Autori contemporanei
affermati, emergenti ed esordienti

Andrea Walter Castellanza
Con questo racconto ha vinto il quarto premio nella settima edizione del Premio Letterario Internazionale Il Club dei Poeti 2003
Le crete del tempo
 
"Ciao.
Sto cercando di trasformare un pensiero in parole, e non è facile. Sto cercando di mutare forma all'anima dentro ad un corpo: il corpo che mi è apparso solo pochi minuti fa attraverso un mojito liscio e medicinale solo come può esserlo un infuso di rum cubano alla yierba buena, stroncante e misterioso esattamente alla maniera del sorriso di una donna che ti guarda fisso negli occhi.
Ero in un locale nuovo e bianco sulla strada che porta alla casa dove sono stato concepito e nato: nell'aria galleggiava la mia essenza, la mia tradizione ed il mio passato.
Ho attraversato a precipizio la città lungo questa strada, non cambiando mai velocità, lanciato verso il nulla; mentre il motore rombava e ronzava nelle mie orecchie, l'unico fine, l'unica fretta, era quella di arrivare a casa, dove avrei potuto congelare i miei pensieri per te all'infinito. Quei pensieri poetici e patetici che mi hanno colto questa sera dopo una Biere du Demon, una Labbat's Ice e un mojiito immotivato. Non so se ti amo, come tutte le volte mi sembra la prima volta e mi si confonde dentro la consapevolezza dell'amore, il desiderio della passione e l'istinto debole e lontano, eppure presente. Come uno spirito nel vento cerco di essere trascinato dove il destino vorrei mi trascinasse, ma non riesco a deciderlo da solo, dove andare. Ondeggio, e mentre il rollio della mia povera barca mi pare l'andatura di un transatlantico semiaffondato, vorrei affrontare coi miei fragili remi l'oceano intero solo per te... ma poi mi pento e poi ritorno in mare e mi pento ancora e ancora risalpo.
Il mio mare e il tuo mare sono vicini: sono fatti della stessa acqua e dello stesso sale come tutti gli oceani del mondo, ma vorrei sapere, e se ci fosse un dio solo a lui lo chiederei, se i nostri mari sono fatti anche delle stesse onde e se la dinamica segue l'essenza. Insistiamo piano, troppo piano, io e te, con lo stesso becchettio sulle crete del tempo... Io sono di sì, ma non solo sogno: lo vedo anche... Ho dimenticato il tuo viso da sogno, vedo invece il tuo viso reale, continuo, la tua anima coerente col mio spirito e i tuoi difetti che ballano coi miei difetti. Mai forse sono riuscito a trovare chi mi entrasse dentro volando nel plasma del mio sangue sapendo bene dove trovare il mio cuore e, soprattutto, correre sui miei nervi come vento teso, come fai tu con la tua intelligenza; tu che raggiungi il nucleo del mio pensiero e spezzi il mio isolamento.
Una pazzia, questa lettera, scritta così come nessuno vorrebbe riceverla: una follia da serial killer, un vaneggio di pazzo, una cosa di cui avere paura. Forse ne avrai, o forse riderai... non so.
Il mio non sapere riflette il mistero di una sensazione regalata dal destino e che il fato stesso, lo sento, mi porterà via prestissimo".
 
