Autori contemporanei
affermati, emergenti ed esordienti

Anna De Castiglione
Con questo racconto ha vinto il quarto premio del concorso Fonòpoli - Parole in movimento 2001-2002, sezione narrativa
Confessione di un delitto
 

Il vivere costringe le nostre aspirazioni entro confini necessariamente ristretti: la gioventù, per quanto gioiosa e spensierata, ha i giorni contati; il nostro sapere, per quanto vasto, si perde nell'immensità del cielo stellato; anche il Tempo, per quanto inafferrabile, è destinato a fermarsi; ma, soprattutto, l'umana capacità di sopportazione è soggetta a limiti invalicabili, superati i quali, non resta che un mondo

senza regole, senza freni, senza colpe e senza colpevoli.
È solo a partire da questo presupposto che il terribile gesto che mi appresto a confessare potrà essere, se non perdonato, almeno capito.
 
Avevo studiato medicina con grande passione ed ero convinto che i miei futuri pazienti sarebbero diventati, per me, i libri più istruttivi; purtroppo, i miei ideali umanitari si schiantarono sulla rigida copertina di qualche testo d'esame, eccessivamente voluminoso per le mie capacità, ma tragicamente indispensabile per l'ottenimento della laurea.
Fu così che mi dovetti accontentare di diventare l'assistente dell'illustre Prof. A. Patia. Il mio lavoro consisteva nel gestire la sua agenda di appuntamenti, compilare le impegnative, ricevere i pazienti: ai miei sogni filantropici veniva concesso soltanto di osservare e imparare...
 
Come quasi tutti i medici di chiara fama, il Prof. A. Patia non stringeva la mano ai clienti, non visitava a domicilio e, appena poteva, non emetteva fattura...
Ma a queste caratteristiche, comuni alla categoria, se ne aggiungevano alcune sue personali, che rendevano la nostra convivenza sempre più difficile da sopportare.
Il suo studio era impregnato di un odore forte e sgradevole: un misto di disinfettante e muffa, che non era quello del suo corpo, più o meno lavato, né quello dei medicinali, più o meno scaduti; era invece il gelido, acre odore dell'indifferenza...
Non si poteva però dire che non amasse il suo lavoro.
Ad ogni visita, che fosse la prima o la centesima, chiedeva al paziente di ripetergli le generalità e di esporre la sua storia.
Ascoltandone la voce lamentosa si accarezzava languidamente la fronte e restava in silenzio; taceva, non perché fosse interessato a quanto gli veniva raccontato, ma perché, restando muto, poteva liberamente pensare a quello che avrebbe mangiato per cena o a come avrebbe passato il week-end.
Guardava poco i suoi clienti; e non li osservava per nulla.
Ma, con la massima attenzione e con studiata lentezza, leggeva invece lastre, radiografie, ecografie, ecc.
In quell'attesa, che con sottile piacere amava prolungare, sentiva la tensione crescere nel suo studio e ne assaporava ogni particolare: vedeva le dita contratte del malcapitato stringere i braccioli della poltrona e piccole gocce di sudore freddo imperlarne la fronte...; tutto ciò gli dava un'inebriante sensazione di potere: forse la principale soddisfazione che riusciva a trarre dalla propria professione.
 
Al contrario, io non riuscivo ad abituarmi alla sofferenza: ad ogni diagnosi, alla lettura di ogni referto, i miei pensieri gridavano di gioia o di disperazione, anche se la mia bocca non poteva parlare; ad ogni "non c'è più nulla da fare; abbiamo fatto tutto il possibile...", il cuore mi esplodeva nel petto e dentro di me sentivo scoppiare l'atroce, violento, fisico dolore di una fucilata che mi colpiva alle spalle.
 
