Autori contemporanei
affermati, emergenti ed esordienti

Anna Rastrelli
Con questo racconto ha vinto il settimo premio al concorso
Città di Melegnano 2006, sezione narrativa

«Una tazzina di caffè»



La donna si svegliò di soprassalto, fradicia di sudore e col cuore che le batteva in gola, senza alcun motivo apparente. Doveva aver avuto un incubo, pensò, anche se non ricordava nulla, e si volse a guardare il marito, per controllare se il suo brusco sobbalzo lo avesse svegliato; ma lui dormiva ancora il sonno profondo del giusto, volgendole le spalle. Non si mosse neppure quando lei, ormai sveglia del tutto, si alzò piano piano e, infilatasi la vestaglia, andò ciabattando in cucina a prepararsi il caffè.
La prima cosa che fece, come di consueto, fu guardare l'orologio elettrico appeso a una parete: erano appena le sei di una domenica d'estate. Dal sentiero sterrato su cui si affacciava la cucina (l'unica strada asfaltata dell'isola univa l'abitato al porto ed era lunga appena un chilometro) non proveniva alcun rumore: a quell'ora le poche persone rimaste in paese, per lo più vecchi come lei e suo marito, preferivano rimanere a letto, anche se il sole si era già alzato sull'orizzonte, e i turisti che avevano preso in affitto le case rimaste vuote dormivano ancora della grossa, proprio come suo marito. Avanzò cautamente sul pavimento sconnesso di graniglia, su cui si stagliavano nitide le strette fasce parallele di luce che filtravano dalle persiane accostate; le spalancò, lasciandosi investire dall'aria frizzante e dal profumo salmastro del mare.
Rivolse solo uno sguardo distratto al lembo d'isola incorniciato dalla finestra, che l'accoglieva immutato ogni mattina da giorni innumerabili come le stelle di notte: i campi quadrettati da muretti di roccia nera, che scendevano verso gli scogli in morbide onde senza un albero a fare ombra (c'erano solo i cespugli ispidi dei fichi d'India a bordare i sentieri) e poi acqua, acqua fino all'orizzonte. C'era gente che veniva di lontano per farci prolungate immersioni, ma lei non ci aveva mai infilato neppure un piede da quando era giunta sull'isola sposa novella. E dopo che s'era preso i suoi primi due figli, l'aveva odiato con tutta se stessa quel mare di lapislazzulo, che l'assediava insaziabile da ogni lato, impedendole di dimenticare: a vederlo adesso, liscio come una tavola, appena increspato da riccioli spumosi lungo la riva, non si poteva immaginare la furia di assassino che sapeva raggiungere. Era giunta a sperare che una delle tante tormente che costellavano l'inverno sommergesse l'isola coi suoi flutti, liberandola da quell'assedio senza fine.
Si lavò le mani nell'acquaio, passandosele ancora bagnate sul viso, per dissolvere gli ultimi brandelli di sonno.
Aveva dormito poco, disturbata dalle strida agghiaccianti dei gabbiani (li chiamavano "diomedee", un nome che aveva a che fare con un eroe antico, le avevano detto), che trafiggevano il cuore delle notti d'estate. Non le succedeva più da molto tempo: in tanti anni ci aveva fatto l'abitudine; ma questa volta le avevano impedito di chiudere occhio per ore: parevano urla di bambini sgozzati.
Tirò fuori dal frigorifero il contenitore metallico del caffè, un caffè di marca, l'unico lusso che si concedesse, ma in polvere, perché, da quando l'artrosi le aveva divorato le mani, aveva dovuto rinunciare a macinarselo da sola, ripulì la macchinetta (lo faceva sempre all'ultimo momento, perché il metallo rimanesse impregnato dell'aroma), ne riempì d'acqua la metà inferiore fino alla valvola di sicurezza e adagiò con cura il caffè nel contenitore, in modo da riempirlo uniformemente, senza però pressarvelo; quindi avvitò la parte superiore, mise la macchinetta sul fornello piccolo e accese il fuoco, regolando la fiamma al minimo. Ogni mattina compiva quell'operazione con la solennità di un rito, quasi il giorno non potesse avere inizio prima che l'avesse portata a termine con i gesti appropriati.
