Autori contemporanei
affermati, emergenti ed esordienti

Alessandra Santise
Con questo racconto ha vinto il quinto premio del concorso Concorso Letterario Fonopoli 1999 sezione narrativa
 
 
Ca valait le coup!
(L'ultimo treno)
 
Ho un ricordo ancora nitido di quel viaggio Torino-Parigi.
Allora non diedi alcuna importanza né ai paesaggi, né alle mie sensazioni. Solo un pensiero contava: "andare", senza poi capire cosa significasse davvero. Non credevo certo che avrei portato per sempre dentro di me ciò che invece, in quel momento, speravo di dimenticare.
La scelta dello scompartimento fu del tutto casuale: mi ritrovai di fronte a un vecchio signore francese in abiti scuri, accuratamente stirati. Il signor Dupont (il nome lo avrei appreso di lì a poco scrutando la targhetta della sua valigia) mi squadrava da sotto gli occhiali e le sue fattezze rimandavano in alcune rare espressioni a una gioventù remota. Quell'omino con gli occhi rotondi e vispi sembrava uscito dal romanzo di Bulgakov, ma io mi sentivo così poco Margherita che, sicuramente, non avrebbe potuto innamorarsi di me.
Il treno era partito e quel suo dondolio senza inizio né fine mi cullava, cristallizzando i ricordi in un'immobilità ineluttabile. Ormai rassegnata a una momentanea assenza di passioni, sentii il vecchio francese che &endash; senza alzare lo sguardo dal suo minuscolo libro &endash; sussurrava parole confuse, con toni e accenti assai poco parigini. "Ca valait le coup!" pareva dicesse e francamente non capivo a cosa si riferisse… ma, in un istante, i pensieri cominciarono ad affollarsi prepotenti e difficili da arginare.
Valeva forse la pena cercare con avidità e affanno quella che era solo una sensazione di felicità, pur sapendo che l'uomo vi anela al di là di ogni ragione?… O valeva forse la pena lottare contro inesorabili mulini a vento, come un cuore in inverno o come l'attesa di Godot? No, non era questo che intendeva. Io lo sapevo: avevo visto bruciare mille volte sogni, idee e progetti e quel fumo nauseante e denso aveva per mille volte riempito i miei occhi. Mi sentivo profondamente amareggiata da tutta la mia vita, che aveva seguito i suoi percorsi senza mai chiedermi niente e che continuava a fuggire inesorabile, benché la inseguissi… cosa voleva ora quest'inerme omino, che probabilmente non capiva niente di italiano e che, sicuramente, non capiva niente di me?… Non l'avrei più ascoltato! Mi rimisi così a fissare il finestrino e, al di là del vetro, oltre i tetti e la campagna, c'ero io nel ricordo più vivo che mai.
"Signora, è una bambina!". Nella mente tuonava ancora la voce roca di quel dottore rosso come Malpelo e anche se il dolore di quell'evento stupefacente mi aveva lasciato senza volontà, il vaglio di Daria, prima velato e poi fortissimo, era un'esplosione di gioia, una neve in agosto, una pioggia nel deserto.
Che bella Daria! Mia, tutta mia nella sua innocenza disarmante, totalmente dipendente da me e io, finalmente, davvero grande per qualcuno. In quella stanza bianca e sempre uguale, Daria splendeva di un candore tutto ocre, che solo i neonati sanno sprigionare. Anch'io sentivo riflessa in me un po' di quella luce: era sicuramente catartico l'amore che ci univa. Il mio cuore scoppiava di una gioia mai assaporata: avrei voluto chiudermi in casa e cullare Daria per ore: sole e insieme, mentre il mondo restava fuori, volgare, vuoto e ormai inutile. Io non avevo più peccati, né pensieri cattivi, né ricordi dolorosi e sicuramente Dio non avrebbe messo più muri sulla mia strada o sassi nelle mie scarpe! Ma non fu così.
Infatti quanto durò quella sensazione di pienezza e di slancio? Forse un istante… E può un solo istante di gioia riempire tutta la vita di un uomo?… Neppure il sognatore dostoevickijano, perso in improbabili notti bianche, trovò mai risposta a questo dolore.
Dupont si era addormentato e il peso dei ricordi cominciava a strapparmi al reale per tirarmi verso un baratro troppe volte conosciuto… Mi alzai e, cercando nella borsa posta sul ripiano superiore, trovai la rivista che avevo comprato a Porta Nuova, proprio in previsione dei momenti difficili, di quei momenti cioè, in cui avrei dovuto chiedere in prestito volti ed eventi, perché la mia vita e il suo scorrermi davanti mi erano insopportabili. Tutte quelle facce saltavano dalle pagine dei giornali e mi riempivano i pensieri, senza lasciare alcuna traccia nella mia memoria: figure vane, bellissime, inutili.
"Ca valait le coup!". Sbottò improvvisamente il mio compagno di viaggio, come se si fosse svegliato da un sonno a lungo protratto. Mi sorprese e il disagio che sempre deriva dall'incomprensione mi fece reagire con insofferenza: perché ripeteva questa frase in mia presenza, ma senza rivolgersi a me?…
