Autori contemporanei
affermati, emergenti ed esordienti

Maria Angela Pasquali

Con questo racconto ha vinto il sesto premio del concorso Club Poeti 2001, sezione narrativa

 

Il canto del boia

 
Inizio questa storia senza dare nomi né al tempo, né ai luoghi, perché la persona di cui vi sto per raccontare potrebbe trovare una perfetta collocazione ovunque ed in qualsiasi epoca.
Il mio incontro con l'uomo di cui sto per parlarvi fu del tutto casuale, eppure io credo nel destino, e sono convinto quindi che, in qualche punto del nostro personale copione, era scritto che ci imbattessimo l'uno nell'altro. Potrei essere giudicato troppo fatalista, ma se foste scampati anche voi per ben tre volte alla morte, la pensereste come me. Ma non è di questo che voglio raccontarvi, non ora. Forse la prossima volta.
Ero in viaggio, come spesso mi capita a causa del mio lavoro, e mi ero fermato per riposarmi un poco: avrei dovuto proseguire, la strada da fare era ancora molta, ma non volevo arrivare a destinazione sfinito. Così alloggiai in una specie di albergo e mi sdraiai esausto sul letto. Qualche ora di sonno mi avrebbe senza dubbio ristorato. Invece, proprio quando ero pronto a russare senza pietà, bussarono alla porta. Mi svegliai di colpo, ci misi qualche minuto per capire cos'era stato. Poi bussarono di nuovo, questa volta con più vigore. Un'imprecazione e mi alzai dal letto, dirigendomi verso l'uscio. Ero praticamente nudo, quindi non aprii subito. "Chi è?", domandai. "Chi è lei!", mi rispose una voce maschile dall'altra parte.
"Questa è bella...", bofonchiai. Poi alzai il tono: "Beh, io sono quello che ha pagato per questa stanza e per avere un po' di pace, se non le dispiace troppo...!". Ero seccato, lo ammetto, e non avevo nessuna voglia di stare lì come un imbecille a dare spiegazioni a non so bene chi. Dall'altra parte ci fu qualche secondo di silenzio, così pensai che il tizio se ne fosse andato. Forse era ubriaco, chissà. Stavo per tornare al mio letto quando quella voce parlò ancora, calma, quasi ridente: "È quello che vorrei fare anch'io, le assicuro... ma lei me lo impedisce finché resta nella mia camera...". Corrugai la fronte: non capivo. La sua camera? Come potevo aver sbagliato stanza? Ma forse non ero stato io a sbagliare, bensì quel vecchio che stava all'ingresso e mi aveva assegnato quella camera. Decisi di mettermi qualcosa addosso e di aprire a quell'uomo per chiarire definitivamente la situazione. "Aspetti un attimo, le apro". Così feci, mi trovai danti un uomo tre spanne più alto di me, ed io non sono certo un nano. Era robusto, con due spalle larghe e muscolose, tant'è che pensai subito ad un lottatore. I capelli erano biondi, molto radi; forse era per questo che li teneva così corti, per evitare che la calvizie incipiente si notasse ancor di più. Ciò che stonava nel suo corpo era il viso: aperto, cordiale, oserei dire gentile, con due occhi azzurri, trasparenti. A quel corpo sarebbero stati più adatti lineamenti duri, uno sguardo sprezzante, magari un naso aquilino. Invece il suo viso mi faceva pensare ad un bambino cresciuto troppo, frutto di una nutrizione troppo ricca di vitamine, ma pur sempre un bambino, con l'innocenza e l'entusiasmo non ancora violentati. Mi sorrideva, probabilmente divertito dalla mia espressione. Sorrisi anch'io, meravigliandomene perché in un altro momento l'avrei certamente considerato uno scocciatore e l'avrei mandato al diavolo senza pensarci due volte; non avrei notato né il suo fisico, tanto meno il colore dei suoi occhi. Ed invece era davvero impossibile non farlo, credetemi: quell'uomo aveva un qualcosa di affascinante, di enigmatico.
