Autori contemporanei
affermati, emergenti ed esordienti

Alfredo Caponnetto
Con questo racconto ha vinto il nono premio nella settima edizione del Premio Letterario Internazionale Il Club dei Poeti 2003
La stufa a gas
 
La littorina della ferrovia Circumetnea arriva in stazione alle 7.15 puntuale, sbucando da una curva a destra e sibilando a lungo prima di comparire. Le prime case del paese sono lontane poche centinai di metri, separate da una tipica vegetazione mediterranea, attecchita tra le vecchie colate laviche di chissà quanti secoli. In stazione siamo quasi tutti ragazzi, pronti a saltare su, appena le porte si saranno aperte. Pochi sono gli operai che si spostano con la ferrovia. Due o tre muratori e qualche vignaiolo.
Alla ripresa della scuola, il 1° ottobre, ho appena compiuto i quattordici anni, e mi appresto anch'io a salire su questa sgangherata vettura che mi porterà in un altro paesino della cintura Etnea. Al mio paese ci sono tutti gli istituti "di questo mondo", ed io proprio uno sconosciuto dovevo scegliere, tra le proteste di mia madre che non vuole che questo figlio, piccolo e minuto, debba ogni giorno allontanarsi dalle sue gonne per frequentare una scuola quasi sconosciuta e lontana da casa più di venti chilometri. Ma questo paesino freddo sull'Etna, quasi misterioso, mi ha convinto, a fine agosto, ad andare direttamente in segreteria assieme a due amici, e saltare una volta per tutte il fosso, visto che siamo rimasti indecisi per troppo tempo su quale indirizzo scolastico intraprendere. A distanza di anni mi accorgo, ed è stupefacente, come le scelte compiute nell'adolescenza avvengano più seguendo l'istinto del momento che la vera attitudine. Eppure era una scelta vitale quella che stavo per fare; solo che non avevo &endash; come tutti &endash; la coscienza delle decisioni storiche, uniche e irripetibili. Solo il tempo mi avrebbe detto se la mia decisione fosse stata giusta. (A dire il vero non sapevo nemmeno che ci sarebbero stati in futuro anche questo tipo di giudizio e questa resa dei conti). Da ragazzi si sceglie e basta. La storia personale, il tempo, non esiste niente. Nessuno di noi, del resto, aveva chiesto consigli ai genitori su quale strada seguire: semplicemente non era previsto. Loro ne sapeva quanto o forse meno di noi. Quelli della mia generazione, in Sicilia, non sono stati guidati alla vita, né educati. Ci siamo tutti, chi più chi meno, autoeducati. E le scelte noi le abbiamo fatte tutte sulla nostra pelle, quasi sempre sbagliando. Le esperienze, i metodi, il "mestiere della vita", erano tutti degli ingranaggi che venivano tramandati verbalmente per strada e a voce bassa, velati da una sorta di mistero e da una connotazione personale. Era così e così sarebbe stato. La vita in Sicilia bisogna costruirsela, e prima si inizia meglio è. Non c'è niente di sicuro, nessuno ti può garantire che un giorno sia uguale ad un altro.
 
Quella mattina, 1° ottobre 1964, iniziava una nuova vita: nuovi amici, nuovi insegnanti, un nuovo mondo e, soprattutto una nuova materia; la chimica.
<Non ho ancora capito cos'è questa chimica>, mi chiese tra lo sbigottito e l'incredulo mia madre, quanto finii di ripeterlo per la quarta volta!
<È una materia nuova, non preoccuparti. Sarà il mio mestiere da grande>. Sì, un nuovo mestiere, ma io stesso non sapevo un giorno dove andare a lavorare, visto che dalle mie parti nessuno sapeva cos'era una fabbrica, né com'era fatta. Una cosa s'era capita in casa, e mia madre sembrava stare quantomeno in fase di allerta: che questo figlio non avrebbe fatto il mestiere che da decine di generazioni s'era sempre fatto, senza nemmeno fiatare, né opporsi al destino. Il muratore non l'avrei mai fatto. Chiunque aveva intuito che non era il mestiere adatto a questo figlio, che non voleva né crescere, né prendere quel po' di peso come si conviene nelle famiglie a cui non manca il pane in casa.
<Questo figlio mi sembra un rivoluzionario>, sentenziava scoraggiata mia madre tutte le sere, allorché presentava il resoconto dell'intera giornata a mio padre. Ma era tardi, e mio padre troppo stanco perché la stesse a sentire più del necessario. C'erano altri problemi che bisognava affrontare in quelle poche ore trascorse assieme e da svegli. I conti della famiglia che non quadravano mai, questi erano i veri problemi. Due figli da mantenere, la moglie e la casa, come diceva mio padre. Troppo su due sole spalle, ma lui non fiatava, e tirava la carretta come un somaro, sei giorni su sette, per dodici mesi all'anno, senza soste previste o impreviste. Lavorava e basta. Lo stomaco dei figli non conosce soste, reclama tre volte al giorno, puntuale e inflessibile al tempo e alle mode. Già da piccolo cominciai a conoscere il valore della saggezza antica. E le sentenze dei genitori erano sentenze definitive.
 