Non so che sapore hanno le notti, quando si è innamorati. Non l'ho ancora capito. Le notti piovose di lacrimi fini e fitte, che precipitano davanti ai palazzoni e, se la serata lo prevede, magari davanti alle torri gemelle della stazione Garibaldi, tra ponteggi eterni e cantieri inevasi da millenni. Lo sferragliare di un tram notturno non basta a far rivivere la notte. Non so perché pensassi quelle cose, tornando a casa, lontano, ma non troppo, da Milano, dove lei, insospettabile, magari poteva anche pensare a me, e magari sentirmi col pensiero, sempre che il vento soffiasse verso sud.
Le ultime parole di quella lettera esaurirono l'inchiostro della pennaccia di plastica rosicchiata che stavo usando. La firma rimase un solco trasparente sulla carta.
Ore 3: 27. "Buio di primavera nel paese dei balocchi rotti". Tutte le case dormivano sommesse sotto il ticchettio della pioggia fine. Il vento spazzava l'ondulare delle gocce. Uscii con la lettera in mano senza ombrello, protetto solo da una fida maglietta con le maniche corte. Non bastò il trance agonistico per evitare la pelle d'oca e i peli degli avambracci rigidi e ribelli alla brezza. Ma non si può aspettare che l'acqua cancelli l'inchiostro, sciolga la carta, che il tempo distrugga l'ansia d'amore.
Ripresi il bolide, rifacendo a ritroso tutte le mille rotonde inutili ed enormi che mi separavano dall'autostrada, proprio quella lingua grigia che mi portava tutte le mattine al lavoro a venti all'ora, prigioniero della vita quotidiana, fermo coi miei centotto cavalli tra piazzisti che si facevano la barba, colletti bianche che leggevano "La Gazzetta" e studenti automuniti che dormivano sotto gli occhiali da sole. Ma quella notte no: il mondo, e Lei, mi aspettavano. Vidi passare i cartelloni grandi e verdi delle uscite uno ad uno: Castellanza, Legnano, Lainate e poi il casello, varcato a manetta col sibilo del telepass. La pioggerellina si era fatta fitta, a goccioloni. E il lunotto ne disturbava la caduta tranciandola prima che toccasse l'asfalto. Sul vetro un tambureggiare di charleston e grancassa, e grossi schiaffi di tergicristalli. Che bella l'autostrada vuota.
Ore 3: 52. "Osservo i cristalli verdi dell'orologio, si fondono uno sull'altro e creano una sfera rotante e ruotano e ruotano. Ho il cervello in pappa. Freno".
Il muro era troppo vicino, molto vicino, accarezzato. Mi fermai un attimo per osservare lo sfregio. Lo specchietto destro sradicato e le rughe del cemento stampate sulla guancia della mia macchina.
<Chi se ne frega!>, dissi. <Ho una missione da compiere. Vale di più>. Risalii in auto. Entrai a Milano, ma piano piano. Vialoni, transessuali che smontavano il turno di guardia sotto la pioggia e mille banchetti di panini e porchetta, che uno si chiede come fanno.
Il centro di Milano alle 4.17 merita una visita più attenta, con i suoi palazzoni liberty-neoclassici-razionalisti e chi più ne ha più ne metta. Illuminati bene o male e massicci. La lettera, in lacrime, era ancora lì, piegata, in tasca. La rilessi, fermo sotto casa sua. Che difficile, che bella. Giusta per lei, difficile e bella come quelle parole in cascata.
Il suo nido, il nostro nido era proprio lì, tra alberi di cemento dritti e larghi, tra filari di finestre della case di rappresentanza ormai cannibalizzate dalle banche. Resisteva solo casa sua, la sua piccola e bella casa, preziosa e inarrivabile per i comuni mortali. La casa di una donna indipendente con un padre ricco. La casa delle contraddizioni, dove ci stringemmo per la prima volta.
Ore 5.00. "Il nulla è arrivato, il vuoto". Aspettare seduti su un marciapiede sotto la pioggia può essere lunghissimo. Ma aspettare cosa? Mi guardai nella pozzanghera in cui avevo immerso le scarpacce da tennis che mi conducevano ovunque. Avrei voluto vedere un uomo coi capelli bianchi, radi, vecchio, che annaspava verso l'ultimo amore della sua vita. Ma così non era. Ero, sono giovane. Le increspature concentriche della pioggia nella pozzanghera mi restituirono deformato il mio volto di ragazzo non più ragazzo, i miei capelli neri impastati sulla fronte. Non lasciate mai il vostro amore in un giorno che piove. Affidatevi al sole, alla primavera. Cambierete idea, se ne vale la pena.
Le mie scarpe si trasformarono presto, disciolte dall'acqua. I miei piedi nudi e sordi divennero grinzosi.
 
Ore 5.01. "Non sono più quello di una volta: l'asfalto freddo sul culo mi rende triste, e mi fa male la schiena. I miei piedi sono ora coperti di pelle, il miglior cuoio. Il migliore. Il marciapiede, Milano, la notte, sono rimasti uguali. Non ho più amato nessuno così. Come trent'anni fa. Mi sono sposato e ho litigato ancora. Ma non è mai stato così. Di quella sera ricordo tutto, e c'è ancora tutto, esattamente nella posizione di allora. Piove come quella notte, le lancette segnano la stessa ora. Siedo sullo stesso selciato. Qualche facciata è più pulita, ma le luci sono fatte degli stessi fatoni ballerini di allora. Le mie basette e i miei capelli sono ormai bianchi, ho sessant'anni. Li vedo stampati nell'acqua della pozzanghera tremula, i miei sessant'anni. Ripenso a quella notte che passai qua sotto, inerme di fronte all'amore che sfumava.
Ieri ho saputo che lei se n'è andata. Per sempre. Non l'ho più rivista da allora e non penso che sia vissuta ancora qui, suonando gli anni sul suo violino, in questo palazzone del padre che ora non è più di nessuno. Non le diedi mai la lettera. Quella lettera... in quella lettera lei è iniziata e finita. Eppure quella carta c'è ancor: oggi l'ho ripescata da una scatola, l'ho rimessa in tasca e sono venuta qui. Adesso galleggia nella pozzanghera, sul pelo dell'acqua. Forse lei, dal vento dove vola, ora la vedrà, in fondo anche quelle parole saranno sempre vento.
Io sono ancora pioggia che ricorda pioggia.

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Ins. 13-05-2003