"Bene!", esclamò allegramente, interrompendo i miei pensieri, "credo che il nostro vecchio Friedrich si sia sbagliato anche questa volta: deve averle dato le chiavi della mia stanza". Alzai le sopracciglia, poi mi resi conto che non avevo ancora aperto bocca e mi sentii uno stupido. "Mi scusi, ma come può dirlo?". "Beh..., c'è la mia roba la dentro, non se ne accorto?", mi chiese, sbirciando all'interno della camera. Mi voltai, aprendo di più la porta. Solo allora vidi una borsa in un angolo, dei libri sulla scrivania. Imbarazzato, mi sentii in dovere di chiedere delle scuse: "Mi dispiace: ero talmente stanco che non mi sono guardato attorno, mi sono buttato subito sul letto". L'uomo rise, divertito: "Non si preoccupi, non è colpa sua: in questo posto capitano spesso inconvenienti del genere. L'aspetto qui fuori, così andremo insieme da Fried che chiarire l'equivoco, se vuole". "Certo, grazie, farò in un attimo". Richiusi la porta e mi vestii in fretta, radunando le mie cose nella valigia. Mi resi conto di non essere innervosito dal quell'interruzione al mio sonno per colpa di un portiere troppo vecchio, ero tranquillo. Me ne stupii. Dopotutto non era grave, e forse avevo la possibilità di conoscere qualcuno, magari interessante, una volta tanto. Viaggiando spesso, si è portati a pensare di fare un'infinità di conoscenze, ma non è proprio così, almeno non per me. Sono sempre stato un tipo schivo, che bada ai fatti suoi, ed inoltre non c'è tanta gente intelligente là fuori. Non è presunzione la mia, è semplicemente un dato di fatto. Guardatevi un po' attorno e mi darete ragione.
Così andammo dal vecchietto all'entrata della bettola e mi fu data un'altra stanza di fianco a quella del 'lottatore'.
Tornammo insieme nelle nostre camere e, durante il breve tragitto, scambiammo qualche parola. Quell'uomo aveva un accento che non riuscivo a riconoscere, forse non era del mio Paese, o io del suo... Mi incuriosiva sempre di più. Sembrava una persona fuori del comune, di quelle che si distinguono a colpo d'occhio, non saprei spiegarvi il perché.
Improvvisamente mi accorsi che non avevo più sonno. La stanchezza era scivolata via dal mio corpo come acqua calda di una doccia. La qual cosa mi meravigliò e preoccupò allo stesso tempo: non mi era mai accaduto prima. Spesso non riuscivo a dormire nonostante i miei muscoli urlassero disperati, ma era davvero la prima volta che nel giro di un quarto d'ora mi sentivo sveglio come un gallo all'alba. Diedi la colpa all'abbondanza di caffè, alla pochezza del sesso, all'adrenalina, alla mia frustrazione eterna. Per ultimo presi in considerazione l'eventualità di avere un interesse 'diverso' nei confronti di quell'uomo, ma scartai subito l'ipotesi: non ero ancora così frustrato...
Quando fummo arrivati davanti alla porta mi sorrise, porgendomi la mano. Ricambiai la stretta, scusandomi di nuovo per l'inconveniente, ma lui mi assicurò che non era successo nulla e, per sottolineare la sua affermazione, mi diede una generosa stretta al braccio. Molto generosa. "Non vorrei mai fare a botte con questa montagna...", mi venne da pensare. Poi si avvicinò alla porta della sua stanza ed infilò la chiave nella serratura. Io ero fermo a pochi passi da lui e continuavo a guardarlo. Alzò gli occhi, sorridendomi di nuovo: "Finalmente potrà dormire in pace, ora... le auguro una buona notte...".
"Sì, già, sicuramente! Buona notte anche a lei, signor...?". "... mi può chiamare Swan, è molto più facile del mio cognome... ed è così che mi chiamano gli amici...". "Beh, allora... piacere di conoscerla Swan, i miei amici mi chiamano Dave". Gli posi di nuovo la mano e subito mi sentii un imbecille: avevo la netta sensazione che mi avrebbe paragonato ad uno di quei ragazzotti di campagna, goffi ed impacciati, che restano a bocca aperta davanti alle insegne luminose delle grandi città. Da quando mi interessava il giudizio degli altri? E, soprattutto, il giudizio di un uomo a me del tutto estraneo?