Il 1° ottobre in Sicilia ci si veste ancora con una camicia o al massimo con un maglioncino.
I libri sottobraccio tenuti assieme da una cintura elastica e via, alle sette del mattino.
I primi giorni, tutti noi ragazzi abbiamo il naso attaccato ai vetri della littorina, pronti a scoprire quel mondo che via via ci sarebbe divenuto familiare. Là le colate laviche, lì gli uliveti, là le ginestre, oltre la fermata di Scalilli, i vigneti coltivati a terrazza. La piana di Catania, in lontananza, era una macchia verde di aranceti e sembrava di sentirne il profumo. Lontano il cratere dell'Etna, sempre fumante, col pennacchio ora bianco, ora grigio di sabbia. A noi il vulcano non ha mai fatto paura; la paura non ci è mai stata trasmessa da nessuno. Sulle colate laviche ci camminiamo, è vero, ma per noi sono lontane due o tre secoli e non ci trasmettono nessuna sensazione.
Un viaggio di venti chilometri dura circa un ora. È davvero lenta questa littorina, si deve arrampicare, fa fatica, avrebbe anche voglia di sbuffare, e se avesse la parola potrebbe anche bestemmiare. Le fermate non sono poi così tante. Qualcuna in aperta campagna, una sola in una stazione, a Santa Maria di Licodia, dove iniziano gli uliveti che danno la ricchezza a questa gente di mezza costa. Il paesaggio è stupefacente, è come viaggiare dentro un quadro d'Autore. Il conducente parla e scherza con noi ragazzi, ci richiama come un buon padre, ci raccomanda di non sederci lì davanti, accanto a lui, alla sua destra, dove c'è il motore, e di non fumare perché siamo ancora troppo giovani. Quel viaggio lento riesce anche ad essere movimentato; incomincia ad essere una palestra di vita, dove i più giovani ascoltano discorsi strani, e le dispute tra i più smaliziati ci vedono spettatori silenziosi. Quell'unico vagone della littorina ha l'aria ed i toni di un mercato arabo. Chissà, tutto sommato, lavorare un giorno per la ferrovia non sarebbe poi così male, penso. Ma non posso fidarmi dei miei pensieri e dei miei desideri momentanei: sono troppo volubile, ed è meglio non parlare troppo dei miei gusti fugaci.
Finalmente si scende. L'aria qui è davvero frizzante, mette qualche brivido se non si è coperti. Chissà come sarà l'inverno da questi parti, mi fa notare Orazio, un nuovo compagno di viaggio che verrà inserito nella mia stessa classe. È più alto di me, magro come me, con gli occhi più chiari dei miei. Occhi buoni, di quelli che non ti tradiscono, penso. E lo eleggo, in segreto, mio amico, quello che diventerà il mio migliore amico.
 
