Autori contemporanei
affermati, emergenti ed esordienti

Angela Suprani

Con questo racconto ha vinto il primo premio del concorso Marguerite Yourcenar 1998 sezione narrativa

 
 
Laura sta guidando verso casa
 
Laura sta guidando verso casa. La testa, con tutti i pensieri dentro, è in stand-by, congelata, momentaneamente, in un raro momento di tregua. Non di pace: solo di tregua. Lo sguardo vede e non vede tutto quello che c'è intorno. L'abitudine fa registrare alcuni particolari idioti, senza importanza: i numeri della targa dell'auto che la precede; la sporta di paglia attaccata al manubrio di una bicicletta appoggiata contro al muro fuori da un bar; i polpacci grossi di una donna che esce da un portone, e il portone stesso, verde, con le maniglie di ottone luccicanti. Dopo aver oltrepassato il boschetto di tigli, nero contro un cielo cruento, mette la freccia a sinistra e svolta nel vialetto d casa, rallenta per passare attraverso il cancello, poi il rumore delle gomme sulla ghiaia, poi spegne il motore. Anche le scarpe fanno rumore di ghiaia mossa, mentre percorre di nuovo il vialetto, per chiudere il cancello. Laura avanza decisa verso il cancello; anzi: vorrebbe avanzare decisa, chiudere e rientrare in casa. La sera che sfiorisce la coglie impreparata. Per terra le ombre già sono tate cancellate, azzerate dal buio, e a fatica si distinguono i ciuffi d'erba tra i sassolini bianchi, e i cespugli attorno sono già tutti neri e nere le sagome delle altre case, più avanti, oltre i campi. Però il cielo è blu.
 
Il cielo è blu: rotondo e luccicante, una creatura vivente.
Questo cielo ancora vive, pensa Laura, respira: par di vederne gli occhi brillare, un cielo così drammatico fa venire voglia di piangere, o di ridere, dipende. Questo è un cielo che fa venire voglia di baciarsi. Vorrebbe aver indossato un maglione più pesante, per poter restare lì fuori a guardare il cielo, che agonizza senza perdere nemmeno un'ombra della propria compostezza ed intensità. Ma ha freddo. L'idea di baciare le fa venire in mente Pierre, suo marito, come tutto quanto al mondo, del resto; ogni minimo dettaglio della più flebile delle sue emozioni, le fa venire in mente Pierre.
 
Lui è già in casa, c'è la sua auto parcheggiata sotto la quercia, e in cucina si è accesa la luce.
«Laura? Sei tu?».
Laura non lo chiama, non gli chiede di venire fuori a guardare il cielo, eppure è stretta a lui che si immagina in quel momento, e quel pensiero la colma di gioia. Quando rientra in casa lui le viene incontro, e si abbracciano forte.
«Guarda che cosa ho fatto» le dice Pierre, e la guida in cucina; sul tavolo sono sparse le tavole dei suoi nuovi disegni; per terra, accartocciati, alcuni foglia bianchi, e poi matite, e nel portacenere le cicche spente a metà, e una lattina di birra aperta, con una piccola macchia chiara sul pavimento. Le finestre sono chiuse, manca l'aria, de quella poca che c'è sa di fumo. Pierre sta parlando, eccitato, del suo nuovo lavoro, e Laura pensa: non ha nemmeno messo l'acqua sul fuoco, e poi, subito dopo: non mi ha nemmeno chiesto com'è andata oggi, né come mai sono rientrata così tardi, e mentre lui le parla di luci e di ombre lei pensa che deve mettere tutto in ordine. Riordinare e ripulire, riordinare e ripulire. Pensa che deve preparare la cena, e nel pensare a questo, d'un tratto, si vergogna profondamente della propria piccolezza e banalità.
«Ma mi ascolti Laura? Che cosa c'è?» nella voce di Pierre una stonatura, una lieve incrinatura di fastidio. Lei si riprende subito e cerca di recuperare velocemente la concentrazione, di canalizzarla su di lui. Esprime il suo parere sui disegni, cercando di non apparire affrettata o poco partecipe, lo investe di nuovo di tutta la sua attenzione, in bilico su quella sua capacità di annullarsi per mettersi a completa disposizione di lui, delle sue richieste, delle sue esigenze, delle sue aspettative; di nuovo la voce di Pierre si solleva nell'entusiasmo.
Poi tacciono entrambi.
In quel buco di silenzio a Laura sfugge un gesto nervoso, non controllato: prende il portacenere e lo svuota rumorosamente nel bidone della spazzatura, picchiandolo forte contro le pareti del secchio. «Cos'è, sei girata male?» nella voce di Pierre, questa volta, si fondono armoniosamente acidità e provocazione. Laura pensa velocemente all'atteggiamento da tenere, poi pensa che )è stanca di tenere degli atteggiamenti, di forzarsi ad essere qualcosa di diverso, che vorrebbe comportarsi in un altro modo, un modo che intravede a volte da lontano, ma che poi le sfugge. L'unico modo di comportarsi che conosce è abbracciarlo forte, e dirgli: «Ma no, va tutto bene, è tutto a posto». Lui le accarezza la schiena, Laura sente che sta cercando di trasmetterle un contatto rassicurante, ma no le sfugge il suo modo affrettato e un po' sbrigativo, come per chiudere in fretta un argomento che non vuole nemmeno affrontare.
Questo le provoca un moto di irritazione, si scioglie in fretta dall'abbraccio e va di sopra a cambiarsi.
 