Rivalutai la possibilità di essere sessualmente attratto da lui, forse era davvero così... certo che... accidenti! Sarebbe stata una bella rivelazione, del tutto inaspettata. Non che fossi un grande 'trapanatore' di donne, ma non avevo mai avuto di che vergognarmi. Ed ora ero lì, a pochi passi da quella montagna di muscoli, a chiedermi seriamente se saremmo finiti a letto insieme. Immaginavo già la nostra alcova: avvinghiati in un poderoso abbraccio, io sotto di lui che annaspavo in cerca di aria. Scenetta ridicola... dovetti trattenermi per non lasciarmi sfuggire un sorriso divertito. Poi la sua voce mi aiutò a tornare alla realtà: "Il piacere è stato mio, anche se avrei voluto conoscerla in un modo un po' più tranquillo..." Fece una pausa, abbastanza lunga da darmi la speranza che desiderasse aggiungere qualcosa. Aspettai, agganciato alle sue labbra, ma sorrise, niente più parole. Si richiuse la porta alle spalle.
Entrai nella stanza a fianco ed iniziai a spogliarmi. Mi facevano male la schiena, il collo e lo stomaco era ormai vuoto da troppe ore. "D'accordo", pensai tra me, "mi è passato il sonno, in compenso mi è venuta fame e sete, ed ho scoperto che mi piacciono i lottatori vichinghi. Bel bilancio per la mia età, se vado avanti così finisce che mi innamoro...". Ci scherzavo sopra, non ero ancora abbastanza impaurito da preoccuparmi.
Mi lasciai cadere pesantemente sul letto, senza far troppo caso al colore al quale si erano arrese le lenzuola. E nemmeno all'odore, anche se ero abituato alle sollecitazioni olfattive più bizzarre, ed uso questo aggettivo perché è proprio quello che intendo. Decisi che avrei dormito a tutti i costi, dovevo. Dopo poco, la stanchezza ebbe il sopravvento sulla mia eccitazione, fosse sessuale o meno, aveva ben poca importanza ormai. Inciampai in qualche sogno irrequieto, nel quale poderose mani mi palpeggiavano in zone proibite. Mani maschili, s'intende. La mia sudorazione poteva essere equivocata in quel momento, senza ombra di dubbio, ma io ero nel sogno e poco importava.
Mi svegliai ansante, con la gola inaridita ed una gran voglia di bagnarla con qualcosa di fresco. Tra le gambe il mio compagno di sbronze si ergeva con potenza insistente, come a ricordo di un passato glorioso. Restai a fissare incredulo quella prolunga tremante, mentre la gola diventava sempre più asciutta. Mi inumidii le labbra ed alzai gli occhi al soffitto, trattenendo un'imprecazione: non ero per nulla fiero di ciò che mi stava succedendo, non in quella circostanza! Ci fosse stata una femmina nuda distesa accanto a me o meglio sopra di me, sarebbe stato diverso, ma così era proprio umiliante.
Diedi uno sguardo all'ora, aspettandomi che fosse almeno l'alba, invece era passata a malapena un'ora da quando ero sprofondato in quel sonno tormentato. Mi sedetti sulla sponda del letto e mi presi la testa tra le mani. La sete era diventata insopportabile, talmente insopportabile da spingermi a fare una cosa che raramente facevo in situazioni normali: bere acqua. Piuttosto una spremuta, qualsiasi cosa, purché non fosse acqua. L'avevo depennata dai liquidi da me assunti ogni giorno. Non ero un alcolizzato; sì, ammetto che amavo ingurgitare corpose quantità di cognac, di tanto in tanto, per entrare nella mia bolla d'aria personale, ma niente di inarrestabile. Mi alzai quindi dal letto per raggiungere il bagno ed aprire il rubinetto del lavabo, sotto al quale misi subito le mani a coppa, pronto a bere, finché non avessi placato quell'arsura in gola.
