E la tenacia che sprona i passi ancora afflosciati nel sonno. Durante i viaggi, un raglio ogni tanto era l'unico lusso che si concedeva, raffica di fiato che incendiava l'aria, frustata di voce sulla schiena del silenzio.
"Raglio d'asino non sale al cielo" asseriva un proverbio di allora. Invece no, i ragli del nostro asino salivano eccome al cielo, forti da fare buchi grandi da verderci attraverso anche Dio.
"Sentila come raglia, povera bestia!" era il commento di mio padre.
Povera bestia, diceva, e dicendolo s'apriva una crepa nella voce, da cui sgocciolava un po'di tenerezza
e compassione. Cristiana compassione, a giudicare da come fissava l'animale.
"Se lo si tratta a modo, non c'è bestia che lavori come un somaro" diceva.
Poi ci pensava su un momento e aggiungeva: "A 'sto mondo, siamo tutti quanti un po' somari. Sgobbiamo ogni santo giorno, tutta la vita, come dei dannati. Hi-aaah! Hi-aaah! Hi-aaah!" concludeva ragliando di rabbia.
Una volta, citando un passo della Bibbia, aggiunse: "Foraggio, pesi e bastonate per l'asino; pane, lavoro e disciplina per lo schiavo".
S'intendevano bene, mio padre e l'asino, fatti apposta per lavorare come matti, seminando sudore e passi sulla crosta del mondo. Si giungeva al valico che spuntava l'alba. Dal cielo, colava una luce di latte appena munto.
Si arrivava in vista di P. che la luce era già alta. Il sole leccava la brina sui campi, sgranocchiava le ultime ombre rinsecchite. Abbandonato il bosco, si scendeva l'ultimo tratto di sentiero, alle pendici della montagna, fin sulla strada che fiancheggiava il lago. Biondi riflessi pattinavano in superficie. Rochi gabbiani grattugiavano l'azzurro, lanciando un primo rauco benvenuto. L'odore di pesce fresco era il secondo. La vista della torre, detta Torrazzo, il terzo, il benvenuto ufficiale del paese. Sigillo di pietra impresso su pergamena di cielo, la torre protocollava la fine del viaggio, la tregua dei passi, il riposo dei fiati. Mi era diventata amica perché sapeva dirmi basta, sei arrivato, puoi fermarti. Lo diceva in silenzio, con affetto discreto, come un'amica vera.
Un giorno, mio padre mi raccontò un fatto cruento.
"La vedi quella torre?" mi disse, puntandoci contro il dito.
Guardai il dito. Poi la torre, in bilico sulla punta del dito: pensai che mio padre aveva buona mira e sapeva colpire una torre anche a distanza.
"Ci abitava un brigantaccio senza cuore" proseguì "uno di quelli che mozzavano teste per un soldo.
Un giorno il brigante fu decapitato e la sua testa, salata e avvolta in foglie d'alloro, fu portata a
Venezia, al Consiglio dei Dieci, per riscuotere la taglia".
"E cosa ne fecero della testa? La cucinarono?" domandai, provocatorio.
"No, la mangiarono cruda!" rispose mio padre, ironico.
Alla bocca mi venne un ridere forte da spaventare l'asino, che scalciò bruscamente. Poi la risata
raddoppiò, perché lo spavento dell'asino aveva spaventato anche mio padre.
"Povera bestia" disse "fa così da quando è rimasto sotto le bombe, per una notte intera. Gli è marcito il cuore di paura. Io e tua madre in cantina a pregare, l'asino nella stalla a ragliare. Chissà, forse stava pregando anche lui. Però in quella notte di orecchie fracassacate e cuori svenuti, neanche Dio le avrà sentite le nostre preghiere".
Devo riconoscerlo: le storie di mio padre mi mettevano disagio, però erano il sale che dava gusto ai viaggi. A lui piaceva sbalordirmi, sarto di storie cucite e ricucite a caso.
"Ma questo è successo anche nell'altra storia!" protestavo qualche volta.
"Non interrompermi, diavolo!" urlava seccato.
Forse mio padre giocava a spaventarmi e farmi adulto più in fretta. L'ho detto, si era nel tempo crudo di un dopoguerra, si cresceva a sgambetti e spintoni, indurendo i cuori con racconti da crepacuore. Si cresceva con una fetta di polenta e un calcio nel sedere, una gerla sulle spalle e una vanga nella mano. Si cresceva affogando in un mare di risate piene di spaventi. Un giorno, mi raccontò un'altra storia di soprusi e violenze. Disse che, più o meno intorno all'anno 1418, otto donne furono rinchiuse nel Torrazzo, accusate di intrattenere rapporti col demonio. Inquisite da un frate, certo Bernardino de Grossis, vennero arse vive nella piazza centrale di P.
"Tutte e otto arrostite!" concluse.
"Come le mondole!" sbottai d'impulso.
E di nuovo la risata mi scoppiò in faccia, bollente da ustionarmi. Anche mio padre si scottò dal ridere, con la pancia che gli ballava come una terra scossa. Rideva a scoppi, ragli di buonumore che incendiavano l'aria. Troppo cupe quelle storie, meglio lavarle col sapone dell'allegria.
Storie e passi vanno sempre di pari passo, camminano a braccetto sulle strade del mondo. Una strada, un sentiero, una mulattiera sono pagine bianche di un libro che si scrive coi piedi e coi respiri. E si legge con l'anima, che cammina dentro gli occhi di chi guarda il mondo che scorre sotto i nostri piedi. Viaggiare è una musica di passi composta sopra uno spartito di polvere e luce. Viaggiare è un canto di occhi intonati al sogno del mondo, quando ci appare all'improvviso dopo la curva, alla fine della salita, in fondo alla discesa. Attraversando il bosco, il silenzio mi pesava addosso e mi stringeva d'assedio, carico d'attesa. Avevo appuntamento con qualcuno o qualcosa, ma non capivo con chi o cosa. Oggi lo so: aspettavo di ascoltare le storie di mio padre. Quelle storie hanno fatto crescere i miei
passi, sono state il latte dei miei pensieri, il pane della mia anima...



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 Ins. 28-11-2007