Mentre il caffè passava, uscì dalla porta che dava sull'orto e raccolse in una cesta i panni tesi ad asciugare la sera precedente, per evitare che il sole li scolorisse. Sull'isola le notti erano fredde anche in piena estate, ma il vento svolgeva egregiamente la bisogna. Quando tornò in cucina, la moka cominciava appena a borbottare: ormai era in grado di calcolare con esattezza il tempo necessario perché il nero nettare schiumoso filtrasse al punto giusto; evitava sempre di lasciar passare l'ultima acqua, ormai appena torbida.
Spense il fuoco con un gesto automatico e, inalando con voluttà il profumo che aveva invaso la cucina, riempì la tazzina, che aveva preparato sul ripiano di marmo. Stava per portarla alle labbra (non avrebbe mai commesso l'eresia di guastare con lo zucchero l'aroma del caffè), quando un rumore inaspettato, una specie di raschio, le fece capire di non essere più sola nella stanza: suo marito era seduto al tavolo con indosso la canottiera e i pantaloni del pigiama che gli ricadevano in larghe pieghe attorno al corpo scheletrito color del tabacco, nella posa consueta a spalle curve e testa bassa. Mentre si chiedeva com'era possibile che non lo avesse udito entrare, fu presa da una sorda irritazione. «Mi spiace di averti svegliato» disse con una rudezza che smentiva le sue stesse parole: in realtà aveva pregustato il piacere di passare un'oretta in beata solitudine «Vuoi che faccia il caffè anche per te?».
L'uomo si schiarì ancora la voce, ma si limitò a fare un cenno di diniego. «Perché non torni a letto?» chiese lei speranzosa «È ancora presto». «No» disse il vecchio con voce così esile, che la moglie dovette allungare il collo per udirlo «Devo parlarti».
Parlare? Che era questa novità? Non parlava quasi mai, neppure quando c'erano cose da dire. La donna aggrottò le sopracciglia. Che gli era preso, al vecchio, stava forse rimbambendo? Gli sedette davanti e cominciò a sorbire il caffè a piccoli sorsi nervosi, quasi con stizza, perché non riusciva a gustarlo con la necessaria concentrazione: era riuscito a sciuparle anche quel piccolo piacere e gliene erano rimasti ormai così pochi...
«Non è un granché la vita che abbiamo fatto in questi ultimi anni, non è vero?» si decise a dire l'uomo dopo una lunga pausa, quasi le avesse letto nel pensiero «Da quando i figli se ne sono andati...».
Ne avevano avuti cinque, di figli. I primi due erano morti che erano ancora bambini: il più piccolo aveva avuto un malore in acqua e il più grande aveva cercato invano di salvarlo; erano affogati insieme e quando li avevano ritrovati avevano fatto fatica a scioglierli da quell'ultimo abbraccio. Ne avevano avuti altri due subito dopo, un maschio e una femmina, che avevano trovato lavoro sul continente e tornavano sull'isola con i nipoti solo in agosto per le ferie. I soldi che mandavano a casa regolarmente erano serviti a far studiare il più piccolo, nato quando i fratelli erano già così grandi, che avrebbe potuto passare per figlio loro; ora faceva l'Università su al nord, in una grande città fredda, piena di nebbia e di traffico. Non sarebbe venuto quest'estate: andava per tre mesi in Inghilterra a studiare la lingua, aveva scritto; forse si sarebbe fatto vivo a Natale. I figli... tanti sacrifici per crescerli e poi non vedono l'ora di andarsene, come uccelli migratori.
«...del resto, che ci restavano a fare su questo sputo d'isola, che a malapena dà di che mangiare a noi?» proseguì il vecchio con un riso chioccio «Da che siamo rimasti soli, dicevo, non ti sono stato vicino come avrei voluto. Anche quando passavo le giornate sul peschereccio, trascorrevamo insieme solo poche ore; partivo che dormivate ancora tutti, ma almeno non ti lasciavo sola durante il giorno: mi consolava, mentre gettavo le reti, sapere che a sera ti avrei trovata a casa ad aspettarmi con i ragazzi. E quando sono diventato troppo vecchio per uscire a pesca, mi ero ormai abituato al silenzio cui condanna il mare».