Un liquido giallognolo prese a sgorgare lentamente, qualche colpo alle tubature fermarono per un attimo il suo placido flusso, e quello mi bastò per cambiare idea. Mi precipitai a mettermi qualcosa addosso ed uscire alla ricerca di qualsiasi cosa avesse avuto il potere di calmarmi un poco. Fuori dalla stanza fui investito da un vento gelido che non ricordavo, mi strinsi nel giubbotto ed alzai il cappuccio per ripararmi meglio. Poco lontano dall'albergo vidi quello che sembrava essere un negozio di liquori o qualcosa del genere. Ricordo che mi meravigliai fosse ancora aperto, e socchiusi gli occhi per cercare di mettere più a fuoco l'insegna al neon. Era di colore rosa, quel rosa finto delle caramelle gommose che i bambini amano tanto. Si accendeva e spegneva freneticamente, cercando di adattare il suo ritmo ad un andante con brio fallendo miserevolmente: fuori tempo e saltava le battute. Avanzai con passo veloce raggiunsi la porta d'ingresso che spinsi con impazienza. L'aria lì dentro era irrespirabile: sembrava vecchio di un decennio, ferma ed esausta. Gravata di tutti gli odori emanati d cose e persone. I soffitti del locale erano molto alti, di un bianco reso opaco dal tempo, ampie crepe facevano strada lungo i muri. Da una di esse fece capolino una piccola lucertola, forse sopravvissuta all'autunno in arrivo, perché intrappolata in quella topaia. Come me in quel momento, anche se io avrei potuto tranquillamente girare su me stesso ed uscire da dove ero entrato, ma non era così semplice, e poi ormai ero dentro e sarebbe stato stupido da parte mia andarmene senza qualcosa per la mia sete. Inoltre, e non era un particolare trascurabile, c'erano due occhietti scuri e vivaci, nascosti dietro un paio di occhiali dalle lenti molto spesse, che non avevano mai smesso di scrutarmi. L'uomo che ne era proprietario restò immobile a studiare le mie mosse senza dire una parola. Mi guardò girovagare con passo indeciso tra i vari scaffali finché non tornai da lui per pagare. Avevo scelto in fretta senza perdere tempo perché adesso ero proprio stanco di quella giornata, volevo tornarmene sotto quelle luride lenzuola e continuare il mio sogno erotico con il Vichingo come co-protagonista ... per fortuna avevo ancora voglia di scherzare...
Posai lo bottiglia di succo d'arancia alla cassa e misi i soldi a fianco. L'omino guardò prima i soldi, poi la bottiglia, poi cucì il suo sguardo al mio e lì lo lasciò. Probabilmente se lo sarebbe anche dimenticato se io non avessi iniziato a dare segni di squilibrio psicofisico. Mi stavo innervosendo e poderosamente. La mia mano scattò autonoma nei capelli per la grattatina di prassi, ma non trovai sollievo. Allora venne il momento dell'autocontrollo: tirai un forte respiro e poi gli parlai: "C'è qualcosa che non va?". "Bhe, era ora che si decidesse a chiedermelo...!". Pareva stizzito, e più volte si sistemò le bretelle dei pantaloni. Lo notai consolandomi: dunque non ero l'unico ad avere tic nervosi. Quindi prese la bottiglia in mano e disse: "Non possiamo vendere bevande non alcoliche a quest'ora della notte, e lei dovrebbe saperlo!" "...ha detto, scusi?". A quel punto il venditore fece appello a tutta la sua pazienza ed uscì da dietro il suo alto bancone di legno scrostato, facendomi cenno di seguirlo. Mi portò in fondo al corridoio centrale, di fronte ad uno scaffale ben fornito di liquori e superalcolici. "Ecco!", esclamò soddisfatto, "scelga qui ed in fretta, prima che perda la pazienza...". Lo fissai sbigottito per qualche secondo, incapace di qualsiasi risposta umana, poi cercai la cosa che mi parve meno alcolica di tutte, non avevo voglia di dissetarmi a sorsate di whisky, e tornai indietro per pagare. Già tremavo all'idea di dover passare nuovamente l'esame di quel pazzo. Misi la 'pozione' alcolica davanti all'uomo ed aspettai. Non parve convinto della mia scelta perché arricciò il naso con sdegno. Evitai di guardarlo ulteriormente per non dover sputare in quegli occhietti da cinghiale, e gli lasciai il resto, uscendo da quel posto assurdo quasi di corsa.