L'istituto è quasi adiacente alla ferrovia, al di là della stazione. Bisogna solo aggirare i binari, attraversare una stradina sterrata e ritrovarsi davanti al cancello imperioso, in ferro battuto, della scuola. Questa è una costruzione imponente: non saprei dire se è nata come scuola o se è stata adattata negli anni alle necessità. Il preside, ci dicono, non è mai in Istituto. La scuola è una sezione staccata di Catania, e a reggere il tutto è chiamato il segretario, un tipo corpulento, con forte accento di Adrano, un'inflessione tipica che a noi ragazzi suona come una litania, e difficilmente ci sottraiamo allo sberleffo. Il segretario Cipriani è un'istituzione. Inflessibile come il suo corpo, duro come le sue guance, deciso come la sua andatura. Stai a vedere che nella struttura di un uomo risiede anche il segreto del suo carattere, delle sue aspirazioni? Davanti al portone, come di duce sul balcone di Piazza Venezia, diritto sull'ultimo gradino chiede silenzio. E subito è silenzio.
<Iniziamo a fare l'appello con la 1^ A: Abate, Amato, Bertino...>.
Ognuno dei chiamati si pone alla sua sinistra; finito l'elenco ci conduce in una grande aula. Una cattedra, una lavagna, e poi banchi, decine di banchi di colore verde, di formica, posti in tre file, così diversi dai banchi delle scuole medie, di legno, caldi e familiari. Tre finestre lasciano intravedere la pensilina della stazione ferroviaria. Anziché entrare il sole da quelle finestre, ho l'impressione che entri più il freddo. Qualche settimana ancora e avremmo indossato il cappotto in aula. Mi accorgo che sto crescendo, e che forse comincio a pagare il prezzo delle mie illusioni.
Passano i giorni e le settimane. L'unico elemento importante è la focaccia farcita che la mamma di Orazio prepara una volta la settimana. È una pagnotta di pane fresco con dentro i broccoletti "affogati" con formaggio, salame e olive nere. Peccato non avere anche un buon bicchiere di vino di San Vito, quello che consumiamo giornalmente a casa. Un gruppetto di amici riusciamo, tutte le settimane, ad assaggiare questa focaccia, ed è una vera magnificenza, un canto gregoriano che riesce ad innalzarsi nei cieli più alti. Con il nostro egoismo riusciamo quasi a non farlo pranzare, povero Orazio, decisamente il più buono di cuore, ma anche quello che dimostra, tra di noi, più saggezza, come se avesse vent'anni anziché quattordici. Come mai sia così assennato, immune dall'egoismo tipico dei ragazzi, nessuno se lo chiede.
A dicembre, ai primi di dicembre, ne parlo con Orazio. A scuola fa troppo freddo, batto i denti, sembro un castoro spelato. E come me anche i miei compagni non se la spassano. Decidiamo di fare richiesta di una stufa a gas, di quelle che sembrano le parabole delle telecomunicazioni. Non sarebbe certo bastata per un'aula così grande, ma se il bidello la accendesse alle sette del mattino, faccio notare, forse per le otto, o magari le dieci, ci sarebbe un piacevole tepore. Il segretario Cipriani, l'inflessibile Cipriani, ci fa sbattere quasi a pedate fuori dalla segreteria. Ci guardiamo attorno, increduli, silenziosi, quasi tremanti, e non solo per il freddo. Abbiamo la netta sensazione che c'è qualcosa che non coincide nel mondo. O forse non coincide solo nel comportamento di Cipriani? Ho imparato in quegli anni, a quattordici anni, a pormi delle domande, e ancora a molte non sono riuscito a dare una risposta. Le decisione prese per equità e giustizia sono le meno adottate, e chi può ne fa volentieri a meno. Incominciavo a capire che tutto quello che sogni difficilmente si avvererà. Perché qualcosa si avveri non devi nemmeno sognarlo.
Siamo tornati "scornati" in classe, io, Orazio e Pietro. Eravamo tre pulcini bagnati, sconfitti pur senza andare nemmeno in guerra.
Qualche giorno ancora, e riunisco, durante la ricreazione &endash; che aveva il sapore dell'ora d'aria dei carcerati &endash; tutti i compagni di classe, intenti chi a mangiare un semplice panino, chi a consumare tutto ciò che la propria madre aveva loro messo nel sacchetto di carta. A dire il vero è una bellissima giornata di sole, e addosso abbiamo tutti la voglia e l'incoscienza di vivere felici.
Avanzo la mia richiesta e chiedo di metterla ai voti: scioperiamo se il Cipriani non ci compra una stufa. La nostra è una richiesta sacrosanta, legittima, è fin troppo evidente. La proposta passa senza colpo ferire, all'unanimità. Alcuni miei compagni dimostrano l'entusiasmo delle grandi occasioni &endash; uno sciopero non era cosa di tutti i giorni &endash; altri invece ci elargiscono il loro voto con distacco, quasi distratti. Ho incontrato altre decine di volte, nella vita, persone che preferiscono vivere ai margini senza assumersi alcuna responsabilità, piuttosto che essere protagoniste o almeno tentare di lasciare una piccola impronta del loro passaggio. Ho imparato che l'ignavia è il male peggiore.
Lo sciopero è indetto per la metà di dicembre, quasi a ridosso delle feste natalizie. Sembra che ci facciamo il regalo di Natale, e non immagino nemmeno lontanamente che do l'inizio alle mie sventure.
Quel breve tratto di strada sterrata che separa la stazione dalla scuola non è granché, ma non è decente nemmeno il numero di scioperanti, una trentina, ovvero l'intera classe, che può far paura al Cipriani. Il nostro "potere contrattuale" è praticamente zero, ma nella nostra adolescenziale incoscienza quello che stiamo per attuare è motivo di orgoglio, da raccontare alle generazioni future. Uno sciopero all'Istituto Tecnico Industriale non s'era mai visto. Ci stiamo comportando, insomma, da grandi. Mi pongo alla testa di questo minuscolo corteo, a cavalcioni sulle spalle del compagno di scuola più mastodontico, certo Furnari, un ragazzone di chissà quanti anni più vecchio di noi, uno che aveva ripreso la scuola dopo aver provato che zappare la terra dal mattino alla sera è molto più faticoso.
Giunto sotto il cancello in ferro battuto dell'Istituto, con slogan inventati al momento, scorgo i capi affacciati alla finestra del primo piano, la finestra della segreteria. Cipriani, il professore di lettere Fichera, l'insegnate di geografia, il bidello (anch'esso era un'istituzione).
Sono euforico. Abbiamo centrato l'obiettivo, tutti ci hanno visto e riconosciuto, e sicuramente ci daranno retta; ci avrebbero comprato l'agognata stufa a gas.
 