La donna lasciò cadere la tazzina sul tavolo con tanta forza, che per poco non la spaccò. Fissò il marito con sospetto: forse il giorno prima era rimasto troppo al sole, quel sole violento e inesorabile di fine luglio che ti strappa la pelle dal corpo e ti brucia anche la volontà, e gli si era fuso il cervello. Lavorava per ore nell'orto che era riuscito a strappare con cieca ostinazione alla cronica mancanza di acqua dolce nell'isola (quella potabile, che portavano regolarmente con una cisterna dalla terraferma, non doveva essere sprecata e le giornate di pioggia si contavano sulle dita di una mano), giustamente orgoglioso dei suoi ortaggi, molto più polposi e saporiti di quelli che vendevano nello spaccio del paese. La vecchia non riusciva a pensare nulla da dire, ma il marito non si aspettava che lo facesse: sollevò il viso e le restituì uno sguardo insolito, quasi affettuoso, con quei suoi occhi acquosi, affogati nella fitta rete delle rughe che gli solcavano il volto come ferite.
«Sei stata una brava moglie in tutti questi... quanti sono stati?... cinquantadue anni. Ricordi quando sono venuto a chiedere la tua mano?» lo ricordava eccome, imbalsamato nel vestito comprato per l'occasione, i capelli lucidi di brillantina e i baffi tirati a cera «Non riuscivo a spiccicare una parola per la paura che mi avresti respinto. Non l'hai fatto, ma la paura non mi è passata neanche dopo. Mi chiedevo cosa ci trovassi in uno come me: eri così bella che potevi sperare di meglio... magari di trovare uno del continente coi soldi; ma non ti sei mai lamentata. Io però ho sempre pensato che mi avresti lasciato, se non ci fossero stati i figli».
Ora la donna non sarebbe riuscita a parlare neppure se l'avesse voluto, sgomenta com'era. Che gli aveva preso al vecchio?, continuava a chiedersi, dove voleva andare a parare? Con un gesto automatico, tanto per fare qualcosa, si chiuse i lembi della vestaglia sulle gambe risecchite, seguendo distrattamente le linee bluastre che vi si ramificavano come le venature delle foglie. E pensare che quando era giovane quelle gambe avevano fatto girare la testa a tanti uomini!
«I figli... so bene quanto li hai amati. Te li tenevi stretti come una lupa che difende i suoi cuccioli, ma non sei riuscita a conservarteli. Quando i primi due morirono, pensai che saresti morta anche tu».
Il vecchio vide gli occhi della moglie spalancarsi prima e poi riempirsi di lacrime e udì chiaramente il singulto che le strozzò la gola, ma proseguì senza badarci: nessuno sarebbe riuscito a fermarlo prima che avesse detto ciò che doveva dirle.
«Quelli che sono venuti dopo ti hanno salvato prima dalla pazzia e poi dalla solitudine. Ma li hai cresciuti nell'ombra dei due morticini e non potevano fare altro che scappare, per non morire anche loro. Avrei voluto fartelo capire, ma li consideravi cosa tua e non avresti mai accettato la mia ingerenza. Eppure li ho amati anch'io, anche se non sono mai riuscito a dirglielo. Come non l'ho mai detto a te. Ed è proprio questo che dovevo fare: dirti quanto ti ho voluto bene. Sì, ti ho voluto un bene forse troppo schivo... magari avresti preferito che fossi più espansivo. Ma te ne ho voluto davvero tanto, anche se non ho mai trovato i gesti e le parole per esprimerlo».
La donna non resse più. Prima che il pianto che si sentiva salire in gola le uscisse dagli occhi, si alzò così bruscamente da far cadere la sedia e corse verso la camera da letto. Si sbatté la porta alle spalle, per impedire al marito di seguirla, e cercò con rabbia il fazzoletto nella tasca della vestaglia. Che gli era preso al vecchio? Perché aveva voluto rimestare nella palude dei ricordi, che lei aveva così accuratamente sepolti in un angolo remoto del cuore? E poi tutte quelle sciocchezze sul bene che le voleva... che senso avevano?
Fu allora che lo vide. L'uomo giaceva nella sua metà del letto nella stessa identica posizione in cui l'aveva lasciato quando si era alzata per andare a farsi il caffè, perfettamente immobile, troppo immobile... Si cacciò il fazzoletto in bocca per non urlare e si lasciò cadere in ginocchio accanto a lui, dando libero sfogo al pianto.


Anna Rastrelli


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 Ins. 20-09-2008