Mi incamminai di buon passo verso il mio albergo, combattendo con il vento e con la rabbia che mi divorava lo stomaco a grossi morsi. Mi domandai dove diavolo ero capitato. In un paese dimenticato dal tempo e dal resto dell'umanità, dalla normale vita fatta di cose logiche e regolari. Ero quasi arrivato quando scorsi una figura molto alta attraversare la via, allontanandosi dall'albergo e dirigendosi sul lato opposto della strada. Non sembrava avere fretta, anzi, se la prendeva con calma, quasi passeggiasse,, e ricordo che la cosa mi risultò alquanto strana: faceva troppo freddo per una passeggiata. Poi la vidi chiaramente voltare la testa per guardare nella mia direzione e fare un cenno di saluto con la mano. Allora la riconobbi: era lui, Swan, il Vichingo, il Lottatore, l'Eroe sensuale dei miei sogni... A pensarci bene, ciò che era, o almeno quello che conoscevo fino a quel momento di lui, si addiceva perfettamente all'atmosfera di quel paese assurdo. Non avrei potuto incontrarlo altrove. Mi lasciai andare ad un sorriso a mezza bocca, poco felice dell'incontro perché ancora memore della deprecata erezione notturna, vergognandomi come se lui l'avesse in qualche modo miracoloso saputo o capito o addirittura visto. Si comportò in maniera normale invece, e me ne rallegrai. Stupidamente, certo, ma le emozioni non hanno il cervello, penso che questa me la concederete.
Si stupì di vedermi vagabondare a quell'ora di notte e mi chiese se avessi bisogno di aiuto. Era sempre molto gentile e, quel suo modo di esserlo mi incantava come al serpente il movimento del flauto. Ero arrivato alla conclusione che forse non ero più abituato alle buone maniere, e questo era molto triste. Troppo tempo da solo, troppo tempo lontano da una casa, troppo tempo senza qualcuno che mi dicesse o che facesse anche una piccola cosa per dimostrarmi d'aver gradito la mia presenza sulla terra. Allora mi lasciai andare alla stanchezza ed al disappunto di pochi minuti prima e mi sfogai con lui, lì in mezzo al marciapiede. Non ricordo nemmeno più quello che gli raccontai. Sproloqui, sicuramente. Deliri. Solitudini. Gli ultimi anni che avevo vissuto. Possibile fosse bastato un negoziante alienato a scatenare la mia frustrazione? No, non credo, era latitante da anni... E lui mi lasciò parlare, parlare, finché mi fui calmato ed ebbi freddo alle mani.
"Mi dispiace...", mi scusai imbarazzato, "... è solo che mi sembra proprio capitino tutte a me oggi... e non solo oggi!".
Swan mi sorrise, socchiudendo gli occhi con aria comprensiva, poi mi circondò le spalle con un braccio, e non potei fare a meno di avvertire la potenza del suo fisico e di sentirmi rassicurato. "Dai", mi disse, "che ne dici se andiamo nella mia stanza e ti offro qualcosa da bere?". Gli rivolsi uno sguardo supplichevole ed arreso: "Se hai qualcosa di fresco ed un pezzo di pane secco con una crosta di formaggio, accetto il tuo invito..." Per tutta risposta rise divertito e mi strinse con calore. Quel gesto da solo mi fece già sentire meglio. Il mio benessere aumentò quando entrammo nella sua camera e mi accomodai stancamente su l'unica poltrona. Lo osservai muoversi in quello spazio modesto e preparare con gesti sicuri qualcosa da bere per entrambi ed improvvisare un piccolo banchetto. Era incredibile quello che era riuscito a tirar fuori dal alcuni sacchetti di carta marrone accuratamente riposti in una borsa. Con quelle grosse mani affettò salame nostrano e pane bianco; versò vino rosso in bicchieri diversi tra loro, ma puliti; sistemò il tutto sul tavolo contro la parete della stanza. Lo osservavo affascinato. Dimostrava una notevole dimestichezza in quei movimenti, per cui dedussi che faceva anche lui parte della schiera di uomini avvezzi ai lavori domestici: benvenuto nel clan 'non ammogliati'. Decisi di chiederglielo, ero curioso. Dopo avermi guardato a lungo negli occhi, come volesse scoprire il reale motivo della mia domanda, mi sorprese con una risata fragorosa:
"Dì la verità", mi esortò, "ti stai preoccupando? Voglio dire, ti stai chiedendo se io sia un uomo con gusti sessuali un po'... uhm... eccentrici?". "Oh... beh... no, io assolutamente no, perché", balbettai. Mi feci tenerezza. Probabilmente anche a lui. Prese un bicchiere di vino e me lo porse: "Forza, brindiamo", mi disse poi. "Sì, buona idea...", risposi a bassa voce. Ero imbarazzato più per quella sua strana capacità di leggermi dentro che per altro. Ragguardevole. A quel punto non mi sarei stupito se fosse riuscito addirittura a scoprire il mio sogno di poche ore prima... "A noi ed al vecchio Friedrich, senza il quale non avremmo mai avuto la chance di conoscerci", esclamò, strappandomi alle mie riflessioni. "Vero, a Friedrich ed a noi". Bevvi un lungo sorso di vino, assaporando poi il gusto che mi avvolgeva lingua e palato come una sottile pellicola profumata. Swan mi porse un piatto con del salame, del pane e mi consigliò di spalmare del burro sul pane prima di addentarlo: "Il burro esalta il sapore del salame, mentre il vino rosso quello di entrambi".