Gli effetti di quello sciopero non si fanno attendere.
Mia madre è convocata qualche giorno dopo. Devo dirglielo io stesso che è attesa in segreteria per comunicazioni.
<Suo figlio, mia casa signora, è un capopopolo>, sentenziò Cipriani a mia madre, e sono le stesse parole che riporta la sera, fedelmente, a mio padre, nel dopocena, nel solito resoconto quotidiano. Mio padre sembra non preoccuparsi. I capipopolo non esistono più, fanno parte di un passato, sebbene ancora recente. Eppoi questo figlio non ha la statura, né la scorza del capopopolo, sebbene sia testardo e abbia una certa personalità.
Gli effetti non si lasciano attendere, perché nella pagella del primo trimestre, appare un "sette" nel primo rigo, quello riservato alla condotta. Significa essere bocciato a fine anno, e se non riesco a rimediare, la questione diventerà quantomeno imbarazzante. Non si è mai visto un alunno essere bocciato per la condotta, non vorrai essere tu il primo in Italia.
<Certo che no, mamma>, le dico senza nemmeno troppa convinzione. Non si è mai vista una bocciatura per motivi banali, ma tutto sommato per noi importanti. È giusto lottare per una stufa, quindi al momento opportuno anche il segretario accetterà la bontà delle mie lotte. Da allora non ho più perso il "vizio" di stare in prima linea quando le circostanze me lo hanno chiesto, né di lottare anche per gli altri, quelli che distrattamente ti dicono di stare con le tue ragioni e poi, anche molto cautamente, si girano dall'altra parte. Di gente così ne ho conosciuta a bizzeffe, e ancora oggi continuo a fare gli stessi errori, a fidarmi incondizionatamente di loro, ad essere ancora testardo, come diceva mio padre.
 
A giugno arriva la resa dei conti.
E vince il segretario Cipriani. Ha semplicemente schiacciato come un moscerino quel piccolo alunno reo di stare in prima fila, sulle spalle di Furnari. Chi impugna il coltello dalla parte del manico non ha scampo: vince sempre, e senza nemmeno troppa fatica.
Mia madre diceva, nella sua saggezza, che chi mangia fa molliche, e questa è una delle verità in cui trovo spesso consolazione.

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Ins. 13-05-2003