Davanti allo specchio. Muta, guarda la sua immagine nello specchio, contenitore di qualcosa che non parla. Piano, compie i gesti di ogni sera, si lava il viso, si strucca, si mette la crema passando i polpastrelli delle dita sul viso, controllandone la tonicità, le rughe attorno agli occhi. Piano, deve andare piano, per non spezza la superficie fragile del tempo che trascorre e di ciò che vi succede dentro. Si sente braccata, minacciata dall'aria che ha intorno, e troppo debole per permettere alle sensazioni di investirla con la velocità che il pensiero conferisce loro; così compensa la violenza dei sentimenti con la lentezza lenitiva dei gesti.
 
Vorrebbe avere un piccolo strumento che fosse in grado di registrare i suoi pensieri, nell'ordine e con la velocità con le quali affiorano nella testa. Poi si tratterebbe di riavvolgere il nastro e di riascoltarli con calma, prima che vadano perduti, prima che il meccanismo di autodifesa li faccia evaporare e li disperda, rendendoli inutilizzabili. Così, forse, riuscirebbe a capire meglio quello che le succede: con u bel paio di forbici affilate potrebbe tagliare via quello che più le piace, conservarlo in una scatola nella memoria come si fa con i ritagli di giornale, e gettare invece quei pensieri senza capo né coda che girano su loro stessi e consumano il terreno a furia di inseguirsi senza portare da nessuna parte. Riuscirebbe ad analizzare, a capire, e forse tutto quanto le sembrerebbe meno pesante, meno spaventoso, e meno stancante di così.
Poi, subito dopo, vorrebbe essere una di quelle persone che non pensano affatto; una di quelle persone i cui pensieri sono ben chiusi nella loro scatola, e non affiorano, se non uno alla volta, e sempre con una loro ordinata sequenza, univoci e lineari. Vorrebbe imporre un altolà allo scorrere dei pensieri dentro alla testa, all'agganciarsi e sganciarsi dei ragionamenti e ai sentimenti con il fiato corto, a quelli corrosivi e anche a quelli stanchi, che si trascinano in un tempo lunghissimo.
Oppure vorrebbe affilare una lucidità sufficiente ad identificarli uno per uno, a tenerli sotto controllo ed impedire loro di imporle quell'angoscia vetrificata, alla quale on sa sottrarsi. Vorrebbe riuscire a vedere anche una sola immagine, ma chiaramente, invece di tutte quelle facce della stessa medaglia, che poi si confondono senza lasciarle dentro niente altro che un quadro complicato ed indecifrabile.
Vorrebbe essere diversa da come è, e poi si sente così stanca, ma così stanca, da non riuscire nemmeno ad affrontare l'idea di dover scendere in cucina, e preparare la cena, affrontare una conversazione e calarsi nei panni rassicuranti di una che ha tutto sotto controllo. Lei non ha niente sotto controllo.
Pensa: mi sdraio sul letto, solo dieci minuti.
 