"Sembri un intenditore..."
"No", si schermì, "solo uno che ama le cose buone ed è curioso. A proposito...", aggiunse quasi per caso, "...non sono sposato e non ho fidanzate, è stata una scelta di tanti anni fa, e per ora va bene così". lo guardai con una punta di soddisfazione e di simpatia per lui. Sentii che forse era davvero una persona che poteva capire la mia frustrazione. Posò il proprio piatto ormai vuoto sul tavolo e mi rivolse uno sguardo sorridente, ma diverso dal solito tipo di sorriso al quale mi aveva abituato: pareva quasi imbarazzato per quello che stava per dire. "Del resto, il tipo di lavoro che svolgo non mi permetterebbe una vita coniugale normale...", continuò. La mia sopracciglia sinistra ebbe un moto spontaneo che io non le avevo ordinato, tentai di ignorarlo. "... è una parola che odio ma è l'unica che mi viene in mente in questo momento", continuò poco dopo. Mi lanciò uno sguardo indagatore: forse voleva capire se poteva continuare oppure era meglio fermarsi lì, niente confidenze, niente rischi. O forse voleva solo accertarsi che avessi capito. Gli occorse qualche secondo per decidere: "Intendo dire 'normale'... non credo di aver mai trovato una definizione di 'normalità' che mi soddisfacesse, sai? Potrei dirti che personalmente ritengo normale tutto ciò che rientra nella norma, quindi nel comune, nelle cose che la maggior parte della gente fa. Eppure non credo che sia solo questo. Capisci cosa voglio dire?". Lo avevo ascoltato senza perdermi nemmeno una virgola. Avevo guardato quegli occhi azzurri ed avevo seguito il cambiamento di dimensione delle pupille mentre si adattavano all'aumento di adrenalina in circolazione. Deglutii un paio di volte, avevo la bocca quasi asciutta e finalmente riuscii a tirar fuori quattro parole: "Si, credo di capire cosa vuoi dire. Lo vedo tutti i giorni. Davanti allo specchio del bagno quando mi rado..." Lui rise, una risata breve: "Non penso che tu sia poi così normale..."
"Beh, lo prendo come un complimento! Perché è un complimento, vero...?" Swan non rispose, si voltò per prendere dell'altro vino e me ne riempì il bicchiere: "Alla tua salute e fidati, non sei così fallito come credi".
So che alcuni di voi dopo aver letto quello che sto per dirvi si metteranno a ridere di me, e se avrò fortuna, altri sorrideranno soltanto, ma io andrò avanti comunque, perché arrivato qui non posso più fermarmi. Mi accorsi di essere tanto vicino al pianto d'avere la vista acquosa. Ero commosso, depresso, eppure stavo bene con quell'uomo. Riusciva ad entrarmi dentro come nessun altro aveva mai fatto, uomo o donna che fosse. A parte il medico che mi controllò la prostata tre anni fa... forse.
Mentre bevevo un sorso di vino per nascondere le lacrime che concludevano il loro percorso, lui parlò ancora, a bassa voce, poggiandomi una mano sulla spalla. Si era fatto precedere da un profondo sospiro. "Voglio dirti una cosa che pochi sanno. E se lo faccio è per farti capire".
"Cosa dovrei capire?", chiesi io, tirando su con il naso.
"... capire che poche cose sono ciò che sembrano. E tu ti intestardisci a pensarla al contrario, nonostante tu stesso abbia scoperto che non è così. Non sempre".
"Quasi mai...", aggiunsi.
"E ti senti un fallito per questo, accumuli delusioni su delusioni. Ti senti un diverso, un bastardo freddo e menefreghista".
Mi scappò un sorriso a tre quarti di bocca. Amaro, ci tengo a sottolinearlo. Ma lui andò avanti impavido come un cavaliere della Tavola Rotonda. Per un attimo lo vidi appesantito da un'armatura tirata a lucido, il viso nascosto dall'elmo. Nella mano una lunga spada. Lucente, certo.
