Autori contemporanei
affermati, emergenti ed esordienti

Annalisa Macchia Cioni
Con questo racconto ha vinto il terzo premio nella settima edizione del Premio Letterario Internazionale Il Club dei Poeti 2003
La rivincita
 
Pedalavo. Pedalavo con tutta la mia forza, con il busto proteso sul manubrio e la bicicletta che oscillava qua e là ad ogni pedalata. I libri di scuola, fermati nella morsa di uno stupido portapacchi concepito sul davanti, si erano paurosamente spostati su di un lato, ma io non mi accorgevo più di niente e la bicicletta, così lanciata nella corsa, aveva trovato un equilibrio completamente nuovo. Chissà se le ruote toccavano ancora terra. Intorno un meraviglioso turbinio di colori: verde, giallo, rosso...
Avevo cominciato a correre per gioco, quando mi ero accorta che dietro di me stava arrivando un buffo tipo, uno spasimante respinto che negli ultimi tempi non mi aveva dato tregua. Più volte era stato garbatamente ma risolutamente allontanato e non per questo si era scoraggiato.
Non avevo più voglia di discorsi e decisi lì per lì di cambiare tattica. Perché non divertirsi un po'... magari giocando al gatto e al topo? Se avessi deciso di giocare fino in fondo... davanti a me si snodavano oltre quattro chilometri... tutta la lunghezza del viale che corre sulle mura... ne avrei avuto di divertimento! Iniziai con un'aria di pigra indifferenza, facendo finta di non essermi accorta di lui, seguendo un'andatura solo apparentemente costante. Lo lasciavo avvicinare quel tanto che gli dava l'illusione di raggiungermi ma, appena con la coda dell'occhio vedevo che era sul punto di arrivare, cominciavo a pedalare più forte e lo staccavo. Poi rallentavo di nuovo, con noncuranza, ricominciando a correre quando lo sentivo vicino.
Ci stavo prendendo gusto e, di tanto in tanto, spiavo divertita i suoi sforzi maldestri per tenermi dietro. «Corri, corri ciclista... sei tu che hai vinto delle gare di ciclismo, no? Sei allenato... e allora corri».
Anch'io, all'epoca, ero ben allenata visto che la bicicletta era il mio unico ed amato mezzo per spostarmi da un luogo all'altro e non ci rinunciavo quasi mai. C'è chi dice che Lucca è una città a misura d'uomo. Io direi piuttosto che è a misura di bicicletta. Se ripenso a me stessa, in quegli anni nella mia città, sono proprio tanti i ricordi che ci legano insieme ed io la consideravo quasi più un "essere" che una "cosa".
C'era poco traffico sulle mura a quell'ora del mattino. Sul mio cavallo di ferro mi sentivo la padrona incontrastata del lungo anello che chiudeva e proteggeva la bella distesa di tetti rossi, invecchiati, da cui vedevo spuntare i campanili delle chiese con i piccioni appollaiati fra colonnine e sporgenze. Quei vicoli, quegli scorci, li conoscevo tutti, ma non mi soffermavo mai a guardarli. Il loro fascino silenzioso e sottile faceva solo da sfondo alla mia vita ed io calcavo la scena con spavalda incoscienza.
Il viale che percorrevo, affiancato da maestosi ippocastani che in autunno tingono le loro foglie dei colori più belli, mi si apriva davanti, invitante, con tutta la dolcezza che le mura sono capaci di offrire in quei mesi. Per terra c'era già qualche foglia caduta, ma nemmeno l'ombra di tristezza nell'aria. Tutte quelle sfumature di giallo e di rosso che occhieggiavano dai rami e i primi orli bruciati delle foglie annunciavano una specie di festa, un'altra stagione, altri incontri.
Correvo con la piacevole sensazione del vento sul viso, con i capelli che ogni tanto mi schiaffeggiavano la fronte e, senza il minimo senso di colpa, lasciavo riaffiorare, negli orecchi, l'eco di lontane, insopprimibili raccomandazioni materne. «Non stare affacciata così... senti che vento... copriti... ti fa male tutta quell'aria».
Ormai, non c'era voce né memoria di voce che potesse trattenermi. Insieme al vento respiravo a pieni polmoni aria di libertà, quasi ubriacata dalla velocità che riuscivo a raggiungere. Non guardavo più dietro di me. Spingevo sui pedali come una forsennata, senza pensare ad altro, fino a non sentire più i muscoli delle gambe, consapevole solo in parte degli alberi che mi sfrecciavano accanto, delle improvvise aperture dei baluardi, del leggero crepitare che le foglie secche facevano sotto le ruote della bicicletta. Poi cominciai a perdere coscienza anche della strada.