Ancora prima di riaprire gli occhi, avverte una forte sensazione di pesantezza, una pesantezza totale, estrema. Dev'essere come quando si sprofonda nelle sabbie mobili, pensa: tutto tira giù, verso un fondo. Ancora prima di trovare la forza per aprire gli occhi, vorrebbe avere la forza per muovere una gamba, anche solo di poco, per poter strappare i suoi arti da quella ferrea immobilità. Da dietro gli occhi chiusi, vede se stessa tirare e tirare per muovere una gamba, immobilizzata da qualcosa che a sua volta tira nella direzione opposta.
Pensa: tutta questa fatica, mentre basterebbe proprio un niente per lasciarsi andare e cadere di nuovi giù, lì dove la coscienza vuole andare, giù in fondo in un fondo nero. Le torna in mente il sogno che ha fatto. Camminava in una grande città, rumorosa, ma piena più che altro di traffico, non di esseri umani; non ricorda di aver incrociato lo sguardo di nessuno; doveva raggiungere un luogo poco lontano dal punto nel quale i trovava; era tardi, e la distanza da percorrere davvero poca: ma le sue gambe erano talmente gonfie e stanche e pesanti che per fare un passo impiegava minuti, e la fatica che le costava era così grande da lasciarla senza più energia per affrontare il passo successivo. Non poteva fermarsi, comunque, e l'idea di sedersi o riposarsi un poco non le si era nemmeno affacciata alla mente.
Nella realtà, non si sente affatto meglio di così.
L'unico istante di tregua, tra la stanchezza del sogno e la fatica della veglia, è quello scivolare del pensiero nella tentazione di lasciarsi andare. È una sensazione talmente consolante, una possibilità, che le fa trovare la forza per aprire gli occhi e scendere dal letto.
È buio profondo in tutta la casa. Silenzio, quel tipo di silenzio che si fa in casa nel cuore della notte. L'orologio segna le tre e venti. Per illuminare il corridoio accende la luce nel bagno, lasciando la porta socchiusa.
Pierre, pensa: dov'è?
Scende le scale, il divano è vuoto, in cucina, sul tavolo, ci sono ancora tutti i suoi disegni, e per terra la lattina di birra.
Non sa dire se l'assenza di Pierre la spaventi o la faccia sentire colpevole, o tutt'e due le cose insieme, prima che queste si stemperino in un sollievo liquido che le scende nello stomaco quando vede accesa la luce nel portico. Fuori il vento si è fermato, e la notte è diventata tiepida. Pierre dorme, allungato sulla poltrona, con un maglione buttato di traverso sulle spalle. Laura lo guarda e si sente sopraffare da una tenerezza che le pare senza fine, dal desiderio di prenderlo tra le braccia e baciarlo e stringerlo forte; dall'urgenza di verificare la sua esistenza fisica. In quel momento vorrebbe solo essere una persona migliore. Non saprebbe dire esattamente come vorrebbe essere: solo una persona migliore, più positiva, più leggera. Non vede nemmeno una valida ragione per sentirsi così stanca e triste e così spaventata: non una. Questo la fa sentire incredibilmente colpevole, non tanto come per un'azione malvagia, quanto come per un'omissione di soccorso.
Prova un vergognoso bisogno di dimostrarsi di nuovo attiva ed equilibrata.
Lo guarda dormire, e Pierre è di nuovo un'inequivocabile testimonianza della necessità di essere forte. Prende una maglia di lana, si siede sui gradini, vicino alla poltrona sulla quale lui dorme, e si accende una sigaretta. Una di quelle sigarette che consentono ai pensieri di riassestarsi, lenta, insostituibile.
Quando Pierre si sveglia è come se non si fosse nemmeno mai addormentato; come se si fosse solo fatto da parte per permetterle di recuperare i suoi sentimenti migliori. Laura appoggia la testa sulle sue gambe, e lui le mette una mano sui capelli. La sua mano è calda, e pesante.
«Lo sai &endash; dice Laura &endash; una volta facevo pensieri che si staccavano al momento giusto e cadevano a terra, frullando solo un poco nell'aria,
senza peso. Adesso i miei pensieri si aggrappano come se avessero guanti di ferro, stridono dentro come su una lavagna». Quelle parole le vengono lieivi, quasi del tutto sganciate dalla sua persona. Le sole cose reali sono l'accoglienza della notte e la mano calda di Pierre.
«Laura &endash; le dice lui, con voce tiepida nella tiepida notte &endash; cercheremo di avere un altro bambino, se tu lo vuoi».
Laura chiude gli occhi e piange con lacrime immaginarie per tutto quel peso che ondeggia tra la testa e il cuore, dondola e dondola poi cade giù, con un rumore di vetro, fino a che non si ricompone tutto intorno il silenzio, e nella notte si sente solo il respiro breve di Pierre addormentato, e il tremolare di grilli in mezzo all'erba.
Il suo dolore, soprattutto lui, è tornato ad essere muto.

 

Classifica Concorso Marguerite Yourcenar 1998 sezione narrativa
 
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inserito il 27 ottobre 1998