Avrei voluto cambiare scompartimento, ma qualcosa mi trattenne lì. In fondo il signor Dupont mi incuriosiva: era francese, ma insieme aveva l'aria di un vecchio ebreo tedesco e, da quel che ispiravano i suoi occhi, era un uomo che aveva duramente lottato per sé e per le persone amate. Sicuramente sua moglie era simpatica, forte e robusta, serena e solida, sicura come una gatta, ma dolce come un uccellino. Si amavano e si aspettavano ogni sera per piegare con cura gli abiti smessi e infilarsi insieme nel piccolo letto di legno, per raccontarsi la giornata, come la prima volta che si erano amati. Dupont, da come brillavano i suoi piccoli occhi neri, doveva amare con semplicità, ma con quella passione e quella sincerità che sono solo di certi uomini: Aldo era così.
Aldo era di Arezzo e ci teneva alle sue origini toscane, forse perché, in questo modo, si sentiva legati a certi poeti, angoli e monumenti d'arte e di memoria. Quando mi disse che era architetto, pensai subito &endash; come un'adolescente innamorata del professore &endash; che avrei voluto farmi arredare la casa dalle sue idee. Già dal primo istante sognavo di infilarmi nel suo maglione grigio, di trovare pace nei suoi occhi scuri e nel fatto che l'avevo sognato fin da piccola. Aldo mi parlava con dolcezza e per me, al tavolo di quella pizzeria, c'eravamo solo noi due: gli amici intorno non contavano più nulla: solo le sue parole, i suoi sguardi, i suoi intenti. Che bello era vivere e forse, per un uomo come lui, una vita sola non sarebbe bastata. Il giorno del nostro matrimonio fu un disastro: pioggia e vento e avemmo perfino un piccolo incidente con l'auto. Ma la sera, da soli, nel letto dell'hotel "I due campanili" ci scambiammo parole e promesse che parevano note e colori su una calle veneziana.
Dupont mi sorrise, pareva aver seguito tutti i miei pensieri e voler porre rimedio alle lacrime che ora non riuscivo più a trattenere… "Ca valait le coup… c'est vrai?" … Non lo so, non lo so se è vero, perché la nebbia era troppo fitta, l'ospedale troppo lontano, mentre il cervello restava sull'asfalto. Quella telefonata nella notte aveva spaccato in due tutta la mia vita. Quanto tempo era passato dallo squillo del telefono alla distruzione del mondo? Un sitane.
Aldo era steso sul letto, bianchissimo, immobile, lontano. Quando entrai in quella stanza capii che non avrei più sentito la sua voce, armato i suoi pensieri: era finita. La vita sena di lui era insopportabile: il letto vuoto, il senso di inutilità, il suono della sua voce che mi chiamava da una stanza all'altra ma solo nell'immaginario. Perché avere quei giorni per poi freddarmi il cuore con uno schianto in autostrada?
A cosa era servito esserci stata quella sera in pizzeria e nel suo maglione? La casa era deserta e il cuore statico: asessuato come una foglia, immobile come un quartiere di periferia in una domenica d'agosto.
Dupont riprese a sonnecchiare e notai che portava al polso un orologio di foggia antica che, forse per uno strano riflesso della luce o forse solo per suggestione, sembrava essere privo di numeri e lancette… ma in quel momento il tempo non contava: passato e presente si intrecciavano a DNA dentro di me. Tutta la voglia di vivere era andata via e dentro solo "il deserto arido di un cuore malato" e un'assenza lasciata in eredità. Vivere a volte è un peso, un dovere logorante, un inutile appuntamento quotidiano.
Il treno si era fermato: gare de Lyon. Presi la valigia velocemente e mentre stavo per scendere, Dupont mi appoggiò la sua manina ossuta sul braccio sussurrandomi con dolcezza "Ca valait le coup… je suis sur". Sorrise, ricambiai, ma lui si risedette come se volesse proseguire quel viaggio, arrivato invece alla sua conclusione. Solo ora capivo il senso di quelle parole.
Parigi era bellissima, illuminata dai raggi viola che filtravano tra le nuvole grigie. Daria mi aspettava sorridendo e, forse per la prima volta, mi accorsi che aveva gli stessi occhi di suo padre, gli stessi gesti, la stessa forza di Aldo. Sì, valeva la pena avere vissuto, amato, sofferto e mentre questi pensieri affollavano la mia mente eccitata, mi voltai per cercare un'ultima volta lo sguardo di Dupont. Adesso ero di nuovo pronta ad aspettarmi, ad affrontare i muri sulla strada, i sassi nelle scarpe e qualsiasi altra cosa mi avesse voluto riservare quella giornata francese di maggio.
 

 

Concorso Letterario Fonopoli 1999 a sez. narrativa
 
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ins. 29 settembre 2000