Quel tunnel di verde, rosso, giallo, cominciò a farsi confuso; io vi correvo dentro, anzi vi correvo incontro, quasi fossi anch'io un colore che potesse stemperarsi, fondersi con gli altri in un insperato accordo di armonie. Non esistevo più, ingoiata per qualche istante da quella strana sensazione che mi avvolgeva tutta, inaspettatamente trasportata in una dimensione che non conoscevo, fatta di aria, di luce limpida e pura. Un distacco dal mondo, quasi un salto in un altro mondo. Non durò a lungo.
Lentamente le foglie riacquistarono colori distinti e contorni, gli alberi ricominciarono a sfilare rapidi ai miei lati e, inesorabile, tutta la realtà che mi circondava si riappropriò gradatamente di me, finché ripresi l'esatta coscienza della mia persona e di quella corsa che mi apparve d'un tratto assurda. Mi resi conto di essere trafelata, bagnata di sudore e immaginai con disgusto di avere una capigliatura che solo Proserpina mi avrebbe potuto invidiare. Ma forse non ero la sola, visto che chi mi seguiva continuava a resistere.
Allora rallentai vistosamente e lasciai infine che l'altro mi raggiungesse. Mi fermai facendo scivolare un piede per terra e mi voltai aspettando che anche lui si arrestasse. La visione di quell'essere stravolto e sudato contribuì a fugare definitivamente gli ultimi residui di stupore che quella fantastica fuga mi aveva lasciato. Mi sentivo di nuovo me stessa, indignata, perseguitata, pervasa da un sottile desiderio di vendetta. Per la strada avevo controllato, con perversa soddisfazione, quanto arrancasse per tenermi dietro, immaginandomi la sua espressione, ma la realtà superava di gran lunga ogni fantasia.
Lui se ne stava lì, sbigottito, ingobbito sulla sua bicicletta sportiva, senza nemmeno il fiato per parlare. Patetico.
«Accidenti, come corri... non sapevo... non avrei mai sospettato... eppure, sai, io non sono un dilettante... complimenti...».
Accennava qualche frase interrotta dal fiatone che quella corsa inaspettata gli aveva procurato, ma non riusciva a finire un discorso.
"Penoso", pensai io, guardandolo.
L'aspetto gracile e minuto, lo sguardo miope dietro gli occhialini tondi alla John Lennon non facevano certo pensare al fisico di uno sportivo. Forse sotto i pantaloni i muscoli dei polpacci erano un po' più sviluppati... forse. Ma che cosa voleva? Non era stato abbastanza chiaro il mio comportamento? Perché insistere quando un no è definitivo ed inequivocabile? Qualche tempo prima, in una conversazione strappatami chissà come, mi aveva confessato: «Io lo so perché tu sei perplessa. Ho quattordici anni più di te e tu penserai che sono troppo vecchio...»
Non ebbi cuore di dirgli che il problema non erano i quattordici anni che ci separavano. Non ci avevo proprio pensato. Dimostrava più o meno quanto i miei coetanei e, purtroppo, non aveva nemmeno quel poco di fascino che, a quell'età, generalmente si attribuisce ai "più grandi", in quanto tali, indipendentemente dalle loro reali attrattive.
"Penoso ed irriducibile", continuai a pensare osservandolo, ma più che irritata mi sentivo vagamente rassegnata. Aspettai in silenzio che cercasse di spiegarsi mentre, a bocca chiusa, mascheravo orgogliosamente l'affanno per non far vedere che anche a me mancava il fiato.
Con un sorrisetto incerto, ripiegato su se stesso più di quanto non fosse necessario, si frugò nella tasca e prese un pacchetto, una busta bianca, piegata e sgualcita. Me la porse, con aria quasi di scusa.
«Tieni...», mi disse,«... sono poesie... per te, ma non so se le capirai... sono ermetiche... sai cosa vuol dire emetico?»
«Certo che lo so», risposi precipitosa passando velocemente in rassegna tutte le mie conoscenze letterarie mentre prendevo la busta.
Mi aveva colta di sorpresa. In fondo mi sentivo lusingata per essere stata l'oggetto di tanta attenzione ed ero curiosa da morire. Lo guardai mentre si allontanava con tutta la dignità e la noncuranza che era stato capace di raccogliere. Io ero rimasta lì, con la busta nella mano, senza sapere bene cosa fare. Ero tentata di aprirla subito e, allo stesso tempo, trattenuta, forse per prolungare, inconsapevolmente, la piacevole ansia dell'attesa. Decisi di aspettare, di rinviare l'apertura alla fine della scuola, in un momento di calma. Così la nascosi fra i libri, ma per tutta la mattinata non riuscii a pensare ad altro.