Swan si prese tempo, gli occhi bassi sul pavimento di legno consunto dai passi. Ebbi paura, devo ammetterlo, ebbi paura che stesse temporeggiando perché la sua sarebbe stata una di quelle rivelazioni che ti tramortiscono, peggio di un flacone di sonniferi. Voleva prepararmi. Dopotutto non lo conoscevo affatto, avevo parlato con lui solo per qualche minuto, poteva essere chiunque. In quel contesto non mi avrebbe meravigliato se mi avesse improvvisamente messo le mani alla gola e spezzato la carotide con una leggera pressione delle dita. Economicamente non ne avrebbe tratto grande guadagno, forse soddisfazione personale, chissà. Poteva essere un maniaco che uccideva gli uomini in viaggio d'affari per qualche suo complesso di inferiorità in incubazione da quando era fanciullo...
"Sono un esecutore", disse semplicemente. Lo fissai per qualche attimo: non riuscivo ad afferrare. Esecutore di che? Si occupava di testamenti? Forse aveva visto in me alcuni segni inequivocabili della decadenza fallimentare. Temeva potessi sconvolgere la quiete di quella ridente cittadina con qualche bravata? Per esempio, potevo fare man bassa al negozio di liquori, svaligiandolo di tutte le bottiglie di alcolici e superalcolici. In questo caso avrei dovuto tener bene a mente di fare il colpaccio di notte: sicuramente il mio amico proprietario sarebbe stato più contento, non gli avrei messo in crisi uno dei punti fermi della sua vita. Perché vendere alcolici solo la notte era un punto fermo per lui, lo sentivo.
Lui scandagliò i miei pensieri e mi venne in aiuto: "Uccido la gente legalmente. Tolgo la vita a coloro che la legge ritiene colpevoli di crimini".
Ero senza parole. Mi rendevo conto di continuare a fissarlo inebetito, ma non potevo proprio farne a meno. Mi inumidii le labbra per cercare di distrarmi, di darmi un contegno: dopotutto era un lavoro come un altro, cosa c'era di tanto strano? Nulla, chiaro. Eppure mi turbava in modo quasi doloroso. Non potevo crederci, era assolutamente improbabile che un uomo con quell'espressione facesse un lavoro del genere! Mi rifiutavo di credergli. Non volevo ammettere a me stesso di essere deluso.
Per essere davvero certo che avessi capito o volessi capire bene, aggiunse: "In altre parole Dave, io sono un boia".
Un boia. Lo guardai dritto negli occhi e non fui scosso da alcun brivido di paura. Ero pronto, lo stavo aspettando. Volevo mettere alla prova il mio intuito, volevo scrutare a fondo quegli occhi e stare a vedere cosa accadeva: nulla. Vidi gli stessi occhi azzurro-terso di prima, lo stesso viso da bambino troppo cresciuto. Solo l'assenza di sorrisi, questa volta, inevitabile.
Stavo per rispondergli, senza sapere bene cosa gli avrei detto, quando lui continuò: "Non pensare cose tristi, non occorre. Lo è già abbastanza di per sé. E poi non ho ancora finito, non era questa la cosa che ti avrebbe fatto capire".
Certo, già, mi ero completamente dimenticato di dove fossimo partiti. Era un minuscolo puntino in lontananza adesso.
Swan si alzò ed iniziò a camminare per la piccola stanza. Su e giù. Lo seguivo attento, stanco e depresso.
"Quando sono lì, con il condannato, e manca poco, solo pochi minuti se non secondi alla sua fine, ma ancora prima... quando sono al suo fianco, dal primo momento all'ultimo, io canto".
Mi guardò come non aveva mai fatto prima, investendo quello sguardo di tutta la speranza che riuscì a trovare dentro di sé. Capii che la sua speranza ero io: voleva che lo ascoltassi. Ero così emozionato che mi tremavano le mani, cercai di fermarle mettendomele in tasca. Mi schiarii la voce: "Tu canti".