Il Prof. A. Patia aveva l'arroganza dei giovani e la disperazione dei vecchi.
Sempre convinto che il peggio dovesse ancora venire, credeva che la speranza potesse portare una sofferenza ancora più acuta della disperazione. Depresso di natura, amava deprimere, traendo da ciò una personale gratificazione, perché era convinto, in tal modo, di aiutare il suo prossimo.
Ma cosa poteva saperne lui di cosa fosse davvero la vita?
Pensava di aver vissuto, ma non sapeva cosa fosse vivere...
Tutte le sue soddisfazioni sembravano dipendere dalle molteplici specializzazioni che era riuscito ad ottenere in quasi ogni ramo della medicina, da una alimentazione equilibrata e da una digestione regolare.
Nulla di ciò che aveva lo aveva emozionato: i grattacieli di New York non gli erano sembrati abbastanza alti; gli oceani se li aspettava più vasti e nei deserti non aveva trovato altro che sabbia...
In verità, i suoi occhi erano straordinariamente penetranti; ma non nel senso che riuscivano a vedere "dentro": nel senso che riuscivano a vedere "attraverso" le cose e le persone.
Se avesse invece saputo osservare i suoi pazienti... forse proprio da loro avrebbe potuto imparare cosa è la vita e cosa può essere: quel vecchio centenario incartapecorito, che riusciva a soffrire di ipo e di ipertensione, di ipo e di iperglicemia, di ipo e di ipertono insieme, avrebbe potuto spiegargli come solo in quei giorni, quando gli venne confermato che il suo non era un tumore maligno, avesse avuto la sensazione che la sua esistenza stesse per ricominciare e come, solo allora, avesse provato quella dolce stanchezza che indebolisce il fisico, ma rende lo spirito forte, allegro e assetato di vita; oppure, se avesse saputo guardare negli occhi quel bambino che non avrebbe mai più potuto camminare, se avesse saputo stringerlo forte a sé fino vederne i sogni, avrebbe provato anche lui quella febbre felice che noi chiamiamo vita...
E non è forse solo l'amore per questa vita che ci permette di avere pietà di noi stessi e di prenderci cura del nostro prossimo?
E non era forse solo questo che quell'infelice vedova, fragile come un soffio, in quel tragico pomeriggio, andava cercando nel suo prestigioso studio?
La povera donna descriveva i suoi malanni, mentre con mani tremanti sembrava cercare impossibili carezze e il suo sguardo smarrito inseguiva ricordi perduti nel tempo.
Ma lei si sarebbe accontentata di qualche ricostituente, di un periodo di riposo raccomandato con calore o anche di un semplice day-hospital, dove qualcuno si sarebbe occupato, se non di lei, almeno della sua salute.
Naturalmente, il Prof. A. Patia vide in lei solo una donna anziana, senza alcun sintomo degno di nota, afflitta dagli acciacchi dell'età relativamente avanzata.
Nel suo intimo, pensava che chi riusciva a trovare il tempo e la voglia di lamentarsi, dovesse sentirsi inconsciamente attratto dalle proprie disgrazie. Era convinto che chi invecchia precocemente, in realtà, "volesse" invecchiare e non facesse nulla per evitarlo; cosiccome i senzatetto, secondo lui, non desideravano seriamente una casa; i disoccupati, non cercavano con determinazione un lavoro e gli emarginati in verità stavano bene da soli.
Con un sorriso severo scoprì i suoi denti bianchi come porcellana, senz'ombra di tartaro o di placca, ma il suo viso risultò, curiosamente, più grigio e più duro di prima.
Un raggio di sole, rettilineo e spietato come un'autopsia, illuminò il referto che stava consegnando:
 
"Diagnosi: senilità
Terapia: nessuna
Totale: L. 400.000.-+ 2.500 (bollo)"
 
Sentii il fuoco nello stomaco e il rombo di mille tamburi martellarmi nelle tempie... finché non riuscii più a trattenermi: un impulso irrefrenabile si impossessò delle mie mani, che avvicinandosi al Professore, afferrarono il tubo di gomma del suo inseparabile stetoscopio, glielo avvolsero intorno al collo e... tirarono...
I suoi occhi continuavano a trapassarmi come se non esistessi; senza rabbia, né sgomento, né odio; immobili, come fossero in posa per una fotografia; vuoti e senza luce, come sempre...
Lo vidi passare dalla vita ma in lui nulla era cambiato...
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Premio Fonòpoli - Parole in movimento 2001-2002
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 Ins. 03-10-2002