In un paio di occasioni fui sul punto di confidarmi con le amiche perché morivo dalla voglia di ridere di lui insieme con qualcuno, ma forse anche per ostentare, con una punta di orgoglio, la prova dei sentimenti che avevo suscitato. Non lo feci.
Quando fui a casa, accoccolata nella poltrona del salotto, con le porte chiuse e la puntina del giradischi che grattava sul mio disco preferito, finalmente aprii la busta. Avevo controllato, per scrupolo, sul dizionario, il significato della parola "ermetico" e mi accingevo a decifrare chissà quali strani codici. Mi trovai di fronte a delicate poesie d'amore di cui non ricordo più un verso e tutte così comprensibili che, per un attimo, mi chiesi se non nascondessero altri significati. Una, due, tre... tante. Le lessi, le rilessi, meravigliata dal fatto di essere io la fonte di quell'ispirazione. Non ricordo di aver provato altro sentimento se non una lusingata sorpresa. Bruciavo dalla tentazione di mostrarle a qualcuno, ma pensai alla inevitabile situazione ridicola in cui lo avrei cacciato e ancora una volta non ne feci di niente. Credo che sia stato il solo riguardo che ho avuto nei suoi confronti. Riposi le lettere lontano da occhi indiscreti e non ci pensai più.
Per lungo tempo non ci ho pensato più. Ho piegato la vita alle mie scelte e, completamente assorbita, non ho più avuto tempo per i ricordi, non ho conservato rimpianti.
Avevo salutato la mia città carica di entusiasmo per un futuro che non conoscevo e con la certezza che non l'avrei mai dimenticata, anche se mi fossi allontanata per sempre.
Il tempo mi ha dato torto. Anni di lontananza e di forzata trascuratezza hanno lasciato il segno. Un po' alla volta i ricordi si sono sfocati, perduti nel mare sempre più grande che mi porto dentro ed anche se non sono morti sono irrimediabilmente sommersi.
Inaspettatamente l'altro giorno mi è accaduto qualcosa di simile a quello che successe a Proust davanti alla sua tazza di "thè". Mi è bastato rivedere la colorata corona autunnale che corre lungo le mura della mia vecchia città e sono stata improvvisamente investita dal ricordo di quella vertiginosa, pazza corsa in bicicletta.
Non so perché. Forse perché guardavo la mia Lucca con occhi diversi, sorpresa di sentire davanti a lei una sorta di emozione, una specie di tuffo al cuore soffocato che non avvertivo più da tanto tempo e che assomigliava incredibilmente a quello che provavo nell'incontrare un innamorato. Già, forse proprio quello che lui avvertiva per me.
È stato in quel momento che, dal mare dei ricordi, è riaffiorata, prepotente, l'immagine di me ragazzina che guidavo furiosamente la mia bicicletta lanciata al massimo della velocità, quasi avesse le ali e fosse sul punto di spiccare un volo nel verde, nel giallo, nel rosso... ancora una volta proiettata in quella dimensione che tanti anni prima mi aveva risucchiato... quel vortice di luci e di colori... dietro, un'altra bicicletta che mi inseguiva...
Quest'uomo che non ha mai contato niente per me, che non ha minimamente influito nella mia vita, aveva trovato di nuovo il sistema per tornare a farmi visita. Inarrestabile nel suo inseguimento, con le lettere sgualcite che da lì a poco mi avrebbe dato... in attesa di una risposta che non ha mai ricevuto.
È strano che insieme a questa immagine non siano ricomparse anche l'indignazione o la rassegnazione. Al contrario, mi sono scoperta, quasi intenerita, nei suoi confronti e mi vergogno con me stessa per essere stata, in passato, così ottusa e insensibile. Chissà che cosa gli avrei detto allora che avessi avuto questa stessa disposizione d'animo.
Io che ho sempre creduto di amare la poesia, non ho riconosciuto un "poeta". Imperdonabile.
Mi è rimasta soltanto l'inquietante sensazione che lui, dopo avere aspettato tanto, sia tornato di proposito, scavalcando in qualche maniera la confusa barriera del tempo. Caparbio, forte di questi anni trascorsi, ancora una volta ha voluto imporsi alla mia attenzione, pazientemente consapevole che oggi non l'avrei ignorato. Una indiscutibile rivincita.

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Ins. 13-05-2003