Annuì con la testa. Non capivo. Probabilmente aveva ragione lui: mi fermavo alla prima interpretazione di ciò che avevo di fronte senza inoltrarmi oltre. Territorio sconosciuto, pieno di pericoli e di faticose salite: mai stato il mio pane. Mi stavo innervosendo, e mi sembrava che quell'uomo non mi fosse più così simpatico, iniziavo a sentire una specie di dispettosa antipatia nei suoi confronti, del tutto incontrollabile. E la cosa più tragica era che io odiavo sentirmi così perché sapevo che quella mia stizza da asilo infantile era solo orgoglio, peggio: paura, o se vogliamo essere onesti sino in fondo, panico. Insomma: in quel momento avevo di fronte quell'ammasso di muscoli che mi stava rendendo partecipe di una parte della sua vita e, potevo sbagliarmi anche su questo, ma aveva tutta l'aria di essere una cosa profondamente seria. Non era un episodio trascurabile nella mia esistenza, volevo riservagli un posto d'onore, fare per una volta una cosa che mi avrebbe fatto guadagnare qualche punto nella mia personale graduatoria. Così, senza smettere di guardarlo nemmeno per un attimo, gli feci la domanda più ovvia ma anche la più importante: "Perché?".
"Perché canto?", mi fece eco lui.
"Sì, perché canti?".
"Tu cosa pensi?".
Abbassai gli occhi, scuotendo il capo: non riuscivo a trovare nulla di abbastanza intelligente da usare come risposta.
"Vedi...", cominciò allora Swan, "...continui a vedere solo le apparenze...", mi sorrise, poi proseguì: "canto perché ho illusione che faccia stare meglio le persone che porto alla morte, canto per sconfiggerla, canto perché non vorrei uccidere ma lo devo fare, e se non facessi io ci sarebbe qualcun altro che magari non canterebbe... canto perché mi aiuta ad amare la vita in ogni sua rappresentazione. Canto perché vorrei che la persona al mio fianco in quel momento amasse l'armonia della musica e non si sentisse sola ad affrontare la paura. Canto perché qualcuno, una volta, mi disse che il demiurgo è in noi stessi, e da allora non me ne sono più dimenticato. Canto perché vorrei saper creare gioia".
Restai a fissarlo anche quando delle sue parole era rimasta solo una leggera risonanza. Continuavo a non capire per quale bizzarro motivo mi sentivo male. Il disagio che provavo non era attribuibile solamente alla delusione, ci doveva essere ben altro nascosto da qualche parte nel mio subconscio. Saperlo mi faceva star peggio, avere quei due occhi azzurri piantati nel cervello che rovistavano indiscreti, era quanto di meno desiderasi in quel momento. Avrei voluto alzarmi ed andarmene da quella stanza, montare in macchina e dire addio a quella gabbia di matti, ma per andare dove? Ai miei impegni, al mio viaggio di lavoro, certo... ora era tutto così lontano e, se possibile, ancora più insignificante. Chiusi gli occhi e mi lasciai andare contro lo schienale della poltrona. Li chiusi a lungo. Forse riuscii addirittura ad assopirmi, non so per quanto tempo. Questo non lo so davvero. Ma so che sentivo una voce d'uomo che cantava una melodia dolcissima, così gravata di tristezza eppure alleggerita da una felicità appena raccontata.
 
La cella iniziava ad essere allagata dall'odore di sudore del suo occupante. La luce al neon non si era spenta mai durante la notte, neppure per un secondo, gli aveva tenuto compagnia in modo ossessivo. Si sentiva distrutto la sera prima, ed aveva chiesto se ci fosse la possibilità di avere un tranquillante, un qualcosa che non lo facesse pensare. Gli avevano riso in faccia. Poi avevano fatto anche di peggio, ma non lo ricordava già più. Nonostante questo, era riuscito ad addormentarsi per un pò.
Era steso sulla branda, rannicchiato sul fianco sinistro, la posizione che preferiva. Un rumore metallico lo riscosse: qulacosa nella sua memoria riffiorò con prepotenza, tanto da fargli spalancare d'improvviso gli occhi. Nelle sue orecchie ancora quel canto, quella voce così armoniosa.
C'era un uomo in piedi a passi da lui, con la bocca aperta. Gli stava dicendo qualcosa. Si mise a sedere sul letto e lo guardò meglio, cercando di fare chiarezza nella sua mente. Si sentiva intontito, stanco. Quell'uomo aveva un qualcosa di così familiare. "Dave...", gli disse, "... è ora, coraggio... Ti prometto che sentirai solo la mia voce, concentrati su di lei: canterò per te".
 

 Classifica Concorso Club poeti 2001 sezione narrativa

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ins.